Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Un Kennedy nero

Forse mi sbaglio.

Ma penso che l’America non abbia mai conosciuto una campagna tanto lunga, né tanto spietata, quanto quella vede opporsi Barack Obama a John McCain.

E credo, altresì, che da molto non si vedeva un dibattito tanto acceso, tanto importante, incentrato su questioni letteralmente cruciali, quanto quello che scuote, in questa occasione, gli Stati Uniti.

Ricordiamo bene la teoria di Samuel Huntington sul famoso “choc” di civiltà, sulla presunta opposizione tra “il West” e “il resto”, tra l’Occidente e il resto del mondo, tra l’America e l’Islam. Una teoria smentita, grazie al cielo. Una teoria che tutti gli spiriti ragionevoli ritengono sommaria, stupidamente guerriera, priva di considerazione per le faglie che attraversano i pretesi “blocchi” delle pretese “civiltà”, una teoria superficiale. Ma, a leggere la stampa degli ultimi giorni, a vedere la febbre che s’impadronisce dei due elettorati, a osservare con quale fervore gente giovane che mai, fino ad ora, aveva pensato d’iscriversi alle liste elettorali, si appresta, questa volta, a votare, si ha la sensazione di vedere tale teoria trovare qui, in questa occasione, un campo d’applicazione tanto esatto quanto imprevisto: come se il vero choc, la vera diatriba, il vero scontro delle vere civiltà, stesse qui- nello scontro tra i sostenitori d’Obama e quelli di un McCain che lascia dire alla sua vice, Sarah Palin, che Mosè era contemporaneo ai dinosauri, che il creazionismo dovrebbe essere insegnato nelle scuole con legittimità pari a quella del darwinismo o che gli Stati a maggioranza democratica non sono del tutto “americani”…

Non che Barack Obama sia l’uomo provvidenziale la cui sola apparizione possa essere sufficiente a rimuovere questa parte maledetta dell’ideologia americana.

E non si tarderà d’altronde, qualora venisse eletto, a veder affievolirsi l’entusiasmo, nella stessa Francia, degli elettori per procura di un uomo politico, eccezionale certo, ma che è solo un politico e non l’incarnazione di una umanità nuova, cittadina del mondo, meticcia –né, ancor meno, di non so quale Che Guevara che possa espiare tutti i peccati dell’America sull’Altare della Giustizia eterna.

Ma allo stesso tempo…

Obama presidente vorrà dire, volenti o nolenti, un viso nuovo per un paese devastato dagli anni Bush.

Obama presidente vorrà dire, anche senza un ritiro immediato dall’Iraq, una vera svolta nella politica estera americana nel senso del multilateralismo e della mano tesa al mondo.

Obama presidente vorrà dire, sul piano interno, un principio di unità per una società che non è mai stata tanto divisa, balcanizzata, tribalizzata, quanto in questi tempi cupi in cui il retaggio delle vecchie segregazioni trova rinforzo nell’irresponsabilità politica propria dei comunitarismi postmoderni.

Obama presidente sarà l’epilogo, in questo senso, di una lunga e bella storia avviata all’indomani della guerra di Secessione, portata avanti dai sostenitori di Martin Luther King e a confronto della quale i mandati di George W.Bush appariranno presto come una disincantata parentesi.

Obama presidente vorrà dire, sul piano sociale, l’avvio di quel famoso piano di copertura sanitaria universale la cui assenza era una macchia, un incomprensibile disonore, per quella grande democrazia.

E Obama presidente vorrà dire, infine, un programma economico (politica fiscale indirizzata al rilancio della domanda, aiuto alle collettività locali più toccate dalla crisi immobiliare, regolamentazione di un capitalismo la cui intelligenza quasi diabolica scappa ai suoi stessi attori ) che è il solo che possa, lentamente ma con certezza, riparare i danni commessi da questi decenni di regno della scuola di Chicago.

Il popolo americano avverte tutto ciò, non ne dubito.

Tutto questo hanno in testa coloro che vedono nell’elezione di Obama la possibilità del risveglio di un’America che riannoderà con il meglio di se stessa e della sua eredità.

Quanto a me, io non ho che un rimorso: il titolo di quel primo articolo che, quattro anni fa, dopo il nostro incontro, consacrai a colui che ancora era solo il giovane senatore dell’Illinois.

Quell’articolo, dapprima apparso sull’Atlantic Monthly, poi ripreso in “American Vertigo”, l’avevo dapprima titolato: “A Black Kennedy”.

Poi, su richiesta degli editori dell’Atlantic per i quali davo troppa importanza ad un illustre sconosciuto, avevo finito per attenuare titolando più modestamente: “A Black Clinton”.

Ebbene, me ne dispiaccio.

Perché dire “Clinton” significava già molto – ma era “Kennedy”, ce ne rendiamo conto quattro anni dopo, il vero nome della speranza che quel giovane uomo annunciava ed incarna.

Che Obama entri alla Casa Bianca, che diventi, come scrivo su queste colonne da anni, il 44° presidente degli Stati Uniti, e sarà, come per Kennedy, il segno di quella rinascita tanto morale quanto sociale, tanto economica quanto politica, attesa dagli Stati Uniti e, dunque, dal mondo.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 30.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

1 commenti:

2/11/08 2:40 PM Anonimo ha detto...

Non credo minimamente in queste doti taumaturgiche del meticcio futuro presidente. Riscontro che il voto razzista sarà tutto per lui, dal momento che, si dice , il 95% dei negri lo voterà. Bell'inizio !