Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Come e perché i talebani possono essere sconfitti

Ritorno in Afghanistan con un gruppo di giornalisti al seguito del ministro della Difesa, Hervé Morin. Scarsa visione d’insieme, perché limitata alle vallate di Surobi e di Kapisa. Ma osservazioni ciò nondimeno preziose, perché contrastanti con quanto viene detto in giro.

Prima tappa, Tora, fortino a 20 chilometri da Kabul. Veniamo accolti dal colonnello Benoît Durieux, capo reggimento e autore di un eccellente “Relire 'De la guerre' de Clausewitz”. Ci muoviamo verso Surobi, dove ci aspetta l’assemblea dei malek, i saggi della regione, per l’inaugurazione di una piccola scuola per ragazzi. E scambio di opinioni sul tema dell’alleanza franco-afghana di fronte all’ascesa dei talebani. Il numero di blindati mobilitati per lo spostamento, l’estremo nervosismo degli uomini così come il volo raso terra, talora a 10 metri dal suolo, dell’elicottero Caracal che qui ci ha condotti di buon mattino, non lasciano dubbi sulla serietà della minaccia. Ma nemmeno alcun dubbio sul fatto che la strategia dei militari si basi su un’idea semplice che non ha molto a che vedere con la caricatura che ne danno i media: mostrare che si è lì per fare la guerra, certo, ma anche che questa guerra attiene alla sicurezza, alla pace, all’accesso alle cure e al sapere di un popolo che ha la coalizione come alleata.

Forte Rocco, nel cuore della valle di Uzbin, 10 chilometri più a monte rispetto al punto in cui hanno trovato la morte, nell’agosto del 2008, i dieci legionari del RPIMA. È un altro forte da western, ancora più isolato, circondato dalle montagne. I 159 uomini del capitano Vacina vi alloggiano in tende rafforzate da compensato in previsione dell’inverno. Appena installati, racconta Vacina, ecco le elezioni, il bombardamento talebano dei seggi elettorali, la risposta delle forze regolari afghane appoggiate dai legionari - e, quindi, l’incredibile spettacolo dei contadini che vengono a votare nel frastuono di bombe e mitragliatrici. Forza d’occupazione, veramente? Neocolonialismo, come dicono gli “utili idioti” dell’islamo-progressismo? Gli eserciti, come i popoli, hanno un inconscio. E non nego che la tentazione possa esistere. Ma quel che là osservo, per il momento, è questo: una forza militare che viene per, letteralmente, consentire alla gente di votare e che quindi è presente, non meno letteralmente, a supporto di un processo democratico.

Tagab, nel cuore della valle di Kapisa, più a nord, dove ritrovo il colonnello Chanson che ricorda di quando, quindici anni fa, mi impedì –all'epoca giovane Casco blu a Sarajevo- l’accesso al monte Igman. Configurazione come a Rocco. Stesso paesaggio di montagne, con in basso una vallata verdeggiante ma infestata da gruppi armati. Il forte è stato bombardato ieri. Due giorni prima, un attacco più duro ha provocato un’incursione. E Chanson racconta l’arrampicata verso la posizione avversa; l’occupazione delle due creste di montagna; lo scontro, al ritorno, con un’unità jihadista; la battaglia, durissima; e infine la disfatta degli assalitori. Il bilancio dell’operazione, chiediamo? Il numero esatto delle vittime? Appunto… Sorride… “Io sono ed io resterò l’unico, qui, a saperlo. Perché ecco un altro principio. Ogni talebano ucciso significa un nuovo talebano che nasce. Ogni vittoria strombazzata provoca, automaticamente, umiliazione e vendetta. Di modo che vincere non deve più significare uccidere ma restare, semplicemente restare - essere gli ultimi a rimanere sul campo e mostrarlo”.

Nijrab, 18 chilometri a nord, sempre nel Kapisa. È stazionato qui, in questo quarto forte, il terzo battaglione dell’esercito nazionale afghano comandato dal colonnello Khalili. Ricordo che, nel mio “Rapporto afghano” del 2002 commissionatomi da Jacques Chirac, la prima raccomandazione era: aiutare a costituire un esercito nazionale afghano cui lasciare, appena possibile, la responsabilità di isolare, e poi di mettere fuori gioco, i neofascisti talebani. Ebbene, è quello che sta accadendo, stando a quanto dice Khalli. Spetta a lui l’iniziativa degli assalti. È lui che decide se richiedere o meno i rinforzi del battaglione francese. Ed è sotto il suo comando che si trovano i famosi “consiglieri” americani di cui mi parlava, poco prima, il colonnello americano Scaparotti. Di nuovo, il contrario del cliché. Di nuovo, l’opposto dell’immagine convenuta di una guerra franco-americana di cui gli afghani non sarebbero che le comparse.

Bagram, infine. La base americana. Con la terribile prigione segreta, impossibile da avvicinare, a 200 metri dal luogo in cui mi trovo. E con i 42 uomini del distaccamento francese Harfang addetti stavolta ai due droni SIDM, pilotati da terra dal personale addestrato sul Mirage, e che forniscono alle truppe qualsiasi informazione in grado di ridurre la parte di rischio delle operazioni. Immagine di una guerra “tecnica”, fondata su un’estrema economia di mezzi. Conflitto di “bassa intensità”, la cui via d’uscita, ognuno ne è consapevole, non può essere soltanto militare. E tendenza al “morti zero”, tanto per l’avversario che per i soldati della coalizione stessa. Non ho visto tutto, naturalmente. Ma questo è quanto ho visto: una guerra brutta, come tutte le guerre; ma una guerra giusta; che ha preso un verso meno negativo di quanto si dica; e che i democratici afghani, possono, con i loro alleati, vincere.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 1.10.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Il Partito socialista deve sparire

Bernard-Henri Lévy reagisce, senza giri di parole, agli spasmi che negli ultimi giorni hanno scosso il Partito socialista. Per il filosofo, Martine Aubry è il guardiano di una “casa morta”, votata alla demolizione. E spera nella Royal (di cui è stato consigliere durante le presidenziali del 2007), in Valls o in Strauss-Kahn perché la sinistra rinasca sulle ceneri del socialismo.

L’uomo di sinistra Bernard-Henri Lévy è triste quando guarda il Ps?
Certo, sono triste. Raramente ho visto politici spendere tante energie nella propria autodistruzione. E non sarebbe nemmeno troppo grave se ciò riguardasse solo loro. Ma si tratta dell’alternativa a Nicolas Sarkozy, si tratta della speranza della gente. E questo Ps non incarna più la speranza di nessuno. Riesce a suscitare solo collera ed esasperazione.

Come ha votato alle europee?
Socialista, ovviamente. Cos’altro avrei potuto fare?

Avremmo creduto Cohn-Bendit, invece…
Sì, avrei potuto votare per Dany. Ma c’era quell’alleanza, a parer mio contro natura, con l’antiliberale Bové. Dunque ho votato Ps. Ma come tutti: per abitudine, senza crederci, e con la sensazione che si stesse tentando la rianimazione di un cadavere…

Il “grande cadavere riverso”?
Esattamente. Il libro ha due anni. Ma in due anni la situazione non s’è aggiustata. Il cadavere, sempre lui. Ma in decomposizione. Proprio la situazione descritta da Sartre nella prefazione a “Aden Arabia” da cui ho preso a prestito il titolo del mio libro.

Morboso!
No. E’ l’esatto stato delle cose. A che pro non guardare in faccia la realtà? Siamo alla fine di un ciclo. Il Ps è nella stessa situazione del Pc della fine degli anni 70, quando, a disintegrazione avviata, si cercava di scongiurarla tramite formule magiche tipo -già allora- “rifondazione” e “rinnovamento”.

Martine Aubry come Georges Marchais?
A questo stadio, non si tratta più delle qualità dell’uno o dell’altro. Aubry è in gamba, però il suo ruolo non può che essere quello del guardiano di una casa morta - lei non può farci nulla. Le parole, d’altronde, dicono tutto. Si parla del “richiamo all’ordine” di Manuel Valls. Richiamo all’ordine… Il socialismo che termina nella caporalizzazione…

Quindi il Ps sta per morire?
No. Il Ps è morto. Nessuno, o quasi, osa dirlo. Ma tutti, o quasi, lo sanno. E’ come il ciclista d’Alfred Jarry che pedalava nonostante fosse già morto. O come il cavaliere d’Italo Calvino la cui armatura era vuota. Il Ps è morto.

E le ne è felice?
Io penso soprattutto che bisogna dire le cose. Piaccia o no, bisogna dirle, prenderne atto, redigere l’atto di decesso – e far saltare questa cappa di piombo che impedisce di pensare, d’immaginare, di respirare e, ovviamente, di ricostruire. C’è una figura della sinistra morale di cui, forse, i vostri giovani lettori hanno dimenticato il nome. Si tratta di Maurice Clavel. Egli diceva, un tempo: per vincere la destra, occorre spezzare la sinistra.

Per molti il Ps rappresenta comunque il partito che li tutela, che amministra le regioni…
Vero. Ed è importante che le regioni siano ben amministrate, e da militanti che proteggano i deboli piuttosto che da darwinisti. Ma la politica non è questo. La politica è anche volontà di cambiare, un po’, il mondo. Ebbene, di questa volontà non c’è più traccia presso i rinoceronti di un Partito che pare stia lì per gestire, oltre alla regioni, ciò che Hannah Arendt chiamava “la derelizione del politico”.

Dunque, secondo lei, bisogna archiviare il Partito socialista?
Bisogna accelerarne la fine, sì, sicuro. Dissolvere. Finirla il prima possibile con questo grande corpo malato che, ironicamente, come il proletariato di un tempo, pare occupato a “negarsi in quanto tale”.

E come dissolverlo?
La storia, diceva Marx, ha più immaginazione degli uomini. Quindi tutti gli scenari sono possibili. Tutti. La sola cosa certa è che il Partito che fu di Blum e di Jaures sta perdendo ciò che gli rimaneva della sua anima – e deve sparire.

E quanto ai leader che non pensano che a se stessi e alla propria carriera?
Non è questa la cosa che scandalizza di più. Per lo meno lo scontro degli ego ha il pregio di fare scoppiare quelle contraddizioni che, solo esse, generano il dibattito. La politica sono anche i corpi. Memorie e idee – ma incarnate. Ciò che uccide il Ps non è l’eccesso, ma la mancanza di guerra intestina.

Nicolas Sarkozy dice che il Ps non sparirà…
Che crudeltà!

Sarkozy gioca un qualche ruolo in questa situazione?
Che se ne avvantaggi è evidente. Ma bisogna smetterla di cercare la pagliuzza nell’occhio del vicino quando si ha una trave nel proprio. Non è perché Sarkozy arruola dei socialisti che il socialismo muore. E’ perché il socialismo muore che Sarkozy può arruolare.

La questione del nome, socialista, è importante?
Evidentemente. Qualunque nominalista ve lo dirà: un nome, è più che un nome. E, su questo punto, Valls ha ragione: occorre, urgentemente, cambiare nome.

Solo il nome?
Il nome dice il resto. Chiamare male le cose, diceva Camus, significa accrescere la miseria del mondo. Chiamarle bene, invece, diminuisce la confusione, conduce all’essenziale. Ora, cos’è l’essenziale? Tre grandi rifiuti, da pensare insieme, non contraddittoriamente, perché sono l’identità stessa della sinistra. L’antifascismo. L’anticolonialismo. L’antitotalitarismo.

E l’uguaglianza?
E’ il punto di raccordo dei tre. Certo, l’uguaglianza. A quando risale il declino? Due cose hanno mascherato il fenomeno. La vittoria di Mitterand, e l’esaltazione che ne è derivata. E poi l’ascesa del Fronte nazionale che fece nutrire l’illusione di una identità “facile”. Ma, invero, il male stava lì.

Da quando?
Tutto è cominciato col declino del comunismo. Si era per. Si era contro. Ma ci si determinava in rapporto ad esso. Ragion per cui, quando l’astro è tramontato, quando non è più brillata che la luce delle stelle morte, è tutta la sinistra, tutta la galassia, che, a sua volta, ha cominciato a impallidire.

Il Ps non è stato nel campo dei nemici della libertà!
No. Ma quando il super-io marxista s’è scrostato, il Ps s’è lasciato infiltrare da una ideologia reazionaria, letteralmente reazionaria, da cui non è guarito.

Reazionaria in cosa?
Prendiamo la questione europea, con ritorno, da parte di taluni, allo sciovinismo dell’epoca di Jules Guesde. O l’antiliberalismo pavloviano, l’incapacità, come invece avviene nella sinistra italiana, per esempio, di saper distinguere tra il buon “liberalismo” (quello delle autonomie operaie, di Gavroche, delle lotte per un po’ più di libertà) ed il cattivo “liberalismo” (la legge del mercato applicata a tutto, compresa la cultura, la vita privata, la parte di segreto di ognuno di noi, ecc.). O ancora l’odio fobico per l’America che è, anche, un infallibile indicatore della discesa verso l’anti-illuminismo.

Ma il Ps segue Obama?
Lo rende un feticcio, è diverso. E si guarda bene dall’integrare ciò che Obama davvero rappresenta: un ritorno ai valori stessi del progressismo.

L’idea di primarie, per designare il candidato?
Senza primarie, Obama non sarebbe mai stato designato. Senza primarie alla francese, senza una vasta consultazione aperta, popolare, mai verrà avviato il processo che conduca ad un nuovo partito di sinistra che rompa con una macchina fatta per perdere.

Segolene Royal, di cui lei è stato consigliere, avrebbe potuto salvare il Ps?
Forse, al contrario, il Ps non sarebbe sopravvissuto alla sua vittoria.

E Valls?
Valls fa parte, come la Royal, come Strauss-Kahn, come altri, di coloro che possono essere all’origine del big bang e ricostruire sulle rovine.

Valls rivendica la fine del Ps, ma è in carrozza da talmente tanto tempo… Royal, Strauss-Kahn sono stati ministri sotto Mitterand…
Poco importa. C’è un vecchio aggeggio che si chiama dialettica e che ha la buona abitudine di fare i propri figli sul dorso degli attori della Storia. Ebbene la dialettica, al momento, è all’opera. La sinistra di domani, la sinistra moderna e reinventata, è ancora invisibile – ma c’è.

Intervista di Claude Askolovitch, Le Journal du dimanche, 19.07.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Il video shock di Ahmadinejad «La nostra rivoluzione è planetaria»



«Un vero discorso di ispirazione fascista-messianica, perché seppur in modo diverso dal nostro in Europa quel mélange di culto della forza e di ossessione della purezza altro non è: fascismo». «Un chiaro annuncio del progetto di rivolgimento planetario e di esportazione della rivoluzione islamica nel mondo: terrificante». Bernard-Henri Lévy, noto filosofo e intellettuale francese, impegnato in politica nonché reporter, non ha dubbi sull'importanza del video appena uscito clandestinamente dall'Iran e di cui è venuto in possesso.

«Un documento straordinario» che riprende il presidente Mahmoud Ahmadinejad mentre arringa, con voce sommessa, una quindicina di religiosi iraniani in turbante bianco o nero, alla presenza del suo mentore, l'ayatollah oltranzista Mesbah Yazdi. «Ho deciso di mettere quel filmato sulla mia pagina di Facebook — spiega Lévy al Corriere — perché la gente deve sapere. E perché i giovani e l'opposizione in Iran non vanno lasciati soli in questo momento. È un atto di solidarietà come cittadino, anche se non so chi l'abbia ripreso, nè chi l'abbia inviato». Nel video, oltre dieci minuti di audio e immagini scadenti, probabilmente filmato di nascosto con il telefonino da un partecipante, Ahmadinejad sussurra con voce e occhi bassi rivolgendosi ai «cari» invitati, seduti a un tavolo ingombro di fiori e microfoni. Dice di essere a Qom, la città santa sciita dove risiede e predica Mesbah Yazdi (e molti altri ayatollah anche dell'opposizione, come Ali Montazeri o Yousef Sanei). Ringrazia i presenti per i «servigi» offerti, dice che questi serviranno a preparare finalmente una «grande vittoria, perché i tempi sono propizi». «Non sappiamo quando sia avvenuto l'incontro ma penso che fosse il 13 giugno, all'indomani delle elezioni — dice Lévy —. Quel ringraziamento riguarda i brogli che hanno hanno consentito al presidente di "vincere", anche se qualcuno tra i miei amici iraniani pensa sia precedente al voto e che il grazie sia invece per la preparazione delle elezioni truccate. Ma se i tempi sono ambigui, non lo è il resto: la "grande vittoria" di cui parla Ahmadinejad è la futura esportazione della rivoluzione islamica nel mondo che il presidente sogna da tempo. Un progetto terrificante. Un video che fa ancora più impressione di quelli sulle proteste a Teheran».

Nel consueto mix di Corano e politica, toni profetici e apparente umiltà, Ahmadinejad si dice in effetti certo che «la rivoluzione islamica ha ormai trovato la sua strada e un grande rivolgimento è iniziato: avrà dimensioni planetarie poiché il mondo ha sete di cultura musulmana, come diceva sempre l'Imam Khomeini». Il movimento, di cui lui si dice «solo uno dei partecipanti», ha una «forza immensa». «E se qualcuno pensa che l'organizzazione o le forze armate a nostra disposizione non siano sufficienti — continua Ahmadinejad sussurrando monotono — ebbene si sbaglia, poiché la logica comune non si applica a movimenti come questo, sostenuti dalla volontà e dalla misericordia divina». Se da un lato Ahmadinejad si dichiara certo del «sostegno di Dio», dall'altra chiede però ai presenti di fare il possibile per rafforzare il movimento: «Bisogna mobilitare tutti i potenziali intellettuali e manager per realizzare la legge e la giustizia dell'Islam e instaurare una società sul modello islamico nella nostra cara patria», dice, convinto come Yazdi che lo spirito della Repubblica Islamica in Iran si sia perso, e che prima di esportare la rivoluzione nel mondo si debba far pulizia in casa. Poi parla del popolo iraniano «che nel suo insieme non è malvagio» anche se «chi si basa su analisi e non su Dio non è certo un illuminato», e se «tutti quei giovani cresciuti in casa e a scuola non sanno niente dei grandi avvenimenti. Che noi, umani e maturi invece conosciamo». Discorsi che preludono a un golpe, come qualche commentatore iraniano su siti e forum sostiene?, chiediamo a Lévy. «Non saprei, difficile dirlo — risponde lui —. Ma di certo so che il regime è condannato. Se cercate in archivio gli articoli che il filosofo Michel Foucault scrisse proprio per il Corriere della Sera nel 1979, vedrete che dall'inizio delle proteste alla caduta dello Scià passò un anno. Ci volle del tempo allora, ce ne vorrà adesso. Ma alla fine accadrà».

Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera, 26.06.2009

Video: Appello alla gioventù iraniana





Qualunque cosa accada, nulla sarà più come prima a Teheran. Qualunque cosa accada, che la protesta divampi incontrollata o al contrario segni il passo, che finisca per trionfare o si estingua, terrorizzata dal regime, colui che d'ora in poi non merita altro che l'appellativo di presidente non eletto, Ahmadinejad, è destinato ad essere un presidente da strapazzo, illegittimo, in declino. Qualunque cosa accada, qualunque sia l'esito della crisi scoppiata quindici giorni fa per lo scandalo di una frode elettorale di cui non si può più seriamente dubitare, nessun dirigente iraniano oserà comparire sul palcoscenico mondiale, né presentarsi ai negoziati con Obama, Sarkozy, Merkel, senza essere circondato non già dall'aureola di luce sognata da Ahmadinejad, come disse durante il suo discorso alle Nazioni Unite nel 2005, bensì dalla nube sulfurea che appesta gli imbroglioni e i macellai. Qualunque cosa accada, l'ayatollah Khamenei, successore di Khomeini e, a tal titolo, guida suprema del regime, sarà costretto ad abbandonare il suo ruolo di arbitro, per essersi sfacciatamente schierato per una fazione contro le altre e avrà pertanto perso, anche lui, quel che restava della sua autorità: «Solo Dio conosce il mio voto», aveva ribattuto con prudenza, quattro anni fa, a quanti lo invitavano sin d'allora a denunciare i brogli. «Nel nome di Dio misericordioso, mi impegno a imbavagliare, massacrare e sciogliere ogni assembramento» ha risposto stavolta agli ingenui che si immaginavano che fosse lì per far rispettare la Costituzione. Qualunque cosa accada, il blocco degli ayatollah oggi ha messo in bella mostra le feroci divisioni che lo lacerano: da una parte, quelli che spalleggiano Khamenei e approvano la decisione di soffocare il movimento nel sangue; dall'altra, quelli che minacciano, come l' x presidente Rafsanjani, capo della potentissima Assemblea degli esperti, l'eruzione di un vero e proprio vulcano di rabbia, se non si terrà conto dell'ondata di proteste; e altri ancora, come il grande ayatollah Montazeri, confinato agli arresti domiciliari a Qom, che invoca il riconteggio dei voti e il lutto nazionale per le vittime della repressione. Per non parlare poi dei vertici religiosi dell'«Ufficio dei seminari teologici», che non temono più di formulare l' ipotesi, ieri ancora sacrilega, di dimissionare Khamenei per sostituirlo con un «Consiglio di guida». Qualunque cosa accada, e al di là delle schermaglie di apparato, il popolo si sarà per sempre dissociato da un regime dal fiato corto e colpito al cuore. Qualunque cosa accada, una gioventù che si credeva convertita ai principi dell' islam politico e che, stando ai resoconti, appena un mese fa, al ritorno da Ginevra di Ahmadinejad, pare avesse riservato al presidente non eletto un' accoglienza trionfale, questa gioventù ha già proclamato a gran voce di vergognarsi di un simile presidente. Qualunque cosa accada, ci saranno a Teheran, a Tabriz, a Isfahan, a Zahedan, a Ardebil, milioni di giovani che nel breve spazio di qualche giorno saranno diventati più grandi dei loro anni, come il timido Mousavi, e avranno compreso che si poteva sfidare un potere con le spalle al muro a mani nude, senza provocazioni né violenze. Qualunque cosa accada, si è verificato un avvenimento straordinario, il miracolo di un' insurrezione popolare che, nelle presenti circostanze, forte del suo mimetismo cieco e quasi inconsapevole di sé, come l' Angelo della Storia, pensa di andare in avanti mentre, in realtà, si guarda indietro. Un avvenimento che sembra riproporre, ma al contrario, le scene descritte trent'anni fa nelle stesse strade, da un Michel Foucault lontanissimo dall' immaginare che la vera rivoluzione era ancora a venire e che sarebbe stata l'opposto esatto di quella da lui narrata. Qualunque cosa accada, nel calore delle manifestazioni pacifiche si è forgiato un corpo politico che incarna un attore nuovo che fa il suo ingresso in scena e senza il quale non sarà più possibile scrivere la storia successiva della nazione. Qualunque cosa accada, il bel viso di Neda Soltani, uccisa a bruciapelo lo scorso sabato per mano di un sicario dei Basij, come pure le immagini dei ragazzini pestati a morte dagli squadroni dei guardiani della rivoluzione e degli acrobati in motocicletta, i video dei cortei sconfinati, impressionanti per la calma e la dignità, avranno fatto grazie a Twitter il giro del cyberpianeta e pertanto del mondo intero. Qualunque cosa accada, il re è nudo. Qualunque cosa accada, il regime degli ayatollah è condannato, a breve o lungo termine che sia, a scendere a patti o a scomparire. Si dimentica sempre che l' altra rivoluzione, la prima, quella che trent' anni fa mise in piedi questo nazional-socialismo all' iraniana, durò quasi un anno intero: perché mai dovrebbe essere altrimenti per questa di oggi, democratica, rispettosa della legalità, che muove i primi passi? La terra trema a Teheran e scommetto che siamo solo all' inizio.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Con il popolo iraniano, come non mai

Enorme truffa elettorale o no?

Nuova forma di colpo di stato o no?

E come interpretare queste strane elezioni i cui risultati sono stati annunciati dalla stampa legata ai servizi segreti e alle milizie filogovernative ancor prima che gli scrutini fossero terminati? Vista l’assenza di osservatori internazionali, visto che gli scrutatori inviati dagli oppositori di Ahmadinejad sono stati cacciati dai seggi a colpi di manganello, e considerato il clima di terrore in cui le elezioni si sono svolte, è difficile pronunciarsi con certezza. Ma tre cose, ad ogni modo, restano certe.

La prima è che queste elezioni sono state democratiche solo in apparenza. Mir Hossein Moussavi, il principale rivale di Ahmadinejad, è anche lui figlio del sistema. A proposito del “diritto” dell’Iran al nucleare, le sue posizioni non differiscono di molto da quelle di Ahmadinejad. Inoltre, interrogato sulle dichiarazioni negazioniste dell’avversario, Moussavi non ha esitato a dichiarare: “Ammettendo che ci sia stato lo sterminio degli ebrei in Germania (si noti la sottigliezza di quell’ammettendo che...), cosa avrebbe esso a che fare con il popolo oppresso della Palestina, vittima di un olocausto a Gaza (questo dice tutto...)?”. In altre parole, non ci troviamo di fronte ad un Gorbaciov iraniano. L’uomo che possa osare una vera perestroika resta inconcepibile, e inesistente, in una repubblica islamista ad oggi più blindata che mai. E gli osservatori che commentavano l’"alternativa" proposta da un uomo, Moussavi appunto, già primo ministro di Khomeini, oltre che direttore onnipotente dell’equivalente iraniano della Pravda, peccavano per ingenuità - un po’ come quelli che, ai tempi della trionfante Unione Sovietica, discettavano sulle impercettibili lotte tra fazioni in seno a un apparato maestro, anch’esso, nell’orchestrare la propria commedia. È un dato di fatto.

L’altro fatto certo, peraltro, è il desiderio di cambiamento di una parte non indifferente, forse addirittura maggioritaria, della società iraniana. Gli elettori esasperati che vediamo, da domenica, sfidare i paramilitari delle milizie... Le donne che, a Teheran ma anche a Isfahan, Zahedan e Shiraz, reclamano l’uguaglianza dei diritti... I giovani, collegati tutto il tempo alla Rete e che hanno fatto di Facebook, di Dailymotion e del sito “I love Iran” il teatro di una guerriglia ludica ed efficace... I conducenti di taxi, araldi della libertà di espressione... Gli intellettuali... I disoccupati... I mercanti dei bazar in rotta contro un governo che li manda in rovina... In breve, i ribelli contro gli imbroglioni. I blogger e i burloni contro i sepolcri imbiancati dell’apparato militare islamista. L’autore anonimo della battuta che, rimbalzata tramite sms su milioni di cellulari, a quanto pare diverte i manifestanti: “Perché Ahmadinejad si pettina con la riga in mezzo? per separare i pidocchi maschi dalle femmine”... Tutti costoro hanno votato per Moussavi. Ma senza farsi illusioni. In mancanza di meglio. Come i polacchi di Solidarnosc che, negli ultimi anni del comunismo, autolimitavano la loro rivoluzione in attesa di vedere il regime autodistruggersi e sparire.

La terza certezza, infine, è che l’iniziativa, all’improvviso, torna più che mai nelle mani delle democrazie. Delle due l’una, infatti. O vincono i partigiani della realpolitik, ci rassegniamo davanti al presunto verdetto delle urne e ratifichiamo il peggio, come quel ministro degli Affari esteri francese che, nel 1981, al momento del colpo di Stato contro Solidarnosc, pronunciò il suo famoso “Sia chiaro che noi non faremo nulla”. Oppure, davanti a un Paese diplomaticamente isolato, davanti a un regime nella cui caduta sperano, più o meno esplicitamente, tutti gli Stati confinanti, davanti ad un’economia esangue incapace persino di raffinare il proprio petrolio, decidiamo di ricorrere ai mezzi che abbiamo a disposizione e che sono molto più numerosi di quanto si pensi.

Eviteremo così la doppia catastrofe che sarebbe, da un lato, l’inasprimento della repressione, forse addirittura un bagno di sangue a Teheran, e, dall’altro, l’inevitabile rafforzamento di uno Stato jihadista che rappresenterebbe un terribile pericolo per il mondo, dotato com’è di un arsenale nucleare che -non ne ha mai fatto mistero- non esiterebbe a mettere immediatamente al servizio dell’Imam nascosto e della sua apocalittica riapparizione.

Da queste tre certezze, prese insieme, scaturisce un obbligo chiaro: fare di tutto per aiutare e rafforzare la società civile iraniana in rivolta. L’abbiamo fatto, un tempo, con l’URSS. Abbiamo finito col comprendere, dopo decenni di vigliaccheria, che, giunto ad un certo stadio di putrefazione, il totalitarismo traeva la propria forza solo dalle nostre debolezze. E noi abbiamo saputo organizzare catene di solidarietà con coloro che venivano definiti dissidenti e che alla fine trionfarono sul sistema. In Iran esiste l’equivalente di quei dissidenti. Questi sono persino -lo stiamo scoprendo in queste ore- infinitamente più numerosi e potenti. E’ loro che occorre sostenere. E’ loro che bisogna incoraggiare. La “mano tesa” di Obama? Possa essa essere anche tesa in direzione di questa gioventù, onore di un popolo che ha dato i natali ad Avicenna, Razi, al-Ghazali, Rumi e tanti altri. È questa la posta in gioco.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 18.06.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Perché commemorare i morti della Shoah

Non bisogna lasciare, si chiedono taluni, che i morti seppelliscano i morti e che l' oblio, il buon oblio, cicatrizzi le ferite del passato? Certo che sì. Del resto nulla è più conforme ai comandamenti della Torah dell'ingiunzione evangelica di seppellire subito, una volta per tutte, i morti. Salvo… Sì, salvo quando si tratta di morti non ancora, appunto, seppelliti. Salvo quando si tratta di morti la cui stessa morte implicava che fosse senza tomba. Salvo quando si tratta di morti di cui era previsto che non lasciassero traccia in alcun luogo. Allora, sì, spetta ai vivi essere le tombe viventi di quei morti. E allora sì, in via eccezionale, è dovere dei sopravvissuti portare in sé il ricordo dei padri che, per sempre, avranno l'età dei propri figli. Noi siamo le tombe dei nostri padri... Quei morti, quei poveri morti, hanno grandi dolori... Sono parole di Baudelaire. È il caso della Shoah.

Quel crimine, dicono ancora alcuni, fu un grande crimine. Ma cosa vi fa dire che sia più grande di altri? e perché, nel susseguirsi di crimini che è la storia degli uomini, questo posto d'eccezione? Non si tratta di questo, naturalmente. E nulla è più estraneo alla tradizione ebraica dell'idea di stabilire, fra i morti, una qualsiasi gerarchia. Salvo che lì si verificò un evento senza precedenti. Ovvero un progetto di messa a morte che non solo implicava l'assenza di tracce, ma anche l'impossibilità per le vittime di trovare un luogo, uno solo, dove sottrarsi ai carnefici. Le vittime degli altri genocidi potevano, in teoria, avessero trovato asilo in un Paese vicino, sfuggire agli assassini. Nessuna via d'uscita per gli ebrei. L'Europa intera e presto, in teoria, tutto il mondo, a mo’ d’immensa trappola. Uno sterminio - è questa la sua singolarità - che, poiché non prevedeva "resto", superstiti, non lasciava via di scampo.

La nozione di sterminio senza “resto”, è importante per un'altra ragione, concreta, e questa ragione è Israele. Perché, di nuovo, si sente dire: "sì, d'accordo, un crimine; sì, a rigore, un crimine singolare; ma perché si sono dovuti installare i superstiti della tragedia nell'unica parte del mondo che non partecipò al crimine e che è il mondo arabo?". Di nuovo, la risposta: è il mondo stesso che si fece trappola; non ci fu una sola parte del mondo in cui non soffiò il malvagio vento di quella morte; e il mondo arabo non fu da meno nel progetto di sterminio totale. Noi abbiamo, oggi, tutte le informazioni sulla questione. Abbiamo le Memorie del Gran muftì - hitleriano - di Gerusalemme. Abbiamo i lavori degli storici che raccontano di come la legione SS araba aspettasse, dietro l'esercito di Rommel, il momento di attaccare, sterminare gli ebrei già insediati in Palestina. Sappiamo, in altre parole, che il nazismo fu un'ideologia mondiale che conobbe versioni nazionali e, in particolare, una versione araba – ed anche per ricordare tutto ciò serve commemorare la Shoah.

Scrivo queste righe il 20 aprile 2009. Per fissare questa commemorazione si sarebbe potuto scegliere il giorno dell'apertura dei campi. O quello della Conferenza di Wannsee. O qualsiasi altro giorno che testimoni il martirio degli ebrei. Invece no. È stato scelto il 27 nisan del calendario ebraico -quest'anno, il 20 aprile, e dunque l'anniversario dell'insurrezione nel ghetto di Varsavia. E negli aspri dibattiti che presiedettero a tale scelta, questo dettaglio non sfuggì certo a nessuno. Cosa significava? Che si voleva infrangere il luogo comune di un popolo che va a morire come le bestie al macello. Che si volevano celebrare episodi eroici come le rivolte di Sobibor, di Birkenau, di Treblinka. Che si voleva cioè commemorare un massacro, ma anche una resistenza. Per me, che sono figlio non di un deportato, ma di un resistente, questa volontà è essenziale. Essa invita a ricordare che c'è sempre una possibilità, persino nella notte più nera, di insorgere e di sperare.

Un'ultima parola. Poiché parliamo di calendario, è invece per puro caso che si sia aperta, lo stesso giorno, la conferenza "antirazzista" di Durban II. E di nuovo si sono levate alcune voci per dire: "non temete, tenendo lo sguardo fisso sui vecchi genocidi, di non scorgere quelli che avvengono qui, adesso, sotto i vostri occhi?". Ebbene, nessun timore. Poiché, oltre al fatto che suddetta conferenza si è tramutata (ci tornerò sopra) in una carnevalata, oltre al fatto che essa è servita a quel criminale di Ahmadinejad (tornerò pure su questo) per infangare il bel concetto di antirazzismo, io capovolgo la domanda. Perché le istituzioni votate al ricordo della Shoah si sono mobilitate, tutte, per il Darfur? Perché i primi ad aver capito quel che succedeva in Ruanda furono coloro, ebrei o non ebrei, che avevano a cuore la Shoah? Perché, quando il mondo chiudeva gli occhi sul massacro dei musulmani di Bosnia, a suonare l'allarme furono uomini che un solo pensiero avevano in comune, il "mai più" di Auschwitz? Non erano più informati di altri. Avevano giusto una bussola. Una scala del male e del peggio. Una sorta di radar che segnalava, ogni volta, la prossimità della Bestia e il suo caratteristico profumo. È questo, il ricordo della Shoah. Ed è per questo che bisogna commemorarla.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 23.04.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Barack Obama, l'Europa e la questione pakistana

Ancora una volta, Obama mantiene la parola. Colui che, quasi cinque anni fa, quando era soltanto il giovanissimo senatore dello stato dell’Illinois, già spiegava come il problema numero uno non fosse l'Iraq ma il Pakistan, venerdì scorso ha ben precisato la propria strategia nei confronti del “paese dei puri”. E quanto ci dice non solo conferma ciò che all’epoca era solo l’intuizione di un giovanissimo uomo, ma costituisce una catena di proposte ben formulate, di una solidità che non fa una piega, e che rompono, tutte, con quello che rimarrà il più enorme degli errori strategici degli anni Bush.

Prima proposta. Il Pakistan costituisce, più dell'Iraq dunque, più del Medio Oriente, ed anche più dell'Iran di Ahmadinejad, il vero buco nero che la diplomazia internazionale dovrà affrontare. È lui la retrovia di Al Qaeda. È lui il vivaio del terrorismo più fanatico. E questo non è vero né ai margini (le famose “zone tribali” tra Afghanistan e Pakistan) né per caso (certi gruppi del Kashmir per mettere in ginocchio i quali l'esercito ufficiale farebbe di tutto) ma, oserei dire, eminentemente (non sono forse i servizi di sicurezza pakistani che si infiltrano nella maggior parte di questi gruppi criminali lasciando che essi prosperino fino al centro di Islamabad ?). Gli osservatori seri lo sapevano. Daniel Pearl è morto per aver detto troppo sull'argomento. Ed io stesso ho dedicato un libro intero, “Chi ha ucciso Daniel Pearl?”, ai legami fra l'ISI e quei gruppi, come il Lashkar-e-Janghvi o il Lashkar-e-Toiba, che sembravano, a ragione, il nocciolo duro della nebulosa Bin Laden. Ma colui che nel frattempo è divenuto il presidente della più grande democrazia del mondo lo dice con una tale determinazione che i suoi principali consiglieri, come Richard Holbrooke, ne sembrano a loro volta persuasi e che il capo di Stato maggiore interforze, Michael Mullen, arriva a spiegare, con franchezza, come la strumentalizzazione di Al Qaeda attraverso l’ISI (e viceversa) è un fatto accertato che “deve cambiare” - ecco, sì, un‘autentica svolta.

Seconda proposta: si può, prosegue Obama, sostenere il Pakistan. Lo si può continuare a considerare un alleato di primo piano. Gli si può fornire ogni aiuto, di qualsiasi natura, necessario allo sviluppo di quel grande paese che è esso divenuto. Ma questo aiuto non può più essere cieco. Non può più essere automatico. Non si possono più continuare a distribuire miliardi di dollari a chi poi li dirotta verso “ONG” come la Ummah Tameer-e-Nau, da me identificata a suo tempo e che, in collegamento con la lobby nucleare di Abdul Qader Khan , il Dottor Stranamore pakistano, forniva ad emissari di Bin Laden il necessario per montare armi atomiche miniaturizzate. In altre parole, questo aiuto deve essere “vincolato”. Deve essere “condizionato”. Può continuare decentemente a funzionare solo se accompagnato da misure che costringano coloro che lo ricevono a “renderne conto”. Pure qui, siamo di fronte all'evidenza. Pure qui si tratta di ciò che gli stessi i pakistani - perlomeno quelli che hanno a cuore i diritti dell'uomo quanto il proprio Paese - reclamano da decenni. Ma che un Presidente americano ne prenda atto, che accetti di fornire il suo aiuto non come una cornucopia, ma come uno strumento politico e una leva, che abbia l'audacia di farne un dispositivo di pressione -se non di ricatto- democratico, è un altro evento di primissima importanza.

Terza proposta: i principali nemici di quest’Al Qaeda che in Pakistan si muove come un pesce nell'acqua, non sono gli americani. Sono, dice sempre Obama, i pakistani stessi. Di nuovo, lo si sapeva. Di nuovo, e per parlare solo di quello che io ho visto e filmato di persona, tutti sapevano che la madrasa di Binori Town è il santuario, in piena Karachi, di bande la cui occupazione preferita è ciò che pudicamente viene definito, laggiù, lo “scontro inter-settario”, ma che in realtà significa massacro a sangue freddo di sciiti disarmati. E, anche in questo caso, nessun pakistano può ignorare che sono le proprie figlie, le proprie amiche, la propria moglie ad essere in prima linea in una guerra dove si continua a bruciare viva una donna sorpresa a guardare un uomo che non sia il marito. Ma che il Presidente Obama, di nuovo, ne prenda atto, che affermi - sono le sue parole - che Al Qaeda è un “cancro” e che questo un cancro sta “distruggendo il Paese dall' interno”, che proclami dinanzi al mondo di voler soccorrere milioni di musulmani, bersaglio di tale violenza, significa che finalmente è stata trovata la formula di una lotta contro il terrorismo capace, per la prima volta, di evitare lo scoglio dello scontro di civiltà alla Bush e alla Huntington.

Andare a cercare il nemico fin dentro il cuore dello Stato pakistano… Far dipendere l’aiuto offerto a questo Stato dallo zelo che esso metterà nell'epurare i propri servizi segreti… Rilevare come l'unico scontro di civiltà che conti è quello, in seno all'Islam, che oppone jihadisti e moderati… Gli europei conoscono i termini dell'equazione. Cosa aspettano a dirlo? E, una volta detto, cosa aspettano a prestare la loro collaborazione alla revisione della dottrina geostrategica più decisiva del momento?

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 2.04.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Rifiutiamo la farsa di Durban II

Tutti si rammentano della famosa conferenza di Durban conclusasi, due giorni prima dell’11 settembre, nella città omonima, nell’Africa del Sud, sotto l’egida delle Nazioni unite.

Noi tutti conserviamo il ricordo del terribile spettacolo offerto, a Durban appunto, da quei rappresentati delle ONG che in teoria avrebbero dovuto stimmatizzare l’intolleranza ed il razzismo ma che, in realtà, convennero sul fatto che vi fosse un solo Stato razzista al mondo e che quello Stato fosse Israele.

Ad ogni modo io non posso dimenticare lo stupore e, ben presto, la disperazione delle delegazioni dei sopravvissuti al genocidio ruandese, dei militanti della democrazia zimbabwese, degli intoccabili indiani, dei Pigmei, dei superstiti dei massacri sudanesi…, quando realizzarono che la loro sorte non era d’alcun interesse per quei crociati del movimento altermondista che avevano fatto man bassa sulla conferenza e che , in materia di discriminazione, volevano vedere solo quei popoli le cui disgrazie potessero essere imputate all’Occidente in generale e agli “Americano-sionisti” in particolare.

Otto anni dopo, replica.

Dal 20 al 24 aprile prossimo, a Ginevra, nuova conferenza -chiamata Durban II- in cui si devono valutare, ci viene spiegato, i “progressi” realizzati dopo Durban I in materia di lotta contro il razzismo.

Salvo che tutto ciò che si sa dell’organizzazione di questa nuova conferenza, tutto ciò che è potuto filtrare attorno alle intenzioni del “Comitato preparatorio” presieduto dalla Libia, tutto ciò che si può leggere, soprattutto nel progetto di “Dichiarazione finale” già redatto da quella commissione con l’aiuto, in particolare, dei suoi vice.presidenti pakistani, cubano e iraniano –ah! che campioni di democrazia…- lascia presagire il peggio.

Israele messo sotto accusa come non mai, perché fondato, dicono, su un “apartheid”…

La critica delle religioni e, in particolare, dell’islam definita alla stregua di un “razzismo”…

L’iscrizione, altrimenti detto, del “delitto di blasfemia” tra i crimini maggiori che la comunità internazionale dovrebbe mettersi a stigmatizzare…

Senza parlare di come non dica una parola, questo progetto di Dichiarazione, né dello Zimbabwe di Mugabe, né del Darfur e dei suoi trecentomila morti, né di nessuna delle ecatombi di cui il mondo -e in particolare l’Africa- è, in questi stessi giorni, teatro, ma contro le quali i detentori dell’asse iraniano-libanese non erano di certo credibili nella parte di chi è disposto a darsi anima e corpo…

Questo è lo spirito di Durban II.

Questa è alla lettera il testo che, a partire dal 20 aprile, verrà sottoposto alla discussione.

E questa è dunque la trappola che si sta approntando e in cui si vorrebbero veder cadere i governi dei paesi democratici così come, giunti dal mondo intero, i militanti antirazzisti.

Allora, io so bene che una discussione è, per definizione, un luogo aperto.

E non ignoro che rimangono molti giorni, da qui al 20 aprile, per tentare di modificare un testo che tutti convengono nel ritenere inaccettabile.

Ma poiché il punto di partenza è quello, poiché lo zoccolo delle argomentazioni è quell’accozzaglia di pregiudizi, di odi e di silenzi, e poiché già si può presumere quale sarà il rapporto di forze in seno ad un Comitato preparatorio monopolizzato, lo ripeto, dai rappresentanti di Ahmadinejad e Gheddafi, non si vede come, per quanto emendata, la Dichiarazione che ci viene presentata potrebbe servire da Carta ad un’azione antirazzista mondiale concertata.

Ecco perché alla questione posta, lo scorso lunedì mattina, il 2 marzo, dal segretario di Stato Rama Yade ad un gruppo di intellettuali (bisogna andare a Durban II? bisogna, e fino a quale punto, battersi perché siano rispettate le “linee rosse” tracciate dalla diplomazia francese? o bisogna, come il Canada e, forse, gli Stati Uniti, rassegnarsi al boicottaggio?) io rispondo, personalmente, che sì, ahimé, la soluzione del boicottaggio sembra essere la più ragionevole, la più degna, e nello stesso tempo la più conforme alla vocazione della Francia.

La più conforme alla vocazione della Francia, perché è inconcepibile che il paese di Voltaire possa entrare nella spirale di un dibattito dove ai rappresentanti delle Chiese verrebbe riconosciuto il diritto di limitare la libertà di espressione e di coscienza.

La più degna, perché non è immaginabile -trentaquattro anni dopo l’"ignominia” (Michel Foucault) della risoluzione dell’Unesco che assimilava il sionismo ad una forma di razzismo- che la patria dei diritti dell’uomo possa consentire a che il legittimo dibattito politico sullo svolgimento, se non sull’origine, della guerra di Gaza si faccia stigmatizzazione globale, morale, unica nel suo genere, dello Stato ebraico.

E la più ragionevole, perché la lotta contro il razzismo è cosa troppo seria per poter essere lasciata nelle mani di un pugno di dittatori la cui principale preoccupazione è di far dimenticare le discriminazioni, le umiliazioni, le violazioni massicce dei diritti dell’uomo e della donna di cui i loro paesi sono teatro.

Nell’interesse stesso di questa lotta, nel rispetto della bella e nobile causa che è la causa antirazzista, in omaggio a tutti coloro che, da Fanon a Mandela, ne hanno definito lo spirito, bisogna rifiutare, senza indugio, con fermezza, e senza appello, la farsa di Durban II.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 5.03.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Cesare Battisti, il Brasile e l'Italia: questione di principio

Occorre ancora ripeterlo?

Qui non si tratta dell’uomo Cesare Battisti.

Non so se abbia commesso o meno i crimini che gli vengono imputati e che lui nega con ostinazione dall’inizio.

E, più in generale, odio il terrorismo, terrorismo di cui egli si fece propagandista e per il quale io non ammetto, mai, circostanze attenuanti.

Ciò detto, assisto alle reazioni della stampa a seguito dell’asilo politico accordatogli dal ministro brasiliano della Giustizia, Tarso Genro.

Osservo, in Italia, lo strano clima d’isteria a fronte dell'idea di veder fuggire un uomo che abbracciò, come migliaia d’altri, l’imbecille tesi della “lotta armata”, ma di cui si sta facendo -sic- il peggior criminale degli anni di piombo, l’incarnazione del loro orrore, la personificazione del male, il diavolo.

E credo che occorra rammentare, ancora una volta, un certo numero di princìpi, a qualunque costo, e anche se il tutto pare poco importante rispetto alla crisi sociale, alla povertà in aumento o all’esplosione in Guadalupe.

1. L’Italia è, senza dubbio, une grande democrazia. Ma anche alle più incontestabili democrazie accade di nascondere punti d’imperfezione e zone d’ombra. Gli Stati Uniti e la pena di morte… La tortura, in Francia, all’epoca della guerra d’Algeria... L’Inghilterra, minata, per decenni, da una guerra civile irlandese che sembrava non potesse risolversi se non nel sangue e nelle leggi d’eccezione... Ebbene, allo stesso modo l’Italia che, nell’urgenza della lotta al terrorismo degli anni 70, si è dotata di un arsenale legislativo contemplante, in particolare, una legge sui pentiti capace di accordare ad un uomo un'impunità totale o parziale a condizione di scaricarne il peso su qualcun altro. E’ quanto accaduto a Battisti. E’ sulla parola di pentiti (tra i quali il suo capogruppo, il sinistro Pietro Mutti) che Battisti è stato condannato, vent’anni fa, all’ergastolo. E a distanza di tempo, ora che si è usciti dallo stato d’emergenza ed è giunto il momento di curare le ferite, vi è, in questa faccenda, qualcosa di inaccettabile.

2. Tra i punti critici della democrazia italiana, c’è un’altra bizzarria, e si tratta di quella legge sulla contumacia per la quale un imputato, condannato in sua assenza e poi catturato dalla giustizia, si vedrà applicare automaticamente la pena già stabilita senza la possibilità, come avviene in Francia per esempio, di essere giudicato un'altra volta. Battisti, durante quel processo in contumacia, fu rappresentato da un avvocato da egli stesso incaricato durante l’esilio messicano? No, dice giustamente Fred Vargas, che, perizie grafologiche alla mano, ha mostrato ai Brasiliani come esistesse più di un dubbio sull’autenticità di quel mandato. E mai, soprattutto, la difesa di un avvocato potrà sostituire completamente la comparizione davanti a un giudice, faccia a faccia, parola contro parola, di un uomo su cui pesano presunti crimini tanto terribili. Qualsiasi cosa abbia fatto o potuto fare, trent’anni fa, il futuro autore di “Cargo sentimentale”, aveva diritto, pure lui, almeno una volta, di incontrare i propri giudici. Ed è perché quel diritto non gli veniva riconosciuto, è perché il Codice penale italiano stabilisce che, in caso di estradizione, gli toccherebbe direttamente la prigione a vita, che non poteva che apparire giusto accordargli, sebbene il termine suona improprio, anche se può scioccare, lo status di “rifugiato politico”.

3. Non si affronta un problema tanto enorme quanto quello degli anni di piombo italiani fabbricando un mostro, incollando sulla sua schiena la totalità dei crimini dell’organizzazione cui apparteneva, cucendogli sulla pelle l’intero carico dei peccati di un’epoca di cui egli non fu che una pallida comparsa - insomma producendo un capro espiatorio la cui esecuzione giudiziaria darebbe la sensazione di essersela sbrigata, a buon prezzo, col doveroso lavoro della rievocazione e del lutto. Tuttavia ciò è quanto ha fatto Silvio Berlusconi estraendo dal cappello, cinque anni fa, quel nome di Battisti che tutti, o quasi, avevano dimenticato. Ed è ciò che fa quella parte dell’opinione pubblica italiana che preferisce cancellare, accusando il solo Battisti, la terrificante complessità di un’epoca in cui si affrontarono i terrorismi di estrema sinistra e i terrorismi di estrema destra, così come gli intrighi mafiosi di uno Stato che strumentalizzava gli uni e gli altri (si veda il film “Il Divo”, che Paolo Sorrentino ha appena consacrato all’inossidabile presidente del Consiglio di quegli e dei successi anni, Giulio Andreotti). Tutto ciò non fa bene né all’Italia di oggi, né alla lotta contro il terrorismo di domani, né, infine, alle vittime che nulla hanno da guadagnare, nulla, nel vedersi gettare in pasto, a saldo di ogni conto, dei colpevoli incerti.

Non so se sia questo, in questi termini, a essersi detto il ministro della Giustizia del presidente Lula. Ma credo che la sua decisione sia stata saggia. Credo che sia irragionevole scatenarsi contro un Brasile trasformato (e con quale disprezzo!) in una repubblica delle banane più nota “per le sue ballerine che per i suoi giuristi”. Perché la verità di una vicenda che non sarebbe mai dovuta diventare “l’affare Battisti” è questa: poco importano, in simili casi, le persone; poco importa che queste abbiano bell’aspetto, stampa favorevole, buona reputazione o che ispirino simpatia; i princìpi sono princìpi solo se ad essi non si ammettono eccezioni.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 19.02.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Vent'anni fa, l'affaire Rushdie

Ricordo tutto come fosse ieri.

In comune la stessa età. E la stessa passione per l’India, così come il privilegio di aver conosciuto, e di averne parlato nei nostri libri, Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir, il vecchio Primo ministro ucciso per impiccagione. Osservo da lontano il percorso di questo contemporaneo quasi perfetto, quando, un giorno di febbraio del 1989, giunge la notizia: l’ayatollah Khomeyni, cui non restano che pochi mesi di vita, ha appena promulgato una fatwa di morte contro l’autore dei “Versetti satanici”.

Come molti altri scrittori la mia reazione è immediata, e si contrappone alle prudenze dei responsabili politici e religiosi del pianeta: solidarietà istintiva, incondizionata, al romanziere. Questo perché sento, tra l’altro, che qualcosa di essenziale sia in gioco lì, sotto i nostri occhi, nel fragoroso furore delle sommosse di Karachi, Delhi o Londra: la vita di un uomo, ovvio; il diritto di un romanziere di poter continuare a dar vita alle proprie finzioni, senza dubbio; ma, anche, uno sconvolgimento di sostanza, profondo, nel paesaggio ideologico contemporaneo.

Venti anni dopo, non ho cambiato parere. Salman è più tranquillo, quasi libero (dico “quasi” perché, sebbene egli abbia l’estrema eleganza di vivere come se niente fosse, una fatwa “sospesa” resta pur sempre una fatwa) – ma non ho di fatto modificato una virgola della mia analisi.

1. La questione dei “Versetti” inaugura una serie di regressioni il cui primo esempio è l’episodio delle caricature di Maometto. Certo, le situazioni sono differenti. Ma s’è trattato del medesimo orrore. La stessa reazione di immobilismo da parte dei grandi giornali che, salvo rare eccezioni, si guardarono bene dal solidarizzare con il loro collega danese vilipeso. E la stessa capitolazione a fronte di gruppi rivendicanti il diritto di sostituire la loro legge privata alle leggi della Reppublica. In Francia, Charlie Hebdo ha salvato l’onore.

2. La questione segna una svolta nell’idea che ci facciamo del principio di tolleranza. Essa tolleranza, fino alla fatwa, era quel principio per il quale la parola della maggioranza salvaguarda il diritto di quella delle minoranze, lasciando loro, nello spazio pubblico, luoghi di espressione. Dopo la fatwa, essa diviene il diritto, per qualunque minoranza, di perseguire proponimenti che sono la negazione dello spirito democratico. Eccola, ad Amsterdam, l’idea secondo cui le opinioni che hanno armato la mano dell’assassino di Theo Van Gogh meritano la stessa tolleranza di quelle, “provocatrici”, del cineasta. Eccola, a Parigi, l’opinione dei funzionari islamisti , “offesi” dall’apostasia di Ayaan Hirsi Ali, ritenuta non meno legittima di quella dell’ex deputato favorevole al diritto, per ognuno, di entrare in una religione e di uscirvi. Ed ecco, ovunque, il concetto di tolleranza brandito come uno stendardo da coloro che intendono mettere sullo stesso piano le culture in cui le donne, per esempio, sono considerate essere umani in tutto e per tutto e quelle in cui esse vengono ridotte allo status di elementi perturbatori di cui bisogna, ad ogni prezzo, nascondere i corpi e i visi. Culturalismo. Differenzialismo e relativismo morale. L’altra eredità dell’affaire Rushdie.

3. L’affaire è il segnale di un’autentica regressione dello spirito dei Lumi. Perché cosa sono i Lumi? Il diritto di credere e di non credere. Il diritto, se non si crede, di fregarsene delle credenze altrui. Questo diritto al blasfemo s’è imposto, non senza difficoltà, sui monoteismi ebreo e cristiano, ma resta criminale presso coloro che, nell’Islam, e successivamente all’affaire Rushdie, urlano: “d’accordo per la libertà d’opinione; d’accordo per il diritto di non credere; ma con moderazione, e a condizione che chi non crede non diffami l’idea di Dio”. Allora, non mi soffermo sulla povera idea che di Dio si fanno coloro che pensano che basti una caricatura a diffamarlo. Passo sul fatto che i veri caricaturisti del Profeta, quelli che l’oltraggiano più scandalosamente, sono coloro che ne fanno la bandiera della loro pulsione di morte. La verità è che un mondo in cui non si ha più diritto di ridere dei dogmi è un mondo immiserito. La verità è che un mondo in cui non si possa più fare fiction di tutto sarebbe un mondo più asservito. Tempi cupi. Oscuramento degli spiriti. Spirito del tempo.

4. Gli ayatollah non sono i primi ad aver voluto bruciare libri e uccidere scrittori? Certo. E tale attacco allo spirito è anche, ogni volta, uno degli indicatori avanzati dell’ingresso nel regno del peggio. Eh sì, appunto. L’affare Rushdie è stato proprio uno di quegli indicatori avanzati. Ha avuto la stessa funzione del rintocco di campane nel mondo antico. Sarebbe rimasto come una delle date, se non la data, indicante la comparsa di quella nuova variante del fascismo che è il fascislamismo. C’è stato l’11 Settembre e i suoi tre rintocchi… La morte di Massoud, all’inizio.. Il martirio di Daniel Pearl, un poco più tardi… Gli omicidi di massa in Algeria, un po’ prima… Ma il primo tempo della sequenza fu –all’improvviso ciò mi appare, retrospettivamente, molto chiaro- la condanna a morte di uno scrittore per offesa alla parola del Corano.

Che strana avventura, per un incantatore di parole, essere pure il nome di una data nera nella storia delle idee!

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 12.02.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Tom Cruise e le avventure della dialettica antinazista

L'uscita di “Operazione Valchiria”, prima negli Stati Uniti e in Germania, e, ora, in Francia, è evidentemente una buona cosa. Perché è sempre una buona cosa vedere il mondo onorare i propri eroi (Claus von Stauffenberg, anima del complotto del 20 luglio 1944 che fallì, com’è noto, nel tentativo di uccidere Adolf Hitler).Tuttavia questo film, per quanto appassionante, pone un certo numero di interrogativi - troppo complessi, troppo delicati, per poterli risolvere nella sola logica dell'industria hollywoodiana.

Il primo non è sfuggito ai commentatori tedeschi: riguarda la scelta di Tom Cruise per interpretare il ruolo di un uomo che ci è presentato come l'incarnazione stessa dell'onore anti-hitleriano. Non che l'attore abbia mai manifestato una qualche simpatia per l'hitlerismo. Ma è uno dei dirigenti di una setta, la Chiesa di Scientology, di cui il meno che si possa dire è che i suoi valori non hanno molto a che vedere con quelli che permisero di abbattere suddetto hitlerismo. Elitismo… Darwinismo sociale e politico… Educazione come addestramento… Lavaggio del cervello eretto a principio di convinzione… Sequestri… Applicazione delle tecniche della cibernetica all’organizzazione del legame sociale… Magia nera… Visione apocalittica del mondo… Questa è Scientology. Questo è, quindi, il credo di Cruise. Ed avergli permesso di incarnare Stauffenberg è, da tale punto di vista, un errore, per non dire uno sbaglio - o, come ha detto Berthold von Stauffenberg, il figlio, quando ne fu informato, un grave, un gravissimo oltraggio alla memoria del defunto.

Il secondo interrogativo è invece inerente a questo tipo di operazioni, e porta a chiedersi se l'eroizzazione di un personaggio non avvenga, ahimè, a discapito della precisione, della sfumatura e della storia stessa. Il film mostra bene l'integrità di Stauffenberg. Mostra il suo coraggio, l'elevatezza delle sue vedute, la sua fermezza d'animo. Ma che ci dice dei suoi pensieri? Cosa ci insegna della sua entusiastica adesione, nel 1933, al nazismo? Perché non specifica cosa, di questo nazismo degli inizi, egli dovette ripudiare per portare a termine il complotto, e ciò che, invece, conservò? Jünger, per esempio? Spengler? Conservò l'ostilità senza riguardi nei confronti di Weimar e della democrazia, ostilità che egli condivideva con quegli altri membri dei corpi franchi della prima ora che restarono, loro, fedeli al nazionalsocialismo e al suo frenetico antisemitismo? La speranza era sbarazzarsi di Hitler o dell'hitlerismo? Di un cattivo tiranno o del principio di ogni tirannia? Il progetto era di distruggere il nazismo o di salvarlo? E perché il film non si dilunga sul vero e tragico paradosso della vicenda? Perché non illustra quello che si dovrebbe chiamare il "teorema di Stauffenberg", per il quale bisognava avvicinarsi molto, moltissimo a Hitler (una prossimità che, tenuto conto della società di iper-sorveglianza hitleriana, non poteva essere né finta né fittizia) per avere la possibilità, come Stauffenberg, di accedere alla Tana dei lupi per deporvi la valigetta con l'esplosivo? Credo di non offendere la memoria di nessuno dicendo che resta aperta, dopo “Operazione Valchiria”, la questione della comunità di valori (eh sì!) fra il nazismo e certi suoi avversari; o anche che potrebbe esserci, dopo tutto, e in seconda analisi, una forma di Witz, di logica nascosta, di astuzia della Storia, nell'incontro fra l'attore di Scientology e i golpisti del luglio 1944.

E poi resta, infine, il terzo rischio che si corre con questo film e che consiste nel vedere l'albero Stauffenberg, nascondere la foresta della resistenza tedesca all'hitlerismo, così come la descrive Joachim Fest in un libro che esce in questi giorni e che bisogna leggere come contrappunto a “Operazione Valchiria”. Poiché nella casta degli alti ufficiali hitleriani, c'è già una differenza fra cospiratori tardivi (Stauffenberg) e precoci (solo nel 1938, e dall'interno stesso dell'esercito, Hans Oster e Hans von Dohnanyi). Ci sono, nella galassia generata dall'esplosione del primo nucleo nazional-socialista, i nazional-bolscevichi che rompono, come Niekisch, fin dal 1934; i nazional-conservatori, nostalgici, come Canaris, di una grande alleanza a Est infranta dalla rottura dell'accordo Stalin-Hitler; i rivoluzionari conservatori, il cui prototipo fu Hermann Rauschning, autore de “La rivoluzione del nichilismo” . Ma ci sono soprattutto persone semplici, come il falegname Georg Elser, autore di un tentativo di assassinio di Hitler nel 1939. Ci furono associazioni studentesche, come quella “La rosa bianca” che nascose ebrei durante tutta la guerra. Ci furono socialisti. Cattolici. Ebrei. Ci furono operai berlinesi, eroi di un romanzo di Fallada che Primo Levi diceva essere il più bel libro sulla resistenza tedesca antinazista. E ci furono, infine, quei weimariani impenitenti, come Willy Brandt, che preferirono esporsi al rimprovero di essere “disertori” all’irrimediabile disonore di dover portare l'uniforme della Wehrmacht e, quindi, dei cospiratori del 20 luglio.

Cancellare queste distinzioni, tutte queste distinzioni, questa è trappola. Sottolinearle, incriminarle, rifare instancabilmente la distinzione fra la cultura di guerra dei nazisti e di alcuni loro oppositori da un lato e, dall’altro, l'antinazismo radicale degli eredi di Willy Brandt, questo è il compito che impone la confusione stessa del film. Un compito per la Germania. Un dovere per l'Europa.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 29.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Barack Obama, un'opportunità per il mondo

La principale notizia della settimana è che Barack Obama non è più nero. Eh sì. Gli Stati Uniti funzionano così. Hanno votato per lui perché era nero e perché la sua elezione sarebbe stata il coronamento della lunga marcia inaugurata, due anni dopo la sua nascita, da un “sogno” di Martin Luther King. Alcuni hanno votato contro di lui perché era nero e per il permanere, negli Stati Uniti, malgrado la rivoluzione senza eguali compiuta in una cinquantina d’anni, di sacche di segregazionismo e di razzismo. Oggi, la battaglia è vinta. L’era della segregazione di Stato è stata ricacciata nel passato. E Barack Obama è, in linea allo slogan lanciato quattro anni fa, a Boston, durante il suo primissimo “grande” discorso, il 44° presidente, non di questa o di quell’altra America, ma degli Stati uniti d’America. Ristrutturazione del campo visivo. Fine della politica concepita come regione della pigmentologia. Né nero, né bianco, neppure meticco-Obama.

La seconda cosa che noi europei dovremmo metterci, al più presto, in testa, è che Barack Obama non è “di sinistra”. Esiste, contrariamente alla leggenda, una sinistra americana. Esiste una frangia del Partito democratico che, d'altronde, si è adeguata non senza reticenze o resistenze a colui che ancora era solo il carismatico giovane senatore dell’Illinois. Barack Obama è talmente poco di sinistra che ha nominato, nei posti chiave, personalità repubblicane (Robert Gates, confermato alla Difesa; Ray LaHood, scaraventato ai Trasporti) o tecnocrati ultra-pragmatici (Timothy Geithner al Tesoro; Lawrence Summers alla testa del Consiglio economico; Peter Orszag, direttore dell’Ufficio della gestione e del budget) che hanno davvero ben poco a che vedere con ciò che, in Europa, chiamiamo sinistra. Barack Obama non è Che Guevara. Barack Obama non è membro d’onore del Partito socialista francese. Barack Obama –ed è già cosa grandiosa!- è l’incontro, nello stesso corpo, sul tavolo da dissezione dell’iconologia americana, della doppia anima di King e di JFK.

Terza sciocchezza che speriamo ci sarà evitata nell’imminente valanga di commenti: Barack Obama non è, non sarà, il presidente del “declino dell’impero americano”. Chiuderà Guantanamo, naturalmente. Uscirà dall’Iraq prima della fine del 2011 – lo ha promesso. Romperà con l’ideologia dell’esportazione “messianica” e “forzata” degli ideali democratici – è probabile. Ed anche, senza dubbio, userà, nelle relazioni con gli alleati, quella retorica improntata al multilateralismo che tanto mancava a George Bush. Ma che non si conti su di lui, però, né per vedere l’America battersi il petto, né per farla cedere dinanzi a Chavez o ad Ahmadinejad, e nemmeno per accelerare l’avvento del mondo multipolare sognato dai russi e dai cinesi. Gli Stati Uniti resteranno gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non distribuiranno nuove verghe per farsi percuotere dall’antiamericanismo planetario. Gli Stati Uniti, che piaccia o no, faranno quanto sarà loro possibile per continuare ad essere, sotto Obama, la prima potenza economica, politica, militare, del mondo.

E il cambiamento, allora? In politica interna, si svilupperà su tre terreni principali. La riforma di un sistema di assicurazione sanitaria che esclude 46 milioni di americani poveri e a cui si sono adattati, fino a lui, tutti i presidenti degli Stati Uniti (compreso, ahimè, Bill Clinton). Un New Deal neokeynesiano finalizzato alla ricostruzione di una rete di infrastrutture (strade, ponti e dighe a New Orleans, quartieri distrutti a Detroit, Cleveland, Buffalo o nella stessa Los Angeles) il cui stato è talvolta degno del più abbandonato dei paesi del terzo mondo. E poi la riforma di un sistema finanziario sul quale gli osservatori più accorti (Nouriel Roubini, Harry Markopolos o ancora il premonitore autore del “Cigno nero”, Nassim Nicholas Taleb) richiamavano, urlando, l’attenzione, poiché esso avrebbe condotto il mondo alla catastrofe: ma l’ideologia deregolatrice non ha permesso che questi fossero ascoltati. Se Obama si impegnerà in questi tre compiti, se aprirà, senza tardare, questo triplo cantiere, allora sarà, per l’America di oggi, più che un cambiamento di rotta, una rivoluzione.

E quanto alla politica estera, infine, ciò che si sa delle convinzioni, delle dichiarazioni, perfino dei retropensieri del nuovo presidente porta a credere che essa conoscerà, oltre a quello riguardante l’Iraq, due punti principali di flessione. Il dossier mediorientale: Obama non aspetterà il termine del secondo mandato, come fecero Clinton e Bush, per rendersi conto dell’urgenza e per lanciarsi in un patetico sprint finale volto allo strappo di un impossibile accordo tra palestinesi e israeliani. I rapporti con il Pakistan: manterrà l’alleanza; forse persino la rinforzerà; ma romperà con l’incondizionalità che ha caratterizzato le tre ultime amministrazioni e che ha fatto del “paese dei Puri” il paese più pericoloso del pianeta; altrimenti detto, porrà precise condizioni attinenti alla sincerità della lotta contro quegli elementi di Al-Qaeda infiltrati nei servizi segreti del paese ed al controllo di un arsenale nucleare che nessuno, oggi, può garantire che non possa cadere, un giorno o l’altro, nelle mani degli jihadisti. Anche per questi due motivi, l’elezione di Barak Obama rappresenta un’opportunità per il mondo.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 22.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Appunti di guerra

Yuval Diskin è il capo dello Shin Bet, il mitico e temibile Servizio di sicurezza interna dello Stato di Israele. Per quanto ne sappia, non ha mai parlato. Comunque, non dopo l'inizio di questa guerra. Ha una quarantina d'anni. È alto. Massiccio. Un aspetto da militare, smentito dal suo abbigliamento: jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Mi riceve, all'alba, nel suo ufficio a nord di Tel Aviv che, con le sue feritoie orizzontali, assomiglia a una casamatta. «Tutto questo per Sderot? — comincio io —. Questo diluvio di fuoco, e le vittime, per fermare i Qassam su Sderot, sulle altre città e sui kibbutz del Sud del Paese?». «Sì, certo — mi risponde irritato —. Nessuno Stato al mondo tollererebbe di veder cadere così, tutti i giorni, le granate sulla testa dei propri cittadini». Poi, visto che gli rispondo di saperlo e gli dico che, per una questione di principio e di solidarietà, vado a Sderot ogni volta che arrivo in Israele, e aggiungo che forse, negoziando, si poteva evitare di giungere a questo punto, egli s'interrompe, alza le spalle e, con il tono di chi decide, visto che gli altri ci tengono, d'entrare nei dettagli, riprende.

«Bisogna che lei capisca, in questo caso, chi sono quelli di Hamas. Noi li conosciamo meglio di chiunque. Talvolta, ho l'impressione di esser capace di seguire in tempo reale anche le loro minime decisioni, talvolta di precederle. Ebbene, siamo consapevoli di tre cose». Gli portano una tazza di caffè che beve in un sorso. «Intanto, la loro strategia, che è quella dei Fratelli musulmani di cui sono l'emanazione e che mira a prendere il potere, sulla lunga durata, in Libano, in Giordania, in Israele...». Faccio un cenno per dire che so. «Bene. In seguito, l'alleanza con l'Iran, che può sembrare contro natura tanto è pesante il contenzioso fra sunniti e sciiti, ma di cui conosciamo tutta la storia». La data: 1993. Lo scenario: un consiglio di ulema siriani, sauditi, cisgiordani, cittadini di Gaza. L'ispiratore: l'egiziano El Kardaoui, importatore in terra sunnita della strategia sciita degli attentati suicidi. «Infine, l'essenziale: la rete di trecento tunnel, scavati sotto la frontiera egiziana col tacito accordo di Mubarak il quale, ogni volta che ne parlavamo, giurava che se ne sarebbe occupato, ma purtroppo non faceva nulla, tanto era il timore di contrariare i suoi Fratelli musulmani». Come i pacifisti israeliani, si può pensare che la distruzione di quei tunnel sarebbe bastata. Si può ritenere — è il mio caso — che, avendo questa guerra già avuto come effetto di far scoprire al mondo intero l'esistenza dei tunnel e di aver messo quindi gli egiziani con le spalle al muro, Israele potrebbe fermarsi e decidere fin da oggi, 11 gennaio, un cessate il fuoco. Quel che non si può ignorare è il contesto: Gaza che, evacuata, non diviene l'embrione dello Stato palestinese tanto desiderato, ma la base avanzata di una guerra totale contro lo Stato ebraico.



Mi trovo a Baka-el-Garbil, vicino a Um-el-Fahem: è una delle città di arabi israeliani che nel 1948 hanno scelto di restare a casa loro e costituiscono, sessant'anni dopo, il 20 per cento della popolazione del Paese. Questo pomeriggio, la città è scesa in piazza: 15.000 persone protestano contro il «genocidio» di Gaza. Ci sono militanti, che indossano la kefiah a scacchi del Fatah. Altri, che sventolano la bandiera verde di Hamas. Vedo anche, all'inizio del corteo, giovani incappucciati che urlano — ricordo che siamo nel centro di Israele — facendo appello all'Intifada, alla Jihad, al martirio. «Questo Israele che voi rigettate non è il vostro Israele? — chiedo a uno di loro —. Non è lo Stato di cui siete cittadini allo stesso modo e con gli stessi diritti degli altri suoi cittadini?». Il ragazzo mi squadra come fossi un pazzo. Mi risponde che Israele è uno Stato razzista che lo tratta come una sottospecie, gli vieta di frequentare università e night- club e, di conseguenza, non si deve aspettare da parte sua che gli sia fedele. Raggiunge quindi i suoi compagni, abbandonandomi alle mie perplessità: bella solidità di una democrazia che, in tempo di guerra, si accontenta che un cittadino su cinque sia sull'orlo della secessione politica; e vertiginosa fragilità di un legame sociale di cui vediamo bene come potrebbe, dall'interno, sciogliersi. Altro contesto? No. Ma situazione di Israele.

«Nulla giustifica la morte di un ragazzino — mi ha detto Asaf, 33 anni, proprietario di un ristorante a New York e, nei periodi da riservista, pilota di elicotteri Cobra —. Nulla. Per questo, quando il rischio esiste, quando in cabina di pilotaggio mi accorgo che, prendendo di mira un obbiettivo militare, potrei colpire anche dei civili, lascio perdere e torno alla base». Ho sfidato Asaf a darmi la prova di quanto dice. È così che mi trovo nel Negev, sulla base di Palmachim, il sancta sanctorum della tecnologia israeliana dove in particolare sono stati sperimentati i famosi missili anti- missili Arrow. A bordo, videocassette di Asaf. Registrazione del suo dialogo, il 3 gennaio, con un interlocutore a terra durante il quale l'informa che ha deciso di interrompere la missione perché il «terrorista» in linea di mira è stato raggiunto da un bambino. E filmati incredibili — ne ho visti quattro — di missili già lanciati che il pilota, vedendo apparire un civile sul suo schermo o una jeep presa a bersaglio entrare nel garage di un edificio di cui non sono stati avvertiti, come è d'uso, gli occupanti, fa dirottare in piena corsa e esplodere in un campo. Che non tutti abbiano gli stessi scrupoli, lo immagino (infatti, come spiegare altrimenti i troppo numerosi e inaccettabili bagni di sangue?). Ma che in Tsahal esistano persone come Asaf, che le procedure comandino di agire piuttosto come Asaf, insomma che Asaf non sia l'eccezione ma la regola, è importante dirlo (e pazienza per il cliché che vuole ridurre Tsahal a un'accozzaglia di bruti che si accaniscono su donne e vegliardi).

Ehud Barak è a casa sua. L'avevo visto ieri a Palmachim, circondato dai suoi generali. Lo ritrovo oggi, in un salone lungo lungo, che sembra costruito attorno ai due pianoforti che egli suona da virtuoso. Anche lui evoca il dilemma morale a cui il suo esercito è confrontato. Descrive il calcolo di Hamas che, proprio perché sa come funzionano gli israeliani, installa i suoi depositi di armi nel cortile di una scuola, nella sala di un ospedale, in una moschea. «Delle due l'una — mi spiega con un tono in cui si scorge, ci giurerei, una curiosità da stratega di fronte a una tattica inedita —. O ne siamo informati e non spariamo, e loro hanno vinto. Oppure l'ignoriamo e spariamo, e loro filmano le vittime, inviano le immagini alle televisioni e hanno ugualmente vinto». Mi accingo a chiedergli come l'uomo di Camp David, la Colomba che offrì ad Arafat, nove anni fa, le chiavi di uno Stato palestinese che questi non volle, viva personalmente questo dilemma. E sto per fargli osservare che Israele non sarebbe a questo punto senza la serie di occasioni mancate, di passi falsi, di cecità dei governi che seguirono. Ma suona il telefono. È Condoleezza Rice che chiama per spingerlo, appunto, a concludere al più presto un cessate il fuoco. Perché al più presto, secondo lei? Il ministro-pianista sorride. Perché, per una questione di pochi giorni, lo stesso cessate il fuoco sarà opera sua, di Condy, o dell'altro Barack (Obama) che le ruberà la sua eredità.

Amos Oz è prostrato. Il grande scrittore, coscienza del Paese e, in particolare, del campo della Pace, autore di Aidez-nous à divorcer. Israël Palestine: deux Etats maintenant (Editions Gallimard 2004) che ritrovo a Gerusalemme dal nostro amico comune Shimon Peres, ricorda come Tsahal dovette trattare, sette anni fa, la vicenda del «genocidio di Jenin» (66 morti, di cui 23 israeliani). Poi, quando ci fu la guerra in Libano, il dramma di Cana (remake, secondo alcuni, dell'assalto al ghetto di Varsavia). Parliamo anche delle armi terrificanti che utilizzerebbe Tsahal (il cui effetto sarebbe di «assorbire» l'ossigeno attorno al punto di impatto). La voce che circola quel giorno, la storia di una casa, nella zona di Zeitun, dove sarebbero state attirate cento persone prima che si sparasse nel mucchio, gli sembra tuttavia così insensata che non sa come interpretarla, né come abbia preso forma. Pare che tutto sia cominciato con una vaga testimonianza raccolta da una Ong (Organizzazione non governativa). Poi ci si son messi i giornalisti: «Che si lasci entrare la stampa! Come possiamo smentire i "si dice" se non siamo presenti? ». Dopodiché, è il villaggio mediatico planetario ad agitarsi: «Tsahal avrebbe... Tsahal potrebbe... Il dottor X conferma che Tsahal sarebbe all'origine di...». Questi condizionali sottili e per modo di dire prudenti sono un vero veleno. Fra due giorni non si parlerà più delle dicerie di Zeitun. Ma quali saranno le conclusioni della gente? Che era una voce assurda? O che un orrore scaccia l'altro e che Tsahal, nel frattempo, avrebbe superato un altro gradino sulla scala dell'abominio e del crimine? Amos Oz, il Camus di Israele. La disinformazione, o il mito ebraico di Sisifo.

Un'altra voce, di cui io stesso ho potuto verificare l'infondatezza, è quella del «blocco umanitario». Sorvolo sul caso dell'Ospedale Shiba di Tel Aviv, il cui vice- direttore, Raphi Walden mi spiega che il 70 per cento dei pazienti sono palestinesi. Sorvolo sulla vicenda delle ambulanze colpite per sbaglio da Tsahal, ma deliberatamente bloccate dal ministero della Salute di Hamas, che prende in ostaggio i suoi civili e soprattutto non vuole che siano curati all'ospedale Soroka di Beer Sheva. L'informazione decisiva la ricevo il 14 gennaio, al terminal di Keren Shalom, estremo sud della striscia di Gaza, dove un centinaio di camion passano, come ogni mattina, sotto gli occhi vigili dei rappresentanti delle Ong. Farina, medicinali, alimenti per neonati, coperte. Nulla, nessuno e soprattutto non gli abituali soccorsi umanitari potranno attenuare, qui come altrove, le sofferenze delle famiglie che hanno perso uno dei loro cari. Ma i fatti sono i fatti. E il fatto è che più di 20.000 tonnellate sono entrate, dall'inizio dell'operazione, sotto le insegne dell'Unicef o del World Food Program. Come mi dice il colonnello Jehuda Weintraub il quale, in un'altra vita, scrisse una tesi su Chrétien de Troyes e che, a sessant'anni, si impegna nel «coordinamento » degli aiuti: «La guerra è sempre orribile, criminale, piena di furore; perché aggiungere, alla sua atrocità, la menzogna?».

A Parigi, si alzano i toni. Jean-Marie Le Pen dichiara che Gaza è un campo di concentramento. Altri, vicini alla sinistra radicale, gridano che da molto tempo non c'era stato un massacro di musulmani peggiore di quello degli abitanti di Gaza. E i 300.000 del Darfur? E i 200.000 bosniaci? E le decine di migliaia di ceceni che Putin andò a «snidare fin dentro i cessi» e che non vi strapparono neanche una lacrima? Diversamente da voi, desideroso di provare almeno ad andare a vedere, il 13 gennaio, scesa la notte, sono entrato nei sobborghi di Gaza City, nel quartiere Abasan Al-Jadida, un chilometro a nord di Khan Yunis, «embedded» nell'unità di élite Golani. So, per averlo evitato tutta la vita, che il punto di vista dell'«embedded» non è mai il buon punto di vista. E non pretenderò di aver capito in qualche ora lo spirito di questa guerra. Ma, detto questo, ecco la mia testimonianza. I combattenti di Varsavia non avevano, purtroppo, le mine anticarro come quella appena esplosa sotto le ruote di un veicolo passato venti minuti prima del nostro. I loro aggressori non conoscevano quella stanchezza, quel profondo disgusto per la guerra che esprimono il comandante Gidi Kfirel e i quattro riservisti che ci accompagnano. Infine, posso sbagliarmi, ma le poche, le pochissime cose che vedo (palazzoni immersi nell'oscurità ma in piedi, frutteti all'abbandono, la via Khalil al-Wazeer con i negozi chiusi) indicano una città frastornata, che si trova in trappola, terrorizzata, ma certamente non una città rasa al suolo, come poterono esserlo Grozny o certi quartieri di Sarajevo. Questo è ancora un fatto.

Ehud Olmert a Gerusalemme. Racconta, non senza comicità, il balletto dei mediatori troppo frettolosi. Torna a parlare del doppio gioco di un Mubarak che la comunità internazionale dovrà pur costringere a chiudere le sue frontiere ai beduini contrabbandieri. Ma ecco che Olmert cambia tono. E con una voce più bassa, quasi confidenziale, comincia a raccontarmi l'ultima visita di Abu Mazen, tre settimane fa, proprio in questo ufficio, dove ora mi trovo io. «Gli ho fatto un'offerta. 94,5 per cento della Cisgiordania. Più 4,5 per cento sotto forma di scambio di territori. Più un tunnel, sotto il suo controllo, che colleghi la Cisgiordania a Gaza e che equivale all'1 per cento mancante. Quanto a Gerusalemme, una soluzione logica e semplice: i quartieri arabi per lui; i quartieri ebraici per noi; e i Luoghi Santi sotto un'amministrazione congiunta saudita, giordana, israeliana, palestinese, americana. Abu Mazen m'ha chiesto di lasciargli il foglio su cui avevo disegnato lo schema. Non gliel'ho dato, perché lo conosco e so che, la prossima volta, l'avrebbe utilizzato come punto di partenza di un contro-negoziato. Comunque, l'offerta c'è... Aspetto...». È troppo bello per essere vero? Possibile che siamo passati, così di recente, tanto vicini alla pace?

Abu Mazen non è a Ramallah, capitale dei palestinesi moderati. E nemmeno Yasser Abed Rabbo, con il quale una volta sostenemmo il piano di pace di Ginevra e che, anche lui, si trova al Cairo. Al loro posto, in un edificio del centro, incontro Mustafa Barghuti, presidente della Palestinian Relief Society, e Mamdouh Aker, medico, autorità morale e veterano del dialogo israelo-palestinese. Né l'uno né l'altro credono alla serietà di un'offerta di pace proposta da un primo ministro che sta per lasciare il proprio posto. Entrambi parlano severamente di Abu Mazen, colpevole di instaurare uno «Stato poliziesco». Soprattutto, mi rendo conto di come stiano attenti a non dire nulla che sembri attaccare Hamas che, come sanno, ha la solidarietà della piazza palestinese. Eppure, riflettendo bene, ascoltando il primo parlarmi con nostalgia del «piano saudita » di coesistenza dei due Stati, osservando il secondo animarsi solo nell'evocare la sua «Lettera a Yitzhak Rabin», pubblicata nel 1988 dal Jerusalem Post perché i giornali arabi l'avevano rifiutata, guardando infine, al ritorno, l'atteggiamento dei giovani e il volto scoperto delle ragazze che fanno la fila con me per entrare a Gerusalemme, al check-point di Kalandiya, mi sorprendo a crederci di nuovo. Ma certo, eccoli qua, gli interlocutori di Israele. Sono qui i partner della pace futura. Una pace malgrado tutto. Una pace al di là delle devastazioni e delle lacrime. Una pace ragionata, senza effusioni né entusiasmi, ma forse, per questo, più che mai a portata di mano. Due popoli, due Stati. Una pace, e nulla di più.

Bernard-Henri Lévy, Le Journal du Dimanche, 18.01.2009

(traduzione per il Corriere della Sera, Daniela Maggioni)

L'analisi Da Ramallah - I veri palestinesi sono moderati


Tralasciamo il «Morte agli ebrei» su alcune bandiere durante le manifestazioni di Bruxelles, Parigi o Madrid. Tralasciamo il sindacato italiano della Flaica-Cub che in «segno di protesta» contro l'operazione israeliana a Gaza fa un appello — avvenimento senza precedenti in Europa, da tre quarti di secolo — a «non comprare più nulla nei negozi appartenenti a membri della comunità ebraica». Non avrò la crudeltà di insistere sull'asse, a dir poco nauseabondo, che si forma quando la signora Buffet ( dirigente del partito comunista francese, n.d.t.), il signor Besançenot ( dirigente di un nuovo partito anticapitalista N.P.A, n.d.t.) e altri vengono raggiunti in testa di corteo dal faurissoniano ( Robert Faurisson, celebre negazionista, n.d.t.) Dieudonné ( attore comico francese, n.d.t.) o quando il suo degno compare, Jean-Marie Le Pen, si unisce al coro per paragonare la Striscia di Gaza a «un campo di concentramento».

Per un caso, proprio da Ramallah, capitale dell'Autorità palestinese, e poi da Sderot, la città israeliana alla frontiera di Gaza continuo bersaglio del fuoco dei razzi Qassam, scopro le immagini di simili manifestazioni di sostegno alla «causa palestinese». Proprio da questi due luoghi, vedo le folle di europei urlanti, vociferanti e scatenati: le immagini scorrono mentre sono in compagnia di persone la cui sola preoccupazione resta, malgrado le bombe, le sofferenze e i morti, quella di non perdere mai il filo della convivenza e del dialogo. Voglio dunque aggiungere alcune riflessioni a quelle già fatte nei giorni scorsi e che hanno dato vita, da parte degli internauti di Point, a una enorme serie di reazioni. Primo.

Che sollievo vedere i palestinesi veri, reali, anziché quelli immaginari che, in Francia, pensano di fare la resistenza prendendo di mira le sinagoghe! I primi, lo ripeto, si impongono di essere moderati e con ammirevole sangue freddo si sforzano di mantenere le chance della convivenza di domani; i secondi sono rabbiosi, più radicali dei radicali, pronti alla violenza, nelle strade di tutta Europa, fino all'ultima goccia di sangue dell'ultimo palestinese. I primi considerano e riflettono, sanno che niente in questa storia è tutto nero o tutto bianco, e conoscono la schiacciante responsabilità di Hamas nel disastro in cui sta precipitando il loro popolo. I secondi, come se la confusione non fosse già abbastanza, si bevono di gusto le enormi panzane della propaganda anti-israeliana e fanno dei teorici dell'attentato suicida e dello scudo umano, dei nuovi Che Guevara, di cui sfoggiano emblemi e simboli: anziché infondere calma, mettono in scena la politica del peggio, infiammando gli animi.

Secondo. Quale regressione, quale azzeramento del pensiero e dell'azione, da parte di costoro, che da lontano, ignorando i contorni del dramma, fomentano odio, quando invece si dovrebbe fare di tutto per andare nel senso della pace e della riconciliazione! La pace vuole due Stati che accettino di vivere l'uno accanto all'altro, e che comincino a dividersi la terra; la pace vuole, da entrambe le parti, la rinuncia all'estremismo, a posizioni radicali, ai luoghi comuni, e perfino ai sogni. La pace implica, per esempio, che Israele si ritiri dalla Cisgiordania così come si è ritirata dal Libano e da Gaza, ma implica l'esistenza di una parte palestinese che non tragga vantaggio dalla ritirata per trasformare, ogni volta, il territorio evacuato in una base per il lancio di missili sui civili. La pace deve passare per il cessate il fuoco, per la fine della guerra che sta facendo un insostenibile numero di vittime, soprattutto tra i bambini. Ma questa pace passa anche attraverso l'eliminazione politica di Hamas, cui poco o nulla importa delle vittime, e della pace — e che, non essendo stata capace di imporre la sharia al suo popolo, lo trascina sulla via del «martirio» e dell'inferno.

Terzo. Sono a Ramallah, dunque. A Sderot e a Ramallah. E vedendo da Sderot e da Ramallah questa mobilitazione contro un «olocausto», che nel momento in cui scrivo è di 888 morti, mi faccio una semplice domanda. Dov'erano i manifestanti quando si trattava di salvare, non gli 888, ma i 300.000 morti dei massacri programmati del Darfur? Perché non si sono visti nelle strade quando Putin radeva al suolo Grozny e trasformava decine di migliaia di ceceni in tiro al bersaglio? Perché hanno taciuto quando, tempo prima, e per anni, e stavolta nel cuore stesso dell'Europa, sono stati sterminati 200.000 bosniaci, il cui solo crimine era quello di essere nati musulmani? Per alcuni, i musulmani sono buoni solo quando sono in guerra con Israele. Meglio ancora: ecco i nuovi seguaci dell'antico «due pesi, due misure » che si preoccupano della sofferenza di un musulmano solo quando possono attribuirne la colpa agli ebrei. L'autore di questo articolo ha manifestato, in prima fila, per il Darfur, per la Cecenia e per la Bosnia. Si batte, da 40 anni, per un valido stato palestinese accanto a quello di Israele. Mi si permetterà di considerare questo doppio atteggiamento ripugnante e frivolo.

Bernard-Henri Lévy, Corriere della Sera, 14.01.2009

Liberare i palestinesi da Hamas

Non sono un esperto militare, mi asterrò quindi dal giudicare se i bombardamenti israeliani su Gaza potevano essere più precisi, meno intensi. Non sono mai riuscito, da decenni, a distinguere fra morti buoni e cattivi o, come diceva Camus, fra «vittime sospette» e «carnefici privilegiati», ragione per cui sono sconvolto pure io, ovviamente, dalle immagini di bambini palestinesi uccisi.

Ciò detto, e tenuto conto del vento di follia che, ancora una volta, come sempre quando si tratta di Israele, pare impadronirsi di certi media, vorrei ricordare alcuni fatti.

1. Nessun governo al mondo, nessun altro paese se non quest’Israele vilipeso, trascinato nel fango, demonizzato, tollererebbe di vedere migliaia di granate cadere, per anni, sulle proprie città: in questa vicenda, la cosa più sorprendente, il vero motivo di stupore, non è la «brutalità» di Israele - bensì, letteralmente, che Israele si sia tanto a lungo trattenuto.

2. Il fatto che i Qassam di Hamas e, ora, i suoi missili Grad, abbiano provocato così pochi morti non significa che essi siano artigianali, inoffensivi, ecc., ma che gli israeliani si proteggono, vivono rintanati nelle cantine dei loro edifici, nei rifugi: un’esistenza da incubo, in sospeso, al suono delle sirene e delle esplosioni - sono stato a Sderot, io so.

3. Il fatto che le granate israeliane facciano, al contrario, tante vittime, non significa, come sbraitavano i manifestanti lo scorso week-end, che Israele si abbandoni ad un «massacro» deliberato, ma che i dirigenti di Gaza hanno scelto l’atteggiamento inverso ed espongono le loro popolazioni: vecchia tattica dello «scudo umano » che fa sì che Hamas, come Hezbollah due anni fa, installi i propri centri di comando, i depositi d’armi, i bunker, nei sotterranei degli edifici, degli ospedali, delle scuole, delle moschee - tattica efficace ma ripugnante.

4. Tra l’atteggiamento degli uni e quello degli altri esiste, comunque, una differenza capitale che non possono ignorare coloro che vogliono farsi un’idea giusta, e della tragedia, e dei mezzi per porvi fine: i palestinesi mirano sulle città, ovvero sui civili (e questo, nel diritto internazionale, si chiama «crimine di guerra»); gli israeliani, invece, su obiettivi militari, provocando, senza volerlo, terribili danni civili (cosa che, nel linguaggio della guerra, ha un nome, «danni collaterali», che, seppur odioso, rimanda ad una vera dissimmetria strategica e morale).

5. Poiché occorre mettere i puntini sulle i, ricorderemo ancora un fatto al quale stranamente la stampa francese ha dato poco risalto e di cui non conosco ciononostante alcun precedente, in nessun’altra guerra, da parte di nessun altro esercito: le unità di Tsahal, durante l’offensiva aerea, hanno sistematicamente telefonato (la stampa anglosassone parla di 100.000 chiamate) agli abitanti di Gaza residenti nei pressi dei bersagli militari per invitarli ad evacuare la zona; che questo non cambi nulla della disperazione delle famiglie, delle vite stroncate, della carneficina, è evidente; ma che le cose si svolgano così non è, tuttavia, un dettaglio del tutto privo di senso.

6. Ed infine, quanto al famoso blocco integrale imposto ad un popolo affamato, privo di tutto e precipitato in una crisi umanitaria senza precedenti (sic), anche qui le cose non stanno proprio così: i convogli umanitari non hanno mai smesso di transitare, fino all’inizio dell’offensiva terrestre, per il punto di passaggio Kerem Shalom; solamente nella giornata del 2 gennaio 90 camion di viveri e di medicinali sono potuti entrare, secondo il New York Times, nel territorio; e voglio anche ricordare (cosa che dovrebbe essere evidente, ma, a leggere ed ascoltare taluni, pare sia meglio dirlo…) come gli ospedali israeliani continuino, nel momento in cui scrivo, ad accogliere e curare, tutti i giorni, i feriti palestinesi.

Speriamo che i combattimenti cessino al più presto. E che al più presto i commentatori tornino in sé – scopriranno così che negli anni Israele ha commesso tanti errori (occasioni mancate, lungo diniego della rivendicazione nazionale palestinese, unilateralismo), ma che i peggiori nemici dei palestinesi sono quei dirigenti estremisti che non hanno mai voluto la pace, che non hanno mai voluto uno Stato e che hanno sempre concepito il proprio popolo solo come strumento e ostaggio (immagine sinistra di Khaled Mechaal che, sabato 27 dicembre, mentre si precisava l’imminenza della risposta israeliana tanto desiderata, non sapeva far altro che esortare la propria «nazione» a «offrire il sangue di altri martiri» - e questo dal suo confortevole esilio a Damasco, dal suo nascondiglio…).

Oggi, delle due l’una. O i Fratelli musulmani di Gaza ristabiliscono la tregua che hanno rotto e dichiarano decaduta una Carta fondata sul puro rifiuto dell’«Identità sionista»: ed allora si uniranno al vasto partito del compromesso che, Dio sia lodato, non smette di progredire nella regione - e sarà la pace. Oppure continuano, ostinati, a vedere nella sofferenza dei loro compagni solo un buon carburante per le proprie passioni riacutizzate, per il proprio folle e nichilista odio - ed allora non solo Israele, ma gli stessi palestinesi dovranno essere liberati dall’oscura influenza di Hamas.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 8.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)