Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Appunti di guerra

Yuval Diskin è il capo dello Shin Bet, il mitico e temibile Servizio di sicurezza interna dello Stato di Israele. Per quanto ne sappia, non ha mai parlato. Comunque, non dopo l'inizio di questa guerra. Ha una quarantina d'anni. È alto. Massiccio. Un aspetto da militare, smentito dal suo abbigliamento: jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Mi riceve, all'alba, nel suo ufficio a nord di Tel Aviv che, con le sue feritoie orizzontali, assomiglia a una casamatta. «Tutto questo per Sderot? — comincio io —. Questo diluvio di fuoco, e le vittime, per fermare i Qassam su Sderot, sulle altre città e sui kibbutz del Sud del Paese?». «Sì, certo — mi risponde irritato —. Nessuno Stato al mondo tollererebbe di veder cadere così, tutti i giorni, le granate sulla testa dei propri cittadini». Poi, visto che gli rispondo di saperlo e gli dico che, per una questione di principio e di solidarietà, vado a Sderot ogni volta che arrivo in Israele, e aggiungo che forse, negoziando, si poteva evitare di giungere a questo punto, egli s'interrompe, alza le spalle e, con il tono di chi decide, visto che gli altri ci tengono, d'entrare nei dettagli, riprende.

«Bisogna che lei capisca, in questo caso, chi sono quelli di Hamas. Noi li conosciamo meglio di chiunque. Talvolta, ho l'impressione di esser capace di seguire in tempo reale anche le loro minime decisioni, talvolta di precederle. Ebbene, siamo consapevoli di tre cose». Gli portano una tazza di caffè che beve in un sorso. «Intanto, la loro strategia, che è quella dei Fratelli musulmani di cui sono l'emanazione e che mira a prendere il potere, sulla lunga durata, in Libano, in Giordania, in Israele...». Faccio un cenno per dire che so. «Bene. In seguito, l'alleanza con l'Iran, che può sembrare contro natura tanto è pesante il contenzioso fra sunniti e sciiti, ma di cui conosciamo tutta la storia». La data: 1993. Lo scenario: un consiglio di ulema siriani, sauditi, cisgiordani, cittadini di Gaza. L'ispiratore: l'egiziano El Kardaoui, importatore in terra sunnita della strategia sciita degli attentati suicidi. «Infine, l'essenziale: la rete di trecento tunnel, scavati sotto la frontiera egiziana col tacito accordo di Mubarak il quale, ogni volta che ne parlavamo, giurava che se ne sarebbe occupato, ma purtroppo non faceva nulla, tanto era il timore di contrariare i suoi Fratelli musulmani». Come i pacifisti israeliani, si può pensare che la distruzione di quei tunnel sarebbe bastata. Si può ritenere — è il mio caso — che, avendo questa guerra già avuto come effetto di far scoprire al mondo intero l'esistenza dei tunnel e di aver messo quindi gli egiziani con le spalle al muro, Israele potrebbe fermarsi e decidere fin da oggi, 11 gennaio, un cessate il fuoco. Quel che non si può ignorare è il contesto: Gaza che, evacuata, non diviene l'embrione dello Stato palestinese tanto desiderato, ma la base avanzata di una guerra totale contro lo Stato ebraico.



Mi trovo a Baka-el-Garbil, vicino a Um-el-Fahem: è una delle città di arabi israeliani che nel 1948 hanno scelto di restare a casa loro e costituiscono, sessant'anni dopo, il 20 per cento della popolazione del Paese. Questo pomeriggio, la città è scesa in piazza: 15.000 persone protestano contro il «genocidio» di Gaza. Ci sono militanti, che indossano la kefiah a scacchi del Fatah. Altri, che sventolano la bandiera verde di Hamas. Vedo anche, all'inizio del corteo, giovani incappucciati che urlano — ricordo che siamo nel centro di Israele — facendo appello all'Intifada, alla Jihad, al martirio. «Questo Israele che voi rigettate non è il vostro Israele? — chiedo a uno di loro —. Non è lo Stato di cui siete cittadini allo stesso modo e con gli stessi diritti degli altri suoi cittadini?». Il ragazzo mi squadra come fossi un pazzo. Mi risponde che Israele è uno Stato razzista che lo tratta come una sottospecie, gli vieta di frequentare università e night- club e, di conseguenza, non si deve aspettare da parte sua che gli sia fedele. Raggiunge quindi i suoi compagni, abbandonandomi alle mie perplessità: bella solidità di una democrazia che, in tempo di guerra, si accontenta che un cittadino su cinque sia sull'orlo della secessione politica; e vertiginosa fragilità di un legame sociale di cui vediamo bene come potrebbe, dall'interno, sciogliersi. Altro contesto? No. Ma situazione di Israele.

«Nulla giustifica la morte di un ragazzino — mi ha detto Asaf, 33 anni, proprietario di un ristorante a New York e, nei periodi da riservista, pilota di elicotteri Cobra —. Nulla. Per questo, quando il rischio esiste, quando in cabina di pilotaggio mi accorgo che, prendendo di mira un obbiettivo militare, potrei colpire anche dei civili, lascio perdere e torno alla base». Ho sfidato Asaf a darmi la prova di quanto dice. È così che mi trovo nel Negev, sulla base di Palmachim, il sancta sanctorum della tecnologia israeliana dove in particolare sono stati sperimentati i famosi missili anti- missili Arrow. A bordo, videocassette di Asaf. Registrazione del suo dialogo, il 3 gennaio, con un interlocutore a terra durante il quale l'informa che ha deciso di interrompere la missione perché il «terrorista» in linea di mira è stato raggiunto da un bambino. E filmati incredibili — ne ho visti quattro — di missili già lanciati che il pilota, vedendo apparire un civile sul suo schermo o una jeep presa a bersaglio entrare nel garage di un edificio di cui non sono stati avvertiti, come è d'uso, gli occupanti, fa dirottare in piena corsa e esplodere in un campo. Che non tutti abbiano gli stessi scrupoli, lo immagino (infatti, come spiegare altrimenti i troppo numerosi e inaccettabili bagni di sangue?). Ma che in Tsahal esistano persone come Asaf, che le procedure comandino di agire piuttosto come Asaf, insomma che Asaf non sia l'eccezione ma la regola, è importante dirlo (e pazienza per il cliché che vuole ridurre Tsahal a un'accozzaglia di bruti che si accaniscono su donne e vegliardi).

Ehud Barak è a casa sua. L'avevo visto ieri a Palmachim, circondato dai suoi generali. Lo ritrovo oggi, in un salone lungo lungo, che sembra costruito attorno ai due pianoforti che egli suona da virtuoso. Anche lui evoca il dilemma morale a cui il suo esercito è confrontato. Descrive il calcolo di Hamas che, proprio perché sa come funzionano gli israeliani, installa i suoi depositi di armi nel cortile di una scuola, nella sala di un ospedale, in una moschea. «Delle due l'una — mi spiega con un tono in cui si scorge, ci giurerei, una curiosità da stratega di fronte a una tattica inedita —. O ne siamo informati e non spariamo, e loro hanno vinto. Oppure l'ignoriamo e spariamo, e loro filmano le vittime, inviano le immagini alle televisioni e hanno ugualmente vinto». Mi accingo a chiedergli come l'uomo di Camp David, la Colomba che offrì ad Arafat, nove anni fa, le chiavi di uno Stato palestinese che questi non volle, viva personalmente questo dilemma. E sto per fargli osservare che Israele non sarebbe a questo punto senza la serie di occasioni mancate, di passi falsi, di cecità dei governi che seguirono. Ma suona il telefono. È Condoleezza Rice che chiama per spingerlo, appunto, a concludere al più presto un cessate il fuoco. Perché al più presto, secondo lei? Il ministro-pianista sorride. Perché, per una questione di pochi giorni, lo stesso cessate il fuoco sarà opera sua, di Condy, o dell'altro Barack (Obama) che le ruberà la sua eredità.

Amos Oz è prostrato. Il grande scrittore, coscienza del Paese e, in particolare, del campo della Pace, autore di Aidez-nous à divorcer. Israël Palestine: deux Etats maintenant (Editions Gallimard 2004) che ritrovo a Gerusalemme dal nostro amico comune Shimon Peres, ricorda come Tsahal dovette trattare, sette anni fa, la vicenda del «genocidio di Jenin» (66 morti, di cui 23 israeliani). Poi, quando ci fu la guerra in Libano, il dramma di Cana (remake, secondo alcuni, dell'assalto al ghetto di Varsavia). Parliamo anche delle armi terrificanti che utilizzerebbe Tsahal (il cui effetto sarebbe di «assorbire» l'ossigeno attorno al punto di impatto). La voce che circola quel giorno, la storia di una casa, nella zona di Zeitun, dove sarebbero state attirate cento persone prima che si sparasse nel mucchio, gli sembra tuttavia così insensata che non sa come interpretarla, né come abbia preso forma. Pare che tutto sia cominciato con una vaga testimonianza raccolta da una Ong (Organizzazione non governativa). Poi ci si son messi i giornalisti: «Che si lasci entrare la stampa! Come possiamo smentire i "si dice" se non siamo presenti? ». Dopodiché, è il villaggio mediatico planetario ad agitarsi: «Tsahal avrebbe... Tsahal potrebbe... Il dottor X conferma che Tsahal sarebbe all'origine di...». Questi condizionali sottili e per modo di dire prudenti sono un vero veleno. Fra due giorni non si parlerà più delle dicerie di Zeitun. Ma quali saranno le conclusioni della gente? Che era una voce assurda? O che un orrore scaccia l'altro e che Tsahal, nel frattempo, avrebbe superato un altro gradino sulla scala dell'abominio e del crimine? Amos Oz, il Camus di Israele. La disinformazione, o il mito ebraico di Sisifo.

Un'altra voce, di cui io stesso ho potuto verificare l'infondatezza, è quella del «blocco umanitario». Sorvolo sul caso dell'Ospedale Shiba di Tel Aviv, il cui vice- direttore, Raphi Walden mi spiega che il 70 per cento dei pazienti sono palestinesi. Sorvolo sulla vicenda delle ambulanze colpite per sbaglio da Tsahal, ma deliberatamente bloccate dal ministero della Salute di Hamas, che prende in ostaggio i suoi civili e soprattutto non vuole che siano curati all'ospedale Soroka di Beer Sheva. L'informazione decisiva la ricevo il 14 gennaio, al terminal di Keren Shalom, estremo sud della striscia di Gaza, dove un centinaio di camion passano, come ogni mattina, sotto gli occhi vigili dei rappresentanti delle Ong. Farina, medicinali, alimenti per neonati, coperte. Nulla, nessuno e soprattutto non gli abituali soccorsi umanitari potranno attenuare, qui come altrove, le sofferenze delle famiglie che hanno perso uno dei loro cari. Ma i fatti sono i fatti. E il fatto è che più di 20.000 tonnellate sono entrate, dall'inizio dell'operazione, sotto le insegne dell'Unicef o del World Food Program. Come mi dice il colonnello Jehuda Weintraub il quale, in un'altra vita, scrisse una tesi su Chrétien de Troyes e che, a sessant'anni, si impegna nel «coordinamento » degli aiuti: «La guerra è sempre orribile, criminale, piena di furore; perché aggiungere, alla sua atrocità, la menzogna?».

A Parigi, si alzano i toni. Jean-Marie Le Pen dichiara che Gaza è un campo di concentramento. Altri, vicini alla sinistra radicale, gridano che da molto tempo non c'era stato un massacro di musulmani peggiore di quello degli abitanti di Gaza. E i 300.000 del Darfur? E i 200.000 bosniaci? E le decine di migliaia di ceceni che Putin andò a «snidare fin dentro i cessi» e che non vi strapparono neanche una lacrima? Diversamente da voi, desideroso di provare almeno ad andare a vedere, il 13 gennaio, scesa la notte, sono entrato nei sobborghi di Gaza City, nel quartiere Abasan Al-Jadida, un chilometro a nord di Khan Yunis, «embedded» nell'unità di élite Golani. So, per averlo evitato tutta la vita, che il punto di vista dell'«embedded» non è mai il buon punto di vista. E non pretenderò di aver capito in qualche ora lo spirito di questa guerra. Ma, detto questo, ecco la mia testimonianza. I combattenti di Varsavia non avevano, purtroppo, le mine anticarro come quella appena esplosa sotto le ruote di un veicolo passato venti minuti prima del nostro. I loro aggressori non conoscevano quella stanchezza, quel profondo disgusto per la guerra che esprimono il comandante Gidi Kfirel e i quattro riservisti che ci accompagnano. Infine, posso sbagliarmi, ma le poche, le pochissime cose che vedo (palazzoni immersi nell'oscurità ma in piedi, frutteti all'abbandono, la via Khalil al-Wazeer con i negozi chiusi) indicano una città frastornata, che si trova in trappola, terrorizzata, ma certamente non una città rasa al suolo, come poterono esserlo Grozny o certi quartieri di Sarajevo. Questo è ancora un fatto.

Ehud Olmert a Gerusalemme. Racconta, non senza comicità, il balletto dei mediatori troppo frettolosi. Torna a parlare del doppio gioco di un Mubarak che la comunità internazionale dovrà pur costringere a chiudere le sue frontiere ai beduini contrabbandieri. Ma ecco che Olmert cambia tono. E con una voce più bassa, quasi confidenziale, comincia a raccontarmi l'ultima visita di Abu Mazen, tre settimane fa, proprio in questo ufficio, dove ora mi trovo io. «Gli ho fatto un'offerta. 94,5 per cento della Cisgiordania. Più 4,5 per cento sotto forma di scambio di territori. Più un tunnel, sotto il suo controllo, che colleghi la Cisgiordania a Gaza e che equivale all'1 per cento mancante. Quanto a Gerusalemme, una soluzione logica e semplice: i quartieri arabi per lui; i quartieri ebraici per noi; e i Luoghi Santi sotto un'amministrazione congiunta saudita, giordana, israeliana, palestinese, americana. Abu Mazen m'ha chiesto di lasciargli il foglio su cui avevo disegnato lo schema. Non gliel'ho dato, perché lo conosco e so che, la prossima volta, l'avrebbe utilizzato come punto di partenza di un contro-negoziato. Comunque, l'offerta c'è... Aspetto...». È troppo bello per essere vero? Possibile che siamo passati, così di recente, tanto vicini alla pace?

Abu Mazen non è a Ramallah, capitale dei palestinesi moderati. E nemmeno Yasser Abed Rabbo, con il quale una volta sostenemmo il piano di pace di Ginevra e che, anche lui, si trova al Cairo. Al loro posto, in un edificio del centro, incontro Mustafa Barghuti, presidente della Palestinian Relief Society, e Mamdouh Aker, medico, autorità morale e veterano del dialogo israelo-palestinese. Né l'uno né l'altro credono alla serietà di un'offerta di pace proposta da un primo ministro che sta per lasciare il proprio posto. Entrambi parlano severamente di Abu Mazen, colpevole di instaurare uno «Stato poliziesco». Soprattutto, mi rendo conto di come stiano attenti a non dire nulla che sembri attaccare Hamas che, come sanno, ha la solidarietà della piazza palestinese. Eppure, riflettendo bene, ascoltando il primo parlarmi con nostalgia del «piano saudita » di coesistenza dei due Stati, osservando il secondo animarsi solo nell'evocare la sua «Lettera a Yitzhak Rabin», pubblicata nel 1988 dal Jerusalem Post perché i giornali arabi l'avevano rifiutata, guardando infine, al ritorno, l'atteggiamento dei giovani e il volto scoperto delle ragazze che fanno la fila con me per entrare a Gerusalemme, al check-point di Kalandiya, mi sorprendo a crederci di nuovo. Ma certo, eccoli qua, gli interlocutori di Israele. Sono qui i partner della pace futura. Una pace malgrado tutto. Una pace al di là delle devastazioni e delle lacrime. Una pace ragionata, senza effusioni né entusiasmi, ma forse, per questo, più che mai a portata di mano. Due popoli, due Stati. Una pace, e nulla di più.

Bernard-Henri Lévy, Le Journal du Dimanche, 18.01.2009

(traduzione per il Corriere della Sera, Daniela Maggioni)