Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Cose viste nella Georgia in guerra

1. La prima cosa che colpisce non appena si esce da Tbilisi, è l’inquietante assenza di qualsiasi forza militare. Avevo letto di come l’esercito georgiano, battuto in Ossezia, poi messo in ritirata a Gori, avesse ripiegato sulla capitale per difenderla. Ebbene, giungo nei sobborghi della città. Avanzo di quaranta chilometri sull’autostrada che taglia il paese da est a ovest. E, di questo esercito che si dice si sia concentrato per opporre un’accanita resistenza all’invasione, non si vede quasi traccia. Un posto di polizia, qui. Più lontano, una pattuglia di soldati dalle uniformi troppo nuove. Ma non un’unità combattente. Non un pezzo di difesa antiaerea. Nemmeno quel paesaggio di sbarramenti a gincana che, in tutte le città assediate del mondo, dovrebbero ritardare l’avanzata del nemico. Un dispaccio, mentre viaggiamo, annuncia che i carri armati russi si dirigono verso la capitale. L’informazione, rilanciata dalle radio e, alla fine, smentita, crea enorme disordine e fa sì che rientrino le poche automobili che si erano avventurate fuori dalla città. Ma il potere, lui, sembra aver stranamente abbassato le braccia.

L’esercito georgiano sarà forse presente ma nascosto? Pronto ad intervenire, ma invisibile? Saremo in presenza di una di quelle guerre dove l’astuzia suprema è, come nelle guerre dimenticate d’Africa, quella di apparire il meno possibile? O, anche, il presidente Saakashvili ha scelto di non combattere – come a volerci mettere, noi, Europei e Americani, davanti alle nostre responsabilità e alle nostre scelte (“Dite di esserci amici? Ci avete detto cento volte che con le nostre istituzioni democratiche e con il nostro desiderio di Europa, il nostro governo in cui – fatto unico negli annali- siedono un primo ministro anglo-georgiano, ministri americano-georgiani, un ministro della difesa israelo-georgiano, era il primo della classe in occidente? Ebbene, è giunto il momento, inderogabile, di dimostrarlo”)? Non lo so. Ma il fatto è che la prima presenza militare significativa nella quale ci imbattiamo è un lungo convoglio russo, cento veicoli almeno, giunto tranquillamente a rifornirsi di benzina in direzione di Tbilisi. Poi, a quaranta chilometri dalla città, all’altezza di Okami, un battaglione, sempre russo, appoggiato da un’unità di blindati e il cui ruolo è di impedire il passaggio ai giornalisti in un senso, e ai rifugiati nell’altro.

Tra questi ultimi, un contadino ferito alla fronte, ancora inebetito dal terrore, mi racconta la storia del villaggio, in Ossezia, da cui è fuggito a piedi tre giorni fa. I Russi sono arrivati. Le bande ossete e cosacche hanno, nel loro percorso, saccheggiato, stuprato, assassinato. Hanno, come in Cecenia, raggruppato i ragazzi e li hanno caricati su camion verso destinazioni ignote. Sono stati uccisi i padri davanti ai figli. I figli davanti ai padri. Nelle cantine di una casa fatta saltare con bombole di gas, è stata scoperta una famiglia spogliata di tutto ciò che aveva tentato di nascondere e sono stati messi gli adulti in ginocchio prima di giustiziarli con una pallottola in testa. L’ufficiale russo, responsabile del check point, ascolta. Ma se ne infischia. Ha l’aria, ad ogni modo, di aver bevuto troppo - e se ne infischia. Per lui, la guerra è finita. Nessun pezzo di carta - cessate-il-fuoco, accordo in cinque o sei punti - cambierà nulla della sua vittoria. E quel poveraccio di un rifugiato può dunque raccontare ciò che vuole.

2. Presso Gori, la situazione è differente e diviene, all’improvviso, più tesa. Al bordo della strada, Jeep georgiane nel fossato. Più in là, un carro armato carbonizzato. Più lontano ancora, un check point più importante che blocca, lui, tutto il gruppo di giornalisti cui ci siamo uniti. E, soprattutto, ci viene chiaramente detto, qui, che non siamo più i benvenuti. “Siete in territorio russo, abbaia un ufficiale gonfio di boria e di vodka. Può procedere solo chi è accreditato dalle autorità russe”… Per fortuna sbuca un’auto del corpo diplomatico. È la macchina dell’ambasciatore dell’Estonia. A bordo, oltre all’ambasciatore, il segretario del Consiglio nazionale di sicurezza, Alexander Lomaia, che ha il permesso di andare, dietro alle linee russe, a cercare i feriti, e che mi fa salire, insieme alla deputata europea Isler Beguin e ad una giornalista del Washington Post. “Non assicuro l’incolumità di nessuno, avvisa – chiaro?”. Chiaro. E ci stringiamo nell’Audi, che punta verso Gori.

Dopo altri sei check point, di cui un costituito da un semplice tronco d’albero sollevato e abbassato da un argano e comandato da un gruppo di paramilitari, arriviamo a Gori. Non siamo nel centro della città. Ma, dal punto in cui Lomaia ci ha lasciati prima di ripartire -solo, nell’Audi, per recuperare i feriti-, da questo sobborgo controllato da un carro enorme e alto come un bunker a rotelle, possiamo vedere incendi a perdita d’occhio. La luce dei razzi che, a intervalli regolari, illuminano il cielo e che sono seguiti da brevi detonazioni. Il vuoto ancora. L’odore, lieve, di putrefazione e di morte. E poi, soprattutto, l’incessante rimbombo dei blindati e delle, quasi una volta su due, semplici utilitarie riempite da miliziani riconoscibili per le fasce bianche al braccio e per le bandane attorno ai capelli. Gori non appartiene a quell’Ossezia che i Russi pretendono essere venuti a “liberare”. È una città georgiana. Ed essi l’hanno bruciata. Saccheggiata. Ridotta a città fantasma. Svuotata.

E’ logico, spiega, mentre aspettiamo, in piedi, di notte, nel fetore, il ritorno di Lomaia, il generale Vyachislav Borisov. Siamo qui perché i Georgiani sono degli incapaci, perché la loro amministrazione si è dissolta e perché la città era preda dei saccheggiatori. Guardate qui…” Mi mostra, su un telefono portatile, alcune foto di armi di cui sottolinea pesantemente l’origine israeliana. “Credete che si poteva lasciare questo mercato senza sorveglianza? Peraltro, vi dirò…”Si gonfia in petto. Accende una sigaretta facendo sussultare il piccolo carrista biondo che si era addormentato nella torretta. “Abbiamo convocato, a Mosca, il ministro degli esteri israeliano. E gli è stato detto che, se avesse continuato a rifornire i Georgiani, noi avremmo continuato , noi, ad armare Hezbollah e Hamas.” Avremmo continuato.. Che confessione! Passano due ore. Due ore di spacconate e di minacce. Con, talvolta, una macchina che rallenta ma che, vedendo il carro armato, pare cambiare idea e ripartire veloce. Fino a che ritorna Lomaia che ci affida l’anziana signora e la donna incita strappate all’inferno e che ci incarica di condurre a Tbilisi.

3. Il presidente Saakashvili, affiancato dal suo consigliere Daniel Kunnin, ascolta il mio racconto. Ci troviamo nella residenza presidenziale di Avlabari. Sono le due del mattino, ma la noria dei sui consiglieri funziona come in pieno giorno. È giovane. Molto giovane. Di una giovinezza tradita dall’impazienza dei gesti, dallo sguardo febbrile, dai bruschi scatti di riso o, ancora, da quel modo di tracannare Red Bull come se fosse Coca Cola. Queste persone, del resto, sono tutte giovani. Tutti questi ministri e consiglieri sono borsisti di fondazione tipo Soros la cui “rivoluzione delle rose” ha interrotto gli studi a Yale, Princeton, Chicago. È francofilo e francofono. Appassionato di filosofia. Democratico. Europeo. Liberale nel duplice senso, americano ed europeo, della parola. Di tutti i grandi resistenti incontrati nella mia vita, di tutti i Massud o Izetbegovic dei quali mi è capitato di prendere le difese, è quello più evidentemente estraneo all’universo della guerra, ai suoi riti, ai suoi emblemi, alla sua cultura – ma vi fa fronte.

Mi lasci precisare una cosa, m'interrompe con improvvisa gravità. Non bisogna lasciare che si dica che siamo stati noi a cominciare questa guerra… Siamo al principio di agosto. I miei ministri sono in vacanza. Io stesso sono in Italia per una cura dimagrante e sul punto di partire per Pechino. Ed ecco che, sulla stampa italiana, leggo: Preparativi di guerra in Georgia. Mi ha capito bene: io me ne sto lì, tranquillo, in Italia, e leggo che il mio paese sta preparando una guerra! Sentendo che qualcosa non torna, rientro subito a Tbilisi. E cosa vengo a sapere dai miei servizi informativi?” Fa il gesto di chi ti pone una domanda difficile lasciandoti la possibilità di trovare una buona risposta… “Che i Russi, nel momento stesso in cui riempiono le agenzie di stampa di queste frottole, stanno svuotando Tskhinvali dei suoi abitanti, stanno ammassando truppe, trasporti di truppe, addetti al rifornimento di nafta in territorio georgiano e stanno facendo passare, infine, colonne di carri armati attraverso il tunnel Roky, che separa le due Ossezie. Allora, supponga di essere responsabile di un paese e di apprendere tutto ciò - che fa?” Si alza, va a rispondere ai due portatili che suonano, nello stesso momento, sulla sua scrivania, ritorna, stende le lunghe gambe…"Al centocinquantesimo carro armato posizionato di fronte alle vostre città, si è obbligati ad ammettere che la guerra è cominciata e, malgrado la sproporzione delle forze, non si ha scelta…” Con l’accordo dei vostri alleati, gli domando? Avvertendo i membri di quella Nato la cui porta vi è stata sbattuta in faccia? “Il vero problema, schiva, è la posta in gioco di questa guerra. Putin e Medvedev cercavano un pretesto per invaderci. Perché?” Fa il gesto di contare sulle dita. “Primo, siamo una democrazia ed incarniamo, dunque, riguardo all’uscita dal comunismo, un’alternativa al putinismo. Secondo, siamo il paese per cui passa la Btc, l’oleodotto che collega Baku a Ceyhan passando per Tbilisi; ragion per cui, se noi cadiamo, se Mosca mette al mio posto un impiegato di Gazprom, voi sarete, voi Europei, dipendenti al 100 per cento dai Russi per il vostro approvvigionamento energetico. E poi, terzo…” Sceglie una pesca dal cesto della frutta che il suo assistente –“osseto”, precisa lui – ha appena portato. “Terzo, guardi questa mappa, La Russia è alleata dell’Iran. I nostri vicini armeni non sono molto più lontani dagli Iraniani. Immagini che si installi a Tbilisi un regime filo-russo. Avreste un continuum geostrategico che andrebbe da Mosca a Teheran e che dubito possa convenire al mondo libero. Spero che la Nato comprenda tutto ciò…

4.Venerdì mattina. Decidiamo, con Raphaël Glucksmann, Gilles Hertzog e la deputata europea, di ritornare a Gori che, a seguito dell’accordo di cessate il fuoco redatto da Sarkozy e Medvedev, i Russi avrebbero cominciato ad evacuare e dove noi dovremmo raggiungere il patriarca ortodosso di Tbilisi in partenza, pure lui, per Shrinvali, dove cadaveri georgiani sarebbero abbandonati ai porci e ai cani. Ma il patriarca è introvabile. I Russi non hanno evacuato affatto. E siamo questa volta bloccati a venti chilometri da Gori quando una macchina, davanti a noi, viene presa di mira da una squadra irregolare che, sotto l’occhio placido di un ufficiale russo, fa scendere i giornalisti cui vengono strappati telecamere, denaro, oggetti personali e, alla fine, il veicolo. Falsa notizia, dunque, il solito balletto delle false notizie, arte nella quale gli artefici della propaganda russa sembrano decisamente essere divenuti maestri. Allora, direzione Kaspi, a metà strada tra Gori e Tbilisi, dove l’interprete della deputata ha la propria famiglia e dove la situazione dovrebbe essere più calma – ma, in realtà, ci aspettano due altre sorprese.. Dapprima le distruzioni. Anche qui, distruzioni. Ma distruzioni che, questa volta, non hanno colpito come primi bersagli né case né persone. Cosa allora? Il ponte, la stazione. La ferrovia che una squadra di addetti alla logistica guidati, dalla sua stanza, dal capo meccanico gravemente ferito all’anca, sta già rimettendo in sesto. Anche il sistema di comando elettronico del cementificio Heidelberg, a capitali tedeschi, è stato colpito da un missile a guida laser. “C’erano 650 operai, mi dice il direttore della fabbrica, Levan Baramatze. Solo 120 sono potuti venire oggi. Il nostro apparato produttivo è a pezzi.” A Poti, i Russi hanno affondato la marina di guerra georgiana. In tre punti, hanno colpito l’oleodotto BTC. Qui, a Kaspi, hanno colpito, deliberatamente, i centri vitali di una economia da cui dipende, indirettamente, quella della regione e del paese. Terrorismo mirato. Volontà, di nuovo, di mettere il paese in ginocchio.

E poi, seconda sorpresa, i carri armati. Siamo, lo ripeto, alle porte della capitale. Condoleezza Rice [segretario di Stato degli Stati Uniti, lo preciso], sta tenendo, in questo momento, una conferenza stampa. Ed ecco che appare, all’improvviso, volando a bassa quota sopra gli alberi, uno di quegli elicotteri da combattimento il cui arrivo indica sempre il peggio. E, subito dopo, quelli che restano degli abitanti di Kaspi si ritrovano in strada, davanti alle soglie delle case per essere presto imbarcati, a gruppi di dieci, sulle vecchie Lada – tutti urlano a chi vuole ascoltare e, in particolare, al nostro autista, che stanno arrivando i Russi e che bisogna scappare. Dapprima, non ci crediamo. Pensiamo: la stessa voce infondata dell’altro ieri. Ma ci sbagliamo. I carri armati sono proprio lì. Cinque, per la precisione. Più un’unità del genio che comincia a scavare trincee. Il messaggio è chiaro. Rice o no, qui i Russi sono a casa loro. Si piazzano, in Georgia, come su terra di conquista. Non è esattamente come l’invasione di Praga. È la sua versione XXI° secolo – lenta, a piccole mosse, a colpi di umiliazioni, intimidazioni, parate e panico…

5. L’incontro ha luogo, questa volta, alle 4 del mattino. Saakashvili ha trascorso la fine della giornata con la Rice. La vigilia con Sarkozy. All’una come all’altro è grato dei loro sforzi, della pena che si sono dati così come dell’amicizia di cui niente e nessuno lo farà dubitare – non si dà forse del tu con “Nicolas”? e il candidato McCain, “vicino a Madame Rice”, non gli telefona, dacché la crisi ha avuto inizio, tre volte al giorno? Ma riscontro sul suo viso, tuttavia, un’aria malinconia che non aveva la prima sera. La fatica, forse… Le notti senza sonno… Le continue sconfitte.. Il brontolio anche , che sente montare nel paese e che noi siamo obbligati, ahimè, a confermargli: “E se Misha non fosse in grado di proteggerci? E se questo ardente giovane presidente non attirasse su di noi che fulmini di guerra? E se, per sopravvivere, bisognasse passare per le ambizioni di Putin e per il fantoccio che tiene nella manica?” C’è tutto questo, sì, senza dubbio, nella melanconia del presidente, più un’altra cosa – più torbida e che attiene, come dire?, allo strano comportamento dei suoi amici.. L’accordo di cessate il fuoco, per esempio, ottenuto dall’amico Sarkozy e redatto, a Mosca, a quattro mani, con Medvedev. Rivede il presidente francese, lì, in quello stesso ufficio, così impaziente di vederlo firmare. Lo sente alzare il tono della voce, quasi gridare: “Non hai scelta Misha; sii realista, non hai scelta; quando i Russi arriveranno per destituirti, nessuno dei tuoi amici, nessuno, alzerà un dito per salvarti”. E che strana reazione, infine, quando lui, Misha Saakashvili, aveva ottenuto che venisse chiamato comunque Medvedev; e Medvedev aveva fatto rispondere che stava dormendo – non erano che le 21, ma lui dormiva, ed era irraggiungibile fino all’indomani mattina alle 9: anche lì il presidente francese si è infuriato; l’amico francese, nemmeno quella volta, ha voluto attendere; fretta di rientrare? Troppo sicuro che l’essenziale fosse firmare, non importa cosa ma firmare? Non è così, pensa Misha, che si negozia. Non è così che ci si comporta con gli amici.

Ho visto quel documento. Ho visto le annotazioni scritte di pugno dai due presidenti, dapprima da quello georgiano, e poi da quello francese. Ho visto il secondo documento, sempre firmato da Sarkozy e affidato a Condi Rice, a Brégançon, perché lo consegnasse a Saakashvili. E ho visto, infine, il memorandum di note redatto, in serata, da parte georgiana e da questa giudicato vitale.

La Rice ha ottenuto – e non è un dettaglio- che fosse tolta ogni allusione al futuro “statuto” futuro dell’Ossezia. Ha ottenuto – non è trascurabile- che fosse precisato che il “perimetro ragionevole” all’interno del quale le truppe russe erano autorizzate, nel primo documento, a continuare il pattugliamento per garantire la sicurezza dei russofoni della Georgia divenisse un perimetro di “qualche chilometro”. Ma, dell’integrità territoriale della Georgia, non si parla in nessun documento. E quanto all’argomento del legittimo aiuto portato ai russofoni, c’è da tremare all’idea dell’uso che ne sarà fatto quando saranno i russofoni dell’Ucraina, dei paesi baltici o della Polonia a sentirsi minacciati, a loro volta, da una volontà “genocida”… E’ l’Americano Richard Holbrooke, diplomatico di grosso calibro e vicino a Barak Obama, ritrovato, sul finire della notte, al bar del nostro comune hotel, ad avere l’ultima parola: “Aleggia, in questa vicenda, un cattivo odore di appeasement e di spirito di Monaco.” Eh sì. O siamo capaci di alzare veramente la voce e di dire, in Georgia, basta a Putin. Oppure l’uomo che è andato , secondo le sue stesse parole, “ad inseguire fin nei cessi” i civili della Cecenia si sentirà in diritto di fare la stessa cosa con qualsiasi altro suo vicino. Ed è così che di devono costruire l’Europa, la pace e il mondo di domani?

Bernard-Henri Lévy, Le Monde, 19.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

SOS Georgia? SOS Europa!

Non crediate si tratti solo di una faccenda locale: si tratta probabilmente della svolta più decisiva nella storia europea dalla caduta del muro di Berlino. Ascoltate Mosca gridare: “genocidio!”, come accusa Putin che questa parola, però, non si è degnato di pronunciarla in occasione del 50° anniversario di Auschwitz; - e “Monaco!”, come invoca il tenero Medvedev, volendo insinuare che la Georgia, con i suoi 4,5 milioni di abitanti, sia la reincarnazione del Terzo Reich. Ci guarderemo dal sottovalutare le capacità mentali di tali dirigenti. Ma riteniamo che fingendo indignazione, essi non manifestino che la volontà di infliggere un duro colpo. E’ evidente che gli spin doctors del Cremlino abbiano ripassato i classici della propaganda totalitaria: più è grossa la mia menzogna, più sono convincente - e più serro colpi decisivi.

Chi ha sparato, questa settimana, per primo? La domanda non conta più nulla. I Georgiani si sono ritirati dall’Ossezia del Sud, territorio che la legge internazionale pone, non dimentichiamocelo, sotto la loro giurisdizione. Si sono ritirati dalle città vicine. Dovrebbero ritirarsi pure dalla loro capitale? La verità è che l’intervento dell’esercito russo fuori dai suoi confini, contro un paese indipendente membro dell’ONU, è una novità, dall’invasione dell’Afghanistan in poi. Nel 1989, Gorbaciov aveva rifiutato di inviare i carri armati sovietici contro la Polonia di Solidarnosc. Eltsin si è ben guardato, cinque anni dopo, dal permettere alle divisioni russe di entrare in Jugoslavia per sostenere Milosevic. Lo stesso Putin non ha rischiato di mobilitare le sue truppe contro la “rivoluzione delle Rose” (Georgia, 2002) ed in seguito contro la “rivoluzione arancione” (Ucraina, 2004). Oggi, tutto traballa. Ed è un mondo nuovo, con nuove regole, quello che si profila sotto i nostri occhi.

Cosa aspettano l’Unione europea e gli Stati Uniti per bloccare l’invasione della Georgia, loro amica? Vedremo Mikhail Saakashvili, leader filo-occidentale, democraticamente eletto, silurato, esiliato, rimpiazzato da un fantoccio, o appeso ad un cappio? L’ordine sarà ristabilito a Tbilisi così come venne ristabilito a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968? A queste semplici domande , una risposta, una sola, s’impone. Si tratta di salvare una democrazia minacciata di morte. Perché non si tratta solo della Georgia. Ma anche dell’Ucraina, dell’Azerbaigian, dell’Asia centrale, dell’Europa dell’Est, e dunque dell’Europa. Se permettiamo che i carri armati e i bombardieri distruggano la Georgia, è come se noi dicessimo a tutti i paesi più o meno vicini alla Grande Russia che mai noi li difenderemo, che le nostre promesse sono carta straccia, i nostri buoni propositi parole al vento e che da noi nulla devono aspettarsi.

Rimane poco tempo. Cominciamo dunque col denunciare chiaramente chi è l’aggressore: la Russia di Putin e di Medvedev, il fantomatico sconosciuto “liberale” che si ritiene dovrebbe ponderare il nazionalismo del primo. Rompiamo, dunque, con il regime della tergiversazione e delle lucciole prese per lanterne: i 200 000 ceceni uccisi -dei “terroristi”; la sorte del Caucaso del Nord - una “questione interna”; Anna Politkovskaya - una “suicida”; Litvinenko - un “E.T.”… E ammettiamolo infine che l’autocrazia putiniana, nata grazie agli oscuri attentati che insanguinarono Mosca nel 1999, non è un partner affidabile, ancor meno una potenza amica. In virtù di quale diritto questa Russia, aggressiva e in cattiva fede, è ancora membro del G8? Perché siede al Consiglio d’Europa, istituzione votata a difendere i valori del nostro continente? A che pro mantenere onerosi investimenti, soprattutto tedeschi, per il gasdotto sotto il Baltico con il solo vantaggio –russo- di mettere in corto circuito le condutture che passano dall’Ucraina e dalla Polonia? Se il Cremlino insiste con la sua aggressione nel Caucaso, non sarebbe opportuno che l’Europa riconsiderasse l’insieme delle sue relazioni con il grande vicino? Vicino che ha bisogno di vendere il suo petrolio, come noi di acquistarlo. Non è sempre impossibile ricattare un ricattatore. L’Europa, se trova l’audacia e la lucidità per lanciare la sfida, è forte. Altrimenti, è morta.

I due firmatari di questo articolo imploravano pubblicamente, in una lettera datata 29 marzo, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy di non ostacolare l’avvicinamento della Georgia e dell’Ucraina alla Nato. Una decisione positiva, scrivevamo, “tutelerebbe i due territori, quello georgiano e quello ucraino. Il gas continuerebbe ad arrivare. E la logica di guerra, che spaventa i Norpois, presto si incepperebbe. In caso contrario, siamo convinti che il nostro rifiuto lancerebbe un segnale disastroso ai nuovi zar della Russia nazionale e capitalista. Mostrerebbe loro che siamo deboli ed inetti, che la Georgia e l’Ucraina sono terre di conquista e che siamo disposti ad immolarle di buon cuore sull’altare delle rinnovate ambizioni imperiali russe. Non integrare o, meglio, non preoccuparsi di integrare questi paesi nello spazio della civiltà europea destabilizzerebbe la regione. In breve, è cedendo a Vladimir Putin, è sacrificandogli i nostri principi, è dichiarando forfait senza aver prima provato nulla, che noi rinforzeremo , a Mosca, il più aggressivo nazionalismo”. Era un considerare il peggio, senza volerci credere troppo. Me il peggio si è verificato. Per non disturbare Mosca, la Francia e la Germania hanno posto il loro veto a questa prospettiva di integrazione. Putin ha recepito così bene il messaggio che ha lanciato la sua offensiva a mo’ di ringraziamento.

È giunto il momento di cambiare metodo. Gli europei hanno assistito, impotenti perché divisi, all’assedio di Sarajevo. Hanno visto consumarsi, impotenti perché ciechi, la tragedia di Grozny. La viltà ci obbigherà, questa volta, a contemplare, passivi e prostrati, la capitolazione della democrazia a Tbilisi? Lo stato maggiore del Cremlino non ha mai creduto nell’esistenza di una “Unione europea”. Esso confida che, sotto le belle parole di Bruxelles, brulichino rivalità secolari tra sovranità nazionali, manovrabili a piacere e reciprocamente paralizzanti. Quello georgiano vale come test di esistenza o non esistenza: l’Europa così come la si è edificata contro la cortina di ferro, contro i fascismi, vecchi e nuovi, contro le sue stesse guerre coloniali, l’Europa che ha festeggiato la caduta del muro di Berlino e salutato le rivoluzioni di velluto, si ritrova sul bordo del coma. 1945-2008… Vedremo suggellarsi nel Caucaso, nelle olimpiadi dell’orrore, la fine della nostra breve storia comune?

André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, Libération, 14.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)