Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Risposta a chi dubita della probabile elezione di Obama

Ancora negli Stati Uniti. Starò qui per parte dell’estate e dell’autunno. Con lo sguardo fisso, come tutti, sull’elezione per eccellenza, quella da cui dipende il futuro, non solo dell’America, ma del pianeta.

Leggo le reazioni, stranamente numerose, che ha suscitato, nella corrispondenza al giornale, sulla rete, nella blogosfera, il mio ultimo bloc-notes dove annunciavo la prevedibile vittoria di Barack Obama.

E poiché, evidentemente, non sono stato compreso; poiché, immagino, mi sono espresso male, e siccome i lettori europei sembrano avere, per di più, vere difficoltà a cogliere l’originalità, la singolarità e, per farla breve, la particolarità dello scrutinio statunitense, ricomincio.

L’elezione presidenziale americana è un’elezione a suffragio universale, naturalmente.

Ma non è un’elezione nella quale, come per esempio in Francia, ciascuno dei due candidati fa campagna in tutto il paese e somma, alla fine, i voti raccolti.

Si vota in ogni Stato.

Ci sono cinquanta diverse elezioni che si terranno il 4 novembre e la cui posta in gioco sarà il pacchetto di “grandi elettori”, in quota PD o PR, che ciascuno dei cinquanta Stati invierà al collegio elettorale, collegio che, un mese più tardi, eleggerà il presidente.

Ora, prima originalità decisiva: ogni Stato dispone di un numero di grandi elettori uguale al numero dei suoi senatori (due per Stato, quale che sia la sua dimensione) aumentato dal numero dei membri inviati alla Camera dei rappresentanti (e che dipende, questo, invece, dal peso demografico – con uno scarto qui considerevole tra uno Stato molto popolato che, come la California, vede cinquantatré grandi elettori aggiungersi ai primi due e altri Stati molto vasti ma poco popolati che, come il Wyoming, il Nebraska, o l’Alaska, ne avranno solo uno in più).

E seconda particolarità, anche lei decisiva ma con la quale gli osservatori europei hanno, mi pare, poca dimestichezza: qualunque sia il punteggio ottenuto in ognuno dei cinquanta Stati (più il Distretto di Washington, che invierà, lui, tre grandi elettori supplementari), che vinca a stretta o larga maggioranza, che raggiunga l’80, il 60 o il 51 percento dei suffragi, il vincitore si arrafferà, in ogni caso, in virtù del cosiddetto principio del “winner take all”, la totalità dei “punti”, cioè dei “grandi elettori” attribuiti ad ogni Stato.

Conseguenza: ci sono Stati così vasti ma che pesano talmente poco sulla bilancia (i tre delegati del Wyoming o di ciascuno dei due Dakotas; i quattro del Maine, dell’Idaho o delle lontane Hawaii) che nessun candidato correrà il rischio di perderci tempo e denaro dieci volte più produttivi in quegli Stati che, come l’Ohio, la Pennsylvania o lo Stato di New York si percorrono velocemente e “fruttano”, rispettivamente, 20, 21 e 31 delegati.

Conseguenza: ci sono grandi Stati, procacciatori di un gran numero di grandi elettori, ma così saldamente ancorati, per tradizione, ad un campo o all’altro (il Texas, l’Arizona o la Carolina del Nord per i repubblicani; la California, l’Illinois o lo Stato di New York per i democratici) che, anche qui, non ci si va a perdere tempo e denaro al solo scopo di passare da un quasi assicurato 51 percento a un 55 o 60 percento che non cambierà nulla, lo ripeto, poiché la totalità dei grandi elettori sarebbe comunque assicurata.

Conseguenza, infine: la battaglia, tutta la battaglia, si concentrerà su un ristrettissimo numero di Stati chiamati “swing states”, ovvero “Stati in bilico”, e che votano in funzione di considerazioni locali, se non ultralocali, che nulla hanno a che vedere con le grandi questioni internazionali, o anche nazionali, su cui si polarizzano i commentatori – la chiusura di una miniera in una cittadina dell’Ohio; le sovvenzioni al mais nell’Iowa; un gesto che vada incontro agli esiliati cubani di Miami, sufficiente ad assicurare i ventisette grandi elettori della Florida; paradosso di una elezione “mondiale” che si disputa, per ragioni strutturali, come una serie di “cantonali”…

Insomma, se penso che Obama vincerà, è per il suo carisma, certo.

È per la magnifica speranza che ha saputo infondere nell’insieme del paese, sicuro.

Ma è anche perché sto ascoltando ciò che sta dicendo agli elettori del Minnesota; vedo come si rivolge alle vittime delle inondazioni dell’Iowa o agli Ispanici del Nevada; osservo come riesce ad omaggiare le Chiese bianche senza snervare le Chiese nere; come, nelle città difficili della regione dei Laghi, guadagna consenso tra i metallurgici senza cedere alle sirene di un protezionismo che gli alienerebbe gli Stati confinanti con il Messico; o ancora come – e l’esercizio da funambolo si fa, all’improvviso, problematico- sostiene, in Luisiana, i partigiani della pena di morte per chi stupra i bambini, ma a mezza voce, sul filo delle labbra, non volendo urtare gli abolizionisti del New Hampshire; Barack Obama sarà eletto anche perché è il più scaltro dei grandi politici prodotti, da molto tempo a questo parte, dall’America.

È la mia analisi e la mia scommessa. È così che vedo, da ciò che conosco, il più lirico e il più prammatico, il più entusiasmante e il più machiavelliano, dei riformatori americani dopo Kennedy. Appuntamento il 4 novembre. Su queste colonne.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 10.07.2008
(traduzione di Daniele Sensi)