Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

La crisi finanziaria vista da New York

Gli Americani non parlano, ovviamente, che di questo. In bocca e nella testa hanno solo l’incredibile tsunami che per poco non ha travolto tutto il loro sistema bancario e, per conseguenza, l’intero pianeta finanziario. Sullo sfondo, tre semplici interrogativi che ritornano ovunque, nei dibattiti e sulla stampa.

Innanzitutto, perché questo disastro? Perché questa serie di bolle (ipotecarie, finanziarie, fiduciarie e del credito) che sono esplose una dopo l’altra e hanno rischiato di far quindi sprofondare la prima economia mondiale in una situazione simile a quella vissuta dall’Argentina sette anni fa? Repubblicani e democratici convengono tutti, oramai, nel porre all’origine della crisi un sistema costruito sul profitto a breve termine, sulla cartolarizzazione a tutt’andare e sull’invenzione di strumenti finanziari sganciati da una correlativa produzione di valore. Fine di un’epoca in cui veniva “coperta” qualsiasi cosa. Agonia di un modello di crescita basato su un indebitamento senza misura e su una speculazione senza freni. E quei dirigenti che lanciavano le loro imprese in avventure indicizzate sul loro hubris quanto sulle remunerazioni assurde che si erano attribuiti sono divenuti l’oggetto, in qualche giorno, di una generale riprovazione, come coloro che, tipo il penultimo presidente di Merrill Lynch, osavano intascare 160 milioni di dollari come prezzo della loro non meno assurda incompetenza,.

E poi, quale rimedio? E se lo Stato federale, contrariamente al credo formulato, tra gli altri, dal defunto presidente Reagan, stesse tornando ad essere non il “problema”, bensì la “soluzione”? I pareri sono diversi, naturalmente. E già si trovano editorialisti, come David Brooks nel New York Times del 19 settembre, che ironizzano su chi pretende di scoprire un “regolazionismo” che costituiva già la norma sui mercati a termine o negli hedge funds. Ma, essenzialmente, l’opinione non cambia. E, da sinistra a destra, dai progressisti della rivista Nation ai devoti della deregolamentazione stile Wall Street Journal, nessuno giudica negativamente l’appropriazione di fatto, da parte dello Stato, di intere fette del settore finanziario. Né, ancor meno, l’intervento massiccio in un mercato che, in principio, dovrebbe essere ritenuto in grado di tornare a regolarsi presto da solo. E nemmeno l’interdizione, provvisoria certo, ma la cui idea stessa era, solo ieri, inconcepibile, delle “vendite allo scoperto” dei grandi titoli finanziari. Non è una riforma, è una rivoluzione. O, meglio ancora, è un cambiamento di paradigma. Ed è, anche qui, una nuova epoca che si annuncia.

Chi, tra Obama e Palin -ops, McCain- è il meglio attrezzato per poter accompagnare questo cambiamento di rotta e per poter incidere nel marmo di una linea politica ciò che, per il momento, ci si inventa di giorno in giorno, a seconda delle circostanze, senza coerenza? Probabilmente Obama. Perché i repubblicani hanno un bell'adeguarsi al nuovo corso. Hanno, come McCain stesso, un bel riconoscere che sì, la nazionalizzazione dei giganti delle assicurazioni era inevitabile. Chiunque si accorge che lo dicono a malincuore e senza disporre degli strumenti concettuali che possano permettere loro di pensare veramente, fino in fondo, la mutazione. Mentre i democratici… L’idea di uno Stato più forte e che con più forza assuma le proprie responsabilità di Stato riuscendo a svolgere, dunque, su questo terreno, il suo pieno ruolo di attore politico è a loro ben più familiare. Questione di cultura e di patrimonio ideologico: il fallimento di Lehman Brothers sarà più funzionale del discorso di Filadelfia all’elezione di Barack Obama.

Quanto all’osservatore straniero, questi giungerà due osservazioni.

La plasticità, dapprima, di un sistema capace di operare, così presto, una sì grande inversione. Quanto tempo sarebbe occorso, in Europa, per salvare una AIG? Quanti comitati interministeriali? quante commissioni europee e nazionali? quanti via vai tra le autorità finanziarie locali e comunitarie? L’America ha fatto in una notte ciò che a noi avrebbe richiesto settimane, e che alla fine magari non avremmo realizzato nemmeno del tutto. Ancora una volta l’America ha dato dimostrazione, e non spiaccia alle cupe previsioni degli anti-americanisti, della sua vitalità.

Ma anche la bizzarria di quello stesso sistema quando uno Stato che si decide, volente o nolente, a tale cambiamento di rotta, ricalcitra, invece, a compiere lo stesso sforzo quando si tratta di andare in aiuto dei bisognosi e di dar vita ad una sicurezza sociale degna di questo nome. O anche: come mai le centinaia di miliardi di dollari che si sanno muovere, a tempo di record, per salvare società finanziarie in fallimento, non le si riescono a trovare tanto facilmente quando si tratta di salvare dalla miseria o dalla morte i senzatetto di Los Angeles o di Detroit?

A questa questione, il prossimo presidente degli Stati Uniti, qualunque sia tra i due, non potrà più sottrarsi.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 24.09.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Con i Georgiani

Nessuno sa a che punto sarà, quando queste mie righe verranno pubblicate, il ritiro delle truppe russe dalla Georgia. Ma da questa aggressione è possibile, fin da ora, trarre le lezioni e le conclusioni seguenti.

1. La straordinaria brutalità del potere russo nell’era post-sovietica. La si era già vista, questa brutalità, all’opera in Cecenia. Ma il meno che si possa dire è che essa sia stata confermata – per quanto, naturalmente, su scala minore – dallo spettacolo di un esercito che invade un paese sovrano dove prende a muoversi così, a suo piacimento, avanzando o indietreggiando secondo i propri comodi e che distrugge, già che c’è, davanti al mondo sbigottito, le infrastrutture militari e civili della giovane democrazia. Oggi la Georgia. Perché non l’Ucraina, domani? O, in virtù dello stesso argomento della solidarietà con russofoni “perseguitati”, i paesi Baltici? la Polonia?

2. La non meno strana indifferenza alle proteste, agli ammonimenti, alle messe in guardia internazionali. La Guerra Fredda aveva le proprie regole e i propri codici. Era il regno dei segni e della loro sapiente interpretazione. Era come un’ermeneutica mezza bellicosa e mezza pacifica in cui si passava il proprio tempo a reagire a quelli che Michel Serres chiamava i “fuochi e segnali di bruma” emessi dall’avversario. In questa guerra fredda di nuovo tipo, niente più segnali. Niente più codici. Uno sberleffo volgare e permanente all’indirizzo di “messaggi” che si sa non saranno seguiti da alcun effetto e ai quali si decide dunque di non dar alcun peso. Non è forse nel momento stesso in cui Condoleezza Rice era a Tbilisi che Putin, con una sfrontatezza impensabile nel mondo di ieri, ha scelto di avanzare fino a Kaspy, a quaranta chilometri dalla capitale?

3. L’inimmaginabile faccia tosta ideologica di quella gente. Il modo, per esempio, di brandire il “precedente” del Kosovo: come se ci fosse paragone tra il caso di una provincia serba tormentata, martirizzata, distrutta da una purificazione etnica abominevole, e la situazione di un’Ossezia vittima di un “genocidio” che, stando alle ultime notizie (rapporto dell’Human Rights Watch), avrebbe causato… 47 morti! O il modo di rigirare a proprio vantaggio e a quello delle stesse minoranze russofone, che si vorrebbe, di fatto, ricondurre nel girone dell’Impero, l’argomento del “dovere d’ingerenza”: giustificare lo scempio, a Gori e altrove, dell’armata russa e delle sue milizie, in nome di quel grande e bel principio , caro al ministro degli Esteri francese -e non solo- … Bisognava osare! bisognava farlo e pensarci ! ebbene, il signor Putin ha osato… il signor Putin l’ha fatto e l’ha pensato… il signor Putin, medaglia d’oro alle Olimpiadi del capovolgimento del senso e del cinismo…

4. L’inquietante debolezza, di fronte a questo nuovo dispositivo retorico e politico, della diplomazia occidentale, compresa, ahimè, quella francese. Da una grande democrazia ci si aspettava che condannasse e sanzionasse l’aggressore – e che lo facesse senza mezzi termini. Invece si è fatto il contrario. Si è colpito l’aggredito. Si è fatto cedere, non il forte, ma il debole. Come tredici anni fa, a Dayton, quando il bosniaco Izetbegovic dovette firmare, con la morte nell’anima, l’accordo che consacrava lo smembramento del suo paese, il georgiano Saakachvili è stato costretto ad incassare un documento che dai russi stessi è indicato sempre come “documento Medvedev”. Non una parola, in questo documento, sull’integrità territoriale del paese… E le famose “clausole addizionali di sicurezza” che riconoscono all’esercito russo un diritto di stazionamento e di pattugliamento tanto scandaloso nel suo principio quanto nelle sue modalità di applicazione… Il mondo al contrario! Par di sognare”

5. E poi la sconcertante facilità, infine, con la quale le opinioni pubbliche occidentali si sono bevute la tesi avanzata, fin dal primo giorno, dagli apparati di propaganda del Cremlino. Si sa, oggi , che l’armata russa aveva moltiplicato, già prima dell’8 agosto, i preparativi di guerra, si sa che aveva ammassato, alla “frontiera” fra Georgia e Ossezia, una considerevole logistica militare e paramilitare. Si sa che essa aveva metodicamente riparato le ferrovie su cui dovevano passare i treni merci per il trasporto di truppe e si sa che 15 carri avevano attraversato, la mattina dell’8, il tunnel Roky che separa le due Ossezie. Nessuno può ignorare, altrimenti detto, che il presidente Saakachvili si è deciso ad agire solo perché non aveva atra scelta giacché si era già in guerra. Ora, malgrado ciò, malgrado tutti questi fatti che sarebbero dovuti saltare agli occhi di ogni osservatore in buona fede, molti dei nostri media si sono gettati come un sol uomo sulla tesi del Georgiano guerrafondaio, provocatore e irresponsabile. Snervante…

6. Bisognerà tornare su tutto questo. Bisognerà analizzare in seguito i meccanismi di una cecità che, se non facciamo attenzione, potrebbe perpetuare quel “declino del coraggio” denunciato un tempo da Soljenitsyne e che si pensava appartenesse alle epoche andate. Per il momento, sia concesso ad un cronista che si è preso la briga di andare a vedere di persona e di testimoniare, di ripetere qui: "SOS Georgia! SOS Europa! la ragione, non meno che l’onore, ordina di correre, più che mai, in soccorso dell’Europa a Tbilisi.”

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 28.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)