Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Nessuna licenza di razzismo per gli umoristi (Di cosa Siné è il nome?)

Davvero bizzarra, però, questa faccenda.

Ecco un umorista –Siné- che consegna al suo giornale una cronaca in cui dice, in sostanza, che la conversione all’ebraismo è, nella Francia di Sarkozy, uno strumento di scalata sociale e che, lui, preferisce “una musulmana in chador” ad una “ebrea rasata” (sic).

Ecco un direttore -Philippe Val- rammentare al cronista il patto fondatore (ovvero, per Charlie Hebdo, il loro giornale, il rifiuto categorico di ogni forma di antisemitismo o di razzismo) e chiedergli, di conseguenza, di scusarsi o di andarsene.

Ed ecco la blogosfera, e poi la stampa, trasformare, in base ad uno sbalorditivo ribaltamento dei ruoli, la questione Siné nella questione Val e, invece di analizzare e stigmatizzare la deriva del primo, non interessarsi più, all’improvviso, che alle “vere” ragioni, per forza di cose nascoste, necessariamente oscure e ambigue, che avrebbero spinto il secondo, notorio volteriano, apostolo dichiarato della libertà di critica e di pensiero, difensore in particolare dei caricaturisti di Maometto, a reagire, questa volta, da censore occulto (la mano della “lobby”? quella di Sarkozy stesso? un regolamento di conti inconfessato e di cui l’umorista farebbe le spese? si è supposto di tutto, fino alla nausea…)

A fronte di un livello tanto alto di confusione corre obbligo operare alcune puntualizzazioni e, sine ira et studio, senza collera né entusiasmo, richiamare i semplici princìpi che, in questa disputa, si ha tendenza a perdere di vista.

1. Una cosa è la critica volteriana delle religioni, di ogni religione –sana, benvenuta, utile a tutti e, in particolare, forse, ai credenti stessi. Il razzismo, l’antisemitismo, sono un’altra cosa– odiosa, ingiustificabile, letale per tutti, e che in nessun caso dovrebbe essere confusa con la prima.

La distinzione non era così netta in Voltaire - razzista ed antisemita, come tutti sanno. Lo è dopo Voltaire, presso i suoi migliori eredi, e, in particolare, nel giornale di Philippe Val. I veri Lumi? I Lumi del nostro tempo? Criticare i dogmi, non le persone.

Prendersela con il curato, il rabbino, l’imam – mai con l’ “Ebreo” o con l’ “Arabo”. Essere solidali, certo, con i caricaturisti che si fanno beffe del fanatismo e lo denunciano – ma non cedere, fosse anche con il pretesto della satira, nemmeno al minimo atteggiamento di compiacenza nei confronti delle anime glauche che vanno a rimestare in storie di sangue, di DNA, di geni dei popoli, di razza. È una linea di demarcazione. Cioè, letteralmente, un principio critico. Il pensiero critico sta, propriamente, proprio nello stretto rispetto di questa linea.

2. La questione non è di sapere se un tale o un tal altro – in questo caso Siné- “sia” o “non sia” antisemita. E sono una fesseria i brevetti di moralità che pensano bene di rilasciargli quelli che, come un tempo per Dieudonné o, ancora prima, per Le Pen, dicono di conoscerlo “da molto” e di sapere “da fonte attendibile” che l’antisemitismo gli è estraneo.

Ciò che conta sono le parole. E ciò che conta, al di là delle parole, è la storia, la memoria, l’immaginario che esse veicolano e da cui questi sono ossessionati. Dietro quelle parole un orecchio francese non poteva non udire l’eco del più fetido antisemitismo.

Dietro l’immagine di un giudaismo onnipotente cui un Rastignac contemporaneo spetterebbe dar prova di fedeltà, un orecchio francese non poteva non riconoscere l’ombra del nostro primo best-seller antisemita nazionale: “Gli Ebrei, re dell’epoca”, di Alphonse Toussenel (1845). È così. Non è questione di psicologia, ma di acustica, dunque di fisica, di meccanica,

E quando si è al cospetto di tutto ciò, quando si vede un vecchio umorista –che, in effetti, non sa davvero quel che dice- manipolare connessioni di significati che hanno sempre, ovunque, con implacabile regolarità, incendiato gli spiriti, il corretto atteggiamento non è quello di minimizzare, razionalizzare, discutere a perdita d’occhio sui dosaggi rispettivi, nell’enunciato incriminato, del veleno dell’odio e dell’eccipiente genuinamente dissacrante- bensì quello di attivare subito, senza attendere, ciò che Walter Benjamin chiamava “segnalatori d’incendio”.

3. L’antisemitismo –come, naturalmente, il razzismo- è un delitto cui non sono concesse né circostanze attenuanti né scuse. Il che dovrebbe andare da sé. Purtroppo, non in questo caso. Poiché c’è almeno una giustificazione che, dall’affare Dreyfus in poi, pare funzionare sempre e instaurare una sorta di clausola dell’odio autorizzata.

E’ quella che consiste nel dire: no all’antisemitismo, salvo che si tratti di un borghese di un certo peso, ufficiale superiore dell’armata francese. O: no all’antisemitismo salvo che non si tratti di un simbolo del Grande Capitale, un banchiere ebreo, un plutocrate, un Rothschild. O: no all’antisemitismo, peste dei tempi messa a terra dal progressismo – a meno che non possa mettersi su i vestiti nuovi di un antisarkozysmo che, anch’esso, non si sofferma sui dettagli ed è pronto a tutto pur di aver la meglio.

Così parlava Alain Badiou quando, in un recente libro, Sarkozy: di che cosa è il nome?, si sentiva autorizzato, in virtù di una legittima lotta contro l’“immondo” a reintrodurre nel lessico politico le metafore zoologiche (“i topi”… “l’uomo dei topi”…) che Sartre nella prefazione ai Dannati della terra aveva dimostrato essere sempre, senza appello, segni di fascismo.

E così pensano, oggi, non solo gli “amici” di Siné che fanno petizioni in suo favore, ma tutti coloro che, con il pretesto che il Rastignac di turno era lo stesso figlio del Presidente disprezzato, sono come immobilizzati e impossibilitati ad indignarsi – vecchio rimasuglio dell’antidreyfusismo; ultima perla abbandonata dall’ostrica di un guesdismo la cui dottrina insegnava come esista un buon uso, sì, delle peggiori malattie dello spirito; che miseria.

4. Se c’è un argomento che si prova vergogna a dover ancora ascoltare dalla bocca di coloro che ritengono sia stato fatto a Siné un cattivo processo, è questo: “Siné è un vecchio libertario, un anarchico attardato, un ribelle – come potrebbe un uomo così attingere da quel sudiciume? come ci si può permettere di confondere la sua rivolta a tutto campo con quella passione mirata che è il furore antisemita?

Ebbene allora. Questo argomento è penoso perché ignora tutte le ambiguità di una tradizione una cui specialità è sempre stata, appunto, di passare dalla rabbia a tutto campo alla sua concentrazione antisemita: gli anarco-sindacalisti di inizio XX° secolo; i partigiani dell’azione diretta che proponevano, settant’anni dopo, di “gettare” gli “Ebrei nel “letame dell’Europa” (Ulrike Meinhoff, dirigente della Banda Baader)…

Questo argomento è penoso perché si comporta, o fa finta di comportarsi, come se lo spirito di rivolta, il non-conformismo, fossero un imparabile vaccino contro quelle tentazioni funeste: il che è fare buon mercato della corrente detta, precisamente, dei “non-conformisti degli anni 1930” e dell’energia dispiegata per fornire all’antisemitismo del suo tempo le sue armi e i suoi motivi (conviene, sull’argomento, leggere e rileggere il classico di Jean-Louis Loubet del Bayle)…

Questo argomento è privo di senso, infine, poiché lascia supporre che un uomo di sinistra, un progressista, sarebbe immunizzato, per natura, contro il peggio: mentre sappiamo che se questo peggio avesse una virtù sarebbe quella di confondere, polverizzare questo tipo di frontiera e di provocare, da sinistra a destra, un rincorrersi semantico permanente, vertiginoso, terribile (dalle famose “sezioni beefsteak”, brune fuori, rosse dentro, nate dall’innesto comunista nelle organizzazioni di massa hitleriane, fino al riciclaggio, da parte dell’islamo-gauchismo di oggi, dei ritornelli dell’estrema destra - gli esempi, ahimè, abbondano)…

5. Un’ultimissima parola. Bisognerebbe, mormora l’opinione pubblica, far attenzione a non cadere nel conformismo del politicamente corretto, ovvero di una polizia del pensiero e dell’umorismo il cui solo effetto sarebbe di impedire agli umoristi di esercitare il libero diritto a farsi beffe di tutto e di tutti. Va bene. Salvo che, pure qui, ci si deve intendere. E osare, soprattutto, porre la domanda. E se “politicamente corretto” fosse anche il predicato di un discorso e, in questo caso , di un umorismo, che vieterebbe a se stesso il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’assassinio?

E se la volontà di ridere di tutto e di tutti, tranquillamente, senza ostacoli, esprimesse proprio la nostalgia dell’epoca andata dello scherzo all’antica, grasso, salace, quando nessuno veniva a farvi noie se vi assaliva la voglia di prendervela con i “raton” (gli arabi, ndt) , gli “youpin” (gli ebrei), i “pédé” (gli omosessuali) , le donne?

E se fossero proprio cambiati i tempi e spettasse agli umoristi, non meno che agli scrittori, agli artisti, prendere atto del cambiamento ammettendo che oggi non si ride più né delle stesse cose, né nello stesso modo del 1930 o del 1950?

Dai, Siné. Hai ancora scelta. O la ripetizione, lo stereotipo, lo stesso eterno ritorno di quell’umorismo da cabaret che nemmeno a te fa più ridere, ne sono sicuro – meccanica applicata ai vivi, ignominia accoppiata al cliché, rimbambimento assicurato. Oppure cambiare disco, inventare, liberarti e fare della tua ironia l’avventura di una libertà ritrovata e regolata alle libertà del giorno – giovinezza a volontà, talento, modernità.

Non penso che la si sia “fatta troppo grossa” con questa faccenda Siné. Per quanto piccola possa sembrare, è una di quelle “secrezioni del tempo” che Michel Foucault diceva non aver eguali quando si tratta di riflettere ed indagare lo spirito e il malessere di un’epoca.

Bernard-Henri Lévy, Le Monde, 22 luglio 2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Risposta a chi dubita della probabile elezione di Obama

Ancora negli Stati Uniti. Starò qui per parte dell’estate e dell’autunno. Con lo sguardo fisso, come tutti, sull’elezione per eccellenza, quella da cui dipende il futuro, non solo dell’America, ma del pianeta.

Leggo le reazioni, stranamente numerose, che ha suscitato, nella corrispondenza al giornale, sulla rete, nella blogosfera, il mio ultimo bloc-notes dove annunciavo la prevedibile vittoria di Barack Obama.

E poiché, evidentemente, non sono stato compreso; poiché, immagino, mi sono espresso male, e siccome i lettori europei sembrano avere, per di più, vere difficoltà a cogliere l’originalità, la singolarità e, per farla breve, la particolarità dello scrutinio statunitense, ricomincio.

L’elezione presidenziale americana è un’elezione a suffragio universale, naturalmente.

Ma non è un’elezione nella quale, come per esempio in Francia, ciascuno dei due candidati fa campagna in tutto il paese e somma, alla fine, i voti raccolti.

Si vota in ogni Stato.

Ci sono cinquanta diverse elezioni che si terranno il 4 novembre e la cui posta in gioco sarà il pacchetto di “grandi elettori”, in quota PD o PR, che ciascuno dei cinquanta Stati invierà al collegio elettorale, collegio che, un mese più tardi, eleggerà il presidente.

Ora, prima originalità decisiva: ogni Stato dispone di un numero di grandi elettori uguale al numero dei suoi senatori (due per Stato, quale che sia la sua dimensione) aumentato dal numero dei membri inviati alla Camera dei rappresentanti (e che dipende, questo, invece, dal peso demografico – con uno scarto qui considerevole tra uno Stato molto popolato che, come la California, vede cinquantatré grandi elettori aggiungersi ai primi due e altri Stati molto vasti ma poco popolati che, come il Wyoming, il Nebraska, o l’Alaska, ne avranno solo uno in più).

E seconda particolarità, anche lei decisiva ma con la quale gli osservatori europei hanno, mi pare, poca dimestichezza: qualunque sia il punteggio ottenuto in ognuno dei cinquanta Stati (più il Distretto di Washington, che invierà, lui, tre grandi elettori supplementari), che vinca a stretta o larga maggioranza, che raggiunga l’80, il 60 o il 51 percento dei suffragi, il vincitore si arrafferà, in ogni caso, in virtù del cosiddetto principio del “winner take all”, la totalità dei “punti”, cioè dei “grandi elettori” attribuiti ad ogni Stato.

Conseguenza: ci sono Stati così vasti ma che pesano talmente poco sulla bilancia (i tre delegati del Wyoming o di ciascuno dei due Dakotas; i quattro del Maine, dell’Idaho o delle lontane Hawaii) che nessun candidato correrà il rischio di perderci tempo e denaro dieci volte più produttivi in quegli Stati che, come l’Ohio, la Pennsylvania o lo Stato di New York si percorrono velocemente e “fruttano”, rispettivamente, 20, 21 e 31 delegati.

Conseguenza: ci sono grandi Stati, procacciatori di un gran numero di grandi elettori, ma così saldamente ancorati, per tradizione, ad un campo o all’altro (il Texas, l’Arizona o la Carolina del Nord per i repubblicani; la California, l’Illinois o lo Stato di New York per i democratici) che, anche qui, non ci si va a perdere tempo e denaro al solo scopo di passare da un quasi assicurato 51 percento a un 55 o 60 percento che non cambierà nulla, lo ripeto, poiché la totalità dei grandi elettori sarebbe comunque assicurata.

Conseguenza, infine: la battaglia, tutta la battaglia, si concentrerà su un ristrettissimo numero di Stati chiamati “swing states”, ovvero “Stati in bilico”, e che votano in funzione di considerazioni locali, se non ultralocali, che nulla hanno a che vedere con le grandi questioni internazionali, o anche nazionali, su cui si polarizzano i commentatori – la chiusura di una miniera in una cittadina dell’Ohio; le sovvenzioni al mais nell’Iowa; un gesto che vada incontro agli esiliati cubani di Miami, sufficiente ad assicurare i ventisette grandi elettori della Florida; paradosso di una elezione “mondiale” che si disputa, per ragioni strutturali, come una serie di “cantonali”…

Insomma, se penso che Obama vincerà, è per il suo carisma, certo.

È per la magnifica speranza che ha saputo infondere nell’insieme del paese, sicuro.

Ma è anche perché sto ascoltando ciò che sta dicendo agli elettori del Minnesota; vedo come si rivolge alle vittime delle inondazioni dell’Iowa o agli Ispanici del Nevada; osservo come riesce ad omaggiare le Chiese bianche senza snervare le Chiese nere; come, nelle città difficili della regione dei Laghi, guadagna consenso tra i metallurgici senza cedere alle sirene di un protezionismo che gli alienerebbe gli Stati confinanti con il Messico; o ancora come – e l’esercizio da funambolo si fa, all’improvviso, problematico- sostiene, in Luisiana, i partigiani della pena di morte per chi stupra i bambini, ma a mezza voce, sul filo delle labbra, non volendo urtare gli abolizionisti del New Hampshire; Barack Obama sarà eletto anche perché è il più scaltro dei grandi politici prodotti, da molto tempo a questo parte, dall’America.

È la mia analisi e la mia scommessa. È così che vedo, da ciò che conosco, il più lirico e il più prammatico, il più entusiasmante e il più machiavelliano, dei riformatori americani dopo Kennedy. Appuntamento il 4 novembre. Su queste colonne.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 10.07.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Perché scommetto sulla vittoria di Barack Obama

Sicuro, ci sono delle incognite.

Il personaggio McCain, innanzitutto, che sarebbe un errore sottovalutare: un uomo rimarchevole; spiazzante con il suo rifiuto della tortura o di Guantanamo; audace nel combattere la politica fiscale delle due amministrazioni Bush: il democratico John Kerry non aveva forse pensato, ad un certo punto, di poter fare il ticket con questo conservatore fuori dagli schemi?

Quella specialità americana e, in particolare, repubblicana, inoltre, chiamata "junk politic", e di cui nessuno può predire gli effetti devastanti: a quando l’inizio dei colpi bassi? su quale sito internet i primi fotomontaggi del candidato rappresentato come un islamista radicale? quanti nuovi pastori Jeremiah Wright si vedranno uscire dalla selva di quelle terribili "associazioni 527" che permettono, al margine dei partiti, e senza che la responsabilità morale e finanziaria di questi sia messa in campo, di lanciare ogni tipo di campagna diffamatoria?

E poi c’è l’incognita, infine, di un modo di scrutinio senza uguali, ahimè, nel raffreddare gli slanci lirici: considerate che l’obiettivo dell’elezione è di aggiudicarsi, in ognuno dei cinquanta Stati, i delegati che, riuniti, andranno poi ad eleggere il presidente; considerate che non c’è, in questi Stati, alcuna differenza tra vincere per un soffio o con una schiacciante maggioranza, poiché ci si accaparrerà, in entrambi i casi, la totalità dei delegati; aggiungete che, nei due terzi dei suddetti Stati, la tradizione, come i sondaggi, indica che i giochi sono già fatti e che muovere battaglia non servirà a nulla; la logica conclusione di tutto ciò è che la campagna si concentrerà su 15, 18, forse questa volta 20, "swing states", altrimenti detti "Stati in bilico", dove si tratterà di spostare poche migliaia di voti; e la conclusione di questa conclusione è che il dibattito tenderà a concentrarsi su questioni locali, sovente infime, ben distanti, in ogni caso, dagli entusiasmi "macropolitici" che danno, a distanza, per effetto della lente d’ingrandimento mediatica, la sensazione di una Obamania irresistibile.

Restano, prese queste precauzioni, tre buone ragioni per credere nella vittoria del senatore dell’Illinois.

1. L’America è cambiata. È l’ultraconservatore Huntington a notarlo, nel suo ultimo libro, "La nuova America": l’America non è più quel paese protestante, anglosassone, europeo per tradizione e bianco per vocazione, che non poteva immaginare di vedere, un giorno, un Nero lanciarsi, seriamente, nella corsa alla Casa Bianca. I due mandati di Bush? Il viraggio ultradestroide del paese dopo l’11 Settembre? Le campagne degli avversari dell’aborto o dei sostenitori del creazionismo anti-Darwin? Ci si può vedere, certo, una tendenza forte, un movimento di fondo. Ci si può anche vedere –è il mio caso- il soprassalto, l’ultima lotta prima della resa, il movimento disperato di un’America che sa di star morendo ma che ritarda, finché può, l’ora in cui dovrà prenderne atto e rendere le armi.

2. Obama non è un Nero ordinario. Non è "solo" meticcio. Ma, contrariamente a un Jesse Jackson o a un Al Sharpton, contrariamente a una Condi Rice, come loro discendente degli schiavi e portatrice, dunque, a questo titolo, della memoria della segregazione, Obama è nato, lui, da padre keniota. La differenza è enorme. Perché lo specchio che tende all’America non è più quello di quei tempi bui. L’immagine che le rinvia di se stessa non è più quella di una colpevolezza ancestrale e, in fondo, insopportabile. Barack Obama può vincere perché è il primo Afro-Americano a compiere, grazie alle sue origini, un passo fuori dai ranghi di ciò che qui viene chiamata "guerra civile" – è il primo che possa giocare la carta, non della condanna, ovvero della dannazione, ma della seduzione e, come lo stesso Obama ripete senza sosta, della riconciliazione.

3. E’ uno che vale, non voglio solo dire che è il più carismatico (di ciò, nessuno dubita), ma il più dotato dei politici prodotti dalla macchina democratica da molto tempo. Appuntamento a Denver (Colorado), swing state per eccellenza, dove venderà caro, in agosto, il fatto di aver scelto questo Stato, e non un altro, come teatro della sua consacrazione. Appuntamento in Florida, altro Stato in bilico, dove è già in campagna contro la prospettiva, imprudentemente incoraggiata dal suo rivale, di trivellazioni petrolifere offshore. Ascoltatelo, nel Nevada, come riesce a trovare le parole che toccano la giuste corde di quei patrioti di prima, seconda generazione che sono gli Ispanici. Per non parlare di quella grande novità di attribuire ad un comitato speciale (e presieduto, scusate se è poco, dall’ultimo dei Kennedy!) la responsabilità della scelta del futuro vice-presidente: il governatore del Nuovo Messico? il senatore Jim Webb, veterano del Vietnam? il governatore Strickland, a mo’ di strizzatina d’occhio ai blu collars? Bill Ritter, per i cattolici? c’è, nel principio stesso di questo bilanciamento politico dato in spettacolo all’America intera, il più abile, il più astuto e, alla fine, il più redditizio dei tributi pagati all’inevitabile bizzarria del suo sistema elettorale.

Sono stato uno dei primi a prendere atto, su queste colonne, quattro anni fa, dopo averlo ascoltato, poi incontrato, a Boston, dell’apparizione della meteora Obama. Possa io non sbagliarmi nemmeno oggi annunciando che egli avrà, ormai molto presto, il viso degli Stati Uniti. In ogni caso, ci metto la firma.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 3.07.2008
(traduzione di Daniele Sensi)