Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Barack Obama, un'opportunità per il mondo

La principale notizia della settimana è che Barack Obama non è più nero. Eh sì. Gli Stati Uniti funzionano così. Hanno votato per lui perché era nero e perché la sua elezione sarebbe stata il coronamento della lunga marcia inaugurata, due anni dopo la sua nascita, da un “sogno” di Martin Luther King. Alcuni hanno votato contro di lui perché era nero e per il permanere, negli Stati Uniti, malgrado la rivoluzione senza eguali compiuta in una cinquantina d’anni, di sacche di segregazionismo e di razzismo. Oggi, la battaglia è vinta. L’era della segregazione di Stato è stata ricacciata nel passato. E Barack Obama è, in linea allo slogan lanciato quattro anni fa, a Boston, durante il suo primissimo “grande” discorso, il 44° presidente, non di questa o di quell’altra America, ma degli Stati uniti d’America. Ristrutturazione del campo visivo. Fine della politica concepita come regione della pigmentologia. Né nero, né bianco, neppure meticco-Obama.

La seconda cosa che noi europei dovremmo metterci, al più presto, in testa, è che Barack Obama non è “di sinistra”. Esiste, contrariamente alla leggenda, una sinistra americana. Esiste una frangia del Partito democratico che, d'altronde, si è adeguata non senza reticenze o resistenze a colui che ancora era solo il carismatico giovane senatore dell’Illinois. Barack Obama è talmente poco di sinistra che ha nominato, nei posti chiave, personalità repubblicane (Robert Gates, confermato alla Difesa; Ray LaHood, scaraventato ai Trasporti) o tecnocrati ultra-pragmatici (Timothy Geithner al Tesoro; Lawrence Summers alla testa del Consiglio economico; Peter Orszag, direttore dell’Ufficio della gestione e del budget) che hanno davvero ben poco a che vedere con ciò che, in Europa, chiamiamo sinistra. Barack Obama non è Che Guevara. Barack Obama non è membro d’onore del Partito socialista francese. Barack Obama –ed è già cosa grandiosa!- è l’incontro, nello stesso corpo, sul tavolo da dissezione dell’iconologia americana, della doppia anima di King e di JFK.

Terza sciocchezza che speriamo ci sarà evitata nell’imminente valanga di commenti: Barack Obama non è, non sarà, il presidente del “declino dell’impero americano”. Chiuderà Guantanamo, naturalmente. Uscirà dall’Iraq prima della fine del 2011 – lo ha promesso. Romperà con l’ideologia dell’esportazione “messianica” e “forzata” degli ideali democratici – è probabile. Ed anche, senza dubbio, userà, nelle relazioni con gli alleati, quella retorica improntata al multilateralismo che tanto mancava a George Bush. Ma che non si conti su di lui, però, né per vedere l’America battersi il petto, né per farla cedere dinanzi a Chavez o ad Ahmadinejad, e nemmeno per accelerare l’avvento del mondo multipolare sognato dai russi e dai cinesi. Gli Stati Uniti resteranno gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non distribuiranno nuove verghe per farsi percuotere dall’antiamericanismo planetario. Gli Stati Uniti, che piaccia o no, faranno quanto sarà loro possibile per continuare ad essere, sotto Obama, la prima potenza economica, politica, militare, del mondo.

E il cambiamento, allora? In politica interna, si svilupperà su tre terreni principali. La riforma di un sistema di assicurazione sanitaria che esclude 46 milioni di americani poveri e a cui si sono adattati, fino a lui, tutti i presidenti degli Stati Uniti (compreso, ahimè, Bill Clinton). Un New Deal neokeynesiano finalizzato alla ricostruzione di una rete di infrastrutture (strade, ponti e dighe a New Orleans, quartieri distrutti a Detroit, Cleveland, Buffalo o nella stessa Los Angeles) il cui stato è talvolta degno del più abbandonato dei paesi del terzo mondo. E poi la riforma di un sistema finanziario sul quale gli osservatori più accorti (Nouriel Roubini, Harry Markopolos o ancora il premonitore autore del “Cigno nero”, Nassim Nicholas Taleb) richiamavano, urlando, l’attenzione, poiché esso avrebbe condotto il mondo alla catastrofe: ma l’ideologia deregolatrice non ha permesso che questi fossero ascoltati. Se Obama si impegnerà in questi tre compiti, se aprirà, senza tardare, questo triplo cantiere, allora sarà, per l’America di oggi, più che un cambiamento di rotta, una rivoluzione.

E quanto alla politica estera, infine, ciò che si sa delle convinzioni, delle dichiarazioni, perfino dei retropensieri del nuovo presidente porta a credere che essa conoscerà, oltre a quello riguardante l’Iraq, due punti principali di flessione. Il dossier mediorientale: Obama non aspetterà il termine del secondo mandato, come fecero Clinton e Bush, per rendersi conto dell’urgenza e per lanciarsi in un patetico sprint finale volto allo strappo di un impossibile accordo tra palestinesi e israeliani. I rapporti con il Pakistan: manterrà l’alleanza; forse persino la rinforzerà; ma romperà con l’incondizionalità che ha caratterizzato le tre ultime amministrazioni e che ha fatto del “paese dei Puri” il paese più pericoloso del pianeta; altrimenti detto, porrà precise condizioni attinenti alla sincerità della lotta contro quegli elementi di Al-Qaeda infiltrati nei servizi segreti del paese ed al controllo di un arsenale nucleare che nessuno, oggi, può garantire che non possa cadere, un giorno o l’altro, nelle mani degli jihadisti. Anche per questi due motivi, l’elezione di Barak Obama rappresenta un’opportunità per il mondo.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 22.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)