Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Perché scommetto sulla vittoria di Barack Obama

Sicuro, ci sono delle incognite.

Il personaggio McCain, innanzitutto, che sarebbe un errore sottovalutare: un uomo rimarchevole; spiazzante con il suo rifiuto della tortura o di Guantanamo; audace nel combattere la politica fiscale delle due amministrazioni Bush: il democratico John Kerry non aveva forse pensato, ad un certo punto, di poter fare il ticket con questo conservatore fuori dagli schemi?

Quella specialità americana e, in particolare, repubblicana, inoltre, chiamata "junk politic", e di cui nessuno può predire gli effetti devastanti: a quando l’inizio dei colpi bassi? su quale sito internet i primi fotomontaggi del candidato rappresentato come un islamista radicale? quanti nuovi pastori Jeremiah Wright si vedranno uscire dalla selva di quelle terribili "associazioni 527" che permettono, al margine dei partiti, e senza che la responsabilità morale e finanziaria di questi sia messa in campo, di lanciare ogni tipo di campagna diffamatoria?

E poi c’è l’incognita, infine, di un modo di scrutinio senza uguali, ahimè, nel raffreddare gli slanci lirici: considerate che l’obiettivo dell’elezione è di aggiudicarsi, in ognuno dei cinquanta Stati, i delegati che, riuniti, andranno poi ad eleggere il presidente; considerate che non c’è, in questi Stati, alcuna differenza tra vincere per un soffio o con una schiacciante maggioranza, poiché ci si accaparrerà, in entrambi i casi, la totalità dei delegati; aggiungete che, nei due terzi dei suddetti Stati, la tradizione, come i sondaggi, indica che i giochi sono già fatti e che muovere battaglia non servirà a nulla; la logica conclusione di tutto ciò è che la campagna si concentrerà su 15, 18, forse questa volta 20, "swing states", altrimenti detti "Stati in bilico", dove si tratterà di spostare poche migliaia di voti; e la conclusione di questa conclusione è che il dibattito tenderà a concentrarsi su questioni locali, sovente infime, ben distanti, in ogni caso, dagli entusiasmi "macropolitici" che danno, a distanza, per effetto della lente d’ingrandimento mediatica, la sensazione di una Obamania irresistibile.

Restano, prese queste precauzioni, tre buone ragioni per credere nella vittoria del senatore dell’Illinois.

1. L’America è cambiata. È l’ultraconservatore Huntington a notarlo, nel suo ultimo libro, "La nuova America": l’America non è più quel paese protestante, anglosassone, europeo per tradizione e bianco per vocazione, che non poteva immaginare di vedere, un giorno, un Nero lanciarsi, seriamente, nella corsa alla Casa Bianca. I due mandati di Bush? Il viraggio ultradestroide del paese dopo l’11 Settembre? Le campagne degli avversari dell’aborto o dei sostenitori del creazionismo anti-Darwin? Ci si può vedere, certo, una tendenza forte, un movimento di fondo. Ci si può anche vedere –è il mio caso- il soprassalto, l’ultima lotta prima della resa, il movimento disperato di un’America che sa di star morendo ma che ritarda, finché può, l’ora in cui dovrà prenderne atto e rendere le armi.

2. Obama non è un Nero ordinario. Non è "solo" meticcio. Ma, contrariamente a un Jesse Jackson o a un Al Sharpton, contrariamente a una Condi Rice, come loro discendente degli schiavi e portatrice, dunque, a questo titolo, della memoria della segregazione, Obama è nato, lui, da padre keniota. La differenza è enorme. Perché lo specchio che tende all’America non è più quello di quei tempi bui. L’immagine che le rinvia di se stessa non è più quella di una colpevolezza ancestrale e, in fondo, insopportabile. Barack Obama può vincere perché è il primo Afro-Americano a compiere, grazie alle sue origini, un passo fuori dai ranghi di ciò che qui viene chiamata "guerra civile" – è il primo che possa giocare la carta, non della condanna, ovvero della dannazione, ma della seduzione e, come lo stesso Obama ripete senza sosta, della riconciliazione.

3. E’ uno che vale, non voglio solo dire che è il più carismatico (di ciò, nessuno dubita), ma il più dotato dei politici prodotti dalla macchina democratica da molto tempo. Appuntamento a Denver (Colorado), swing state per eccellenza, dove venderà caro, in agosto, il fatto di aver scelto questo Stato, e non un altro, come teatro della sua consacrazione. Appuntamento in Florida, altro Stato in bilico, dove è già in campagna contro la prospettiva, imprudentemente incoraggiata dal suo rivale, di trivellazioni petrolifere offshore. Ascoltatelo, nel Nevada, come riesce a trovare le parole che toccano la giuste corde di quei patrioti di prima, seconda generazione che sono gli Ispanici. Per non parlare di quella grande novità di attribuire ad un comitato speciale (e presieduto, scusate se è poco, dall’ultimo dei Kennedy!) la responsabilità della scelta del futuro vice-presidente: il governatore del Nuovo Messico? il senatore Jim Webb, veterano del Vietnam? il governatore Strickland, a mo’ di strizzatina d’occhio ai blu collars? Bill Ritter, per i cattolici? c’è, nel principio stesso di questo bilanciamento politico dato in spettacolo all’America intera, il più abile, il più astuto e, alla fine, il più redditizio dei tributi pagati all’inevitabile bizzarria del suo sistema elettorale.

Sono stato uno dei primi a prendere atto, su queste colonne, quattro anni fa, dopo averlo ascoltato, poi incontrato, a Boston, dell’apparizione della meteora Obama. Possa io non sbagliarmi nemmeno oggi annunciando che egli avrà, ormai molto presto, il viso degli Stati Uniti. In ogni caso, ci metto la firma.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 3.07.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

1 commenti:

2/11/08 1:29 AM Angelo D'Amore ha detto...

L'AMERICA E' IN PROCINTO DI COMPIERE UNA SVOLTE EPOCALE.
TUTTO IL MONDO E' ALLA FINESTRA.
CON OBAMA PUO' RIPARTIRE IL SOGNO AMERICANO

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