Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Un Kennedy nero

Forse mi sbaglio.

Ma penso che l’America non abbia mai conosciuto una campagna tanto lunga, né tanto spietata, quanto quella vede opporsi Barack Obama a John McCain.

E credo, altresì, che da molto non si vedeva un dibattito tanto acceso, tanto importante, incentrato su questioni letteralmente cruciali, quanto quello che scuote, in questa occasione, gli Stati Uniti.

Ricordiamo bene la teoria di Samuel Huntington sul famoso “choc” di civiltà, sulla presunta opposizione tra “il West” e “il resto”, tra l’Occidente e il resto del mondo, tra l’America e l’Islam. Una teoria smentita, grazie al cielo. Una teoria che tutti gli spiriti ragionevoli ritengono sommaria, stupidamente guerriera, priva di considerazione per le faglie che attraversano i pretesi “blocchi” delle pretese “civiltà”, una teoria superficiale. Ma, a leggere la stampa degli ultimi giorni, a vedere la febbre che s’impadronisce dei due elettorati, a osservare con quale fervore gente giovane che mai, fino ad ora, aveva pensato d’iscriversi alle liste elettorali, si appresta, questa volta, a votare, si ha la sensazione di vedere tale teoria trovare qui, in questa occasione, un campo d’applicazione tanto esatto quanto imprevisto: come se il vero choc, la vera diatriba, il vero scontro delle vere civiltà, stesse qui- nello scontro tra i sostenitori d’Obama e quelli di un McCain che lascia dire alla sua vice, Sarah Palin, che Mosè era contemporaneo ai dinosauri, che il creazionismo dovrebbe essere insegnato nelle scuole con legittimità pari a quella del darwinismo o che gli Stati a maggioranza democratica non sono del tutto “americani”…

Non che Barack Obama sia l’uomo provvidenziale la cui sola apparizione possa essere sufficiente a rimuovere questa parte maledetta dell’ideologia americana.

E non si tarderà d’altronde, qualora venisse eletto, a veder affievolirsi l’entusiasmo, nella stessa Francia, degli elettori per procura di un uomo politico, eccezionale certo, ma che è solo un politico e non l’incarnazione di una umanità nuova, cittadina del mondo, meticcia –né, ancor meno, di non so quale Che Guevara che possa espiare tutti i peccati dell’America sull’Altare della Giustizia eterna.

Ma allo stesso tempo…

Obama presidente vorrà dire, volenti o nolenti, un viso nuovo per un paese devastato dagli anni Bush.

Obama presidente vorrà dire, anche senza un ritiro immediato dall’Iraq, una vera svolta nella politica estera americana nel senso del multilateralismo e della mano tesa al mondo.

Obama presidente vorrà dire, sul piano interno, un principio di unità per una società che non è mai stata tanto divisa, balcanizzata, tribalizzata, quanto in questi tempi cupi in cui il retaggio delle vecchie segregazioni trova rinforzo nell’irresponsabilità politica propria dei comunitarismi postmoderni.

Obama presidente sarà l’epilogo, in questo senso, di una lunga e bella storia avviata all’indomani della guerra di Secessione, portata avanti dai sostenitori di Martin Luther King e a confronto della quale i mandati di George W.Bush appariranno presto come una disincantata parentesi.

Obama presidente vorrà dire, sul piano sociale, l’avvio di quel famoso piano di copertura sanitaria universale la cui assenza era una macchia, un incomprensibile disonore, per quella grande democrazia.

E Obama presidente vorrà dire, infine, un programma economico (politica fiscale indirizzata al rilancio della domanda, aiuto alle collettività locali più toccate dalla crisi immobiliare, regolamentazione di un capitalismo la cui intelligenza quasi diabolica scappa ai suoi stessi attori ) che è il solo che possa, lentamente ma con certezza, riparare i danni commessi da questi decenni di regno della scuola di Chicago.

Il popolo americano avverte tutto ciò, non ne dubito.

Tutto questo hanno in testa coloro che vedono nell’elezione di Obama la possibilità del risveglio di un’America che riannoderà con il meglio di se stessa e della sua eredità.

Quanto a me, io non ho che un rimorso: il titolo di quel primo articolo che, quattro anni fa, dopo il nostro incontro, consacrai a colui che ancora era solo il giovane senatore dell’Illinois.

Quell’articolo, dapprima apparso sull’Atlantic Monthly, poi ripreso in “American Vertigo”, l’avevo dapprima titolato: “A Black Kennedy”.

Poi, su richiesta degli editori dell’Atlantic per i quali davo troppa importanza ad un illustre sconosciuto, avevo finito per attenuare titolando più modestamente: “A Black Clinton”.

Ebbene, me ne dispiaccio.

Perché dire “Clinton” significava già molto – ma era “Kennedy”, ce ne rendiamo conto quattro anni dopo, il vero nome della speranza che quel giovane uomo annunciava ed incarna.

Che Obama entri alla Casa Bianca, che diventi, come scrivo su queste colonne da anni, il 44° presidente degli Stati Uniti, e sarà, come per Kennedy, il segno di quella rinascita tanto morale quanto sociale, tanto economica quanto politica, attesa dagli Stati Uniti e, dunque, dal mondo.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 30.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Fiducia o barbarie

E’ un momento veramente straordinario.

Un mondo le cui fondamenta vacillano.

Un sistema che credevamo certo come l’aria che respiriamo e che, invece, nel giro di pochi giorni, perde i suoi punti di riferimento, le sue evidenze, e sembra come risucchiato da un buco nero.

Il denaro – “nerbo della pace”- come sangue che si rapprende.

Il credito – bella parola che testimonia, anche, la fede degli uomini in altri uomini- come un meccanismo che s’inceppa e si ferma.

La fiducia – la famosa “Fiducia” che altro non è , dopotutto, se non l’altro nome del patto sociale e delle ragioni del suo perpetuarsi- come un incantesimo che svanisce.

Si pensa a quei testi della filosofia politica classica che non si prendevano troppo seriamente e che tentavano di far luce sull’enigma del costituirsi della società.

Si pensa al “Leviatano”, al “Contratto sociale” e ai trattati “Sulla servitù volontaria” che consideravamo alla stregua di piacevoli fantasie e che invece ci parlavano proprio di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, con questa crisi senza precedenti nella storia del capitalismo.

Cos’è un legame sociale e come si rompe? Ecco. Ci siamo. E questo tracollo, questo naufragio, ce ne danno un’immagine abbastanza precisa.

Cos’è il tempo politico e come s’ingolfa? Prendete i quattro giorni persi dai parlamentari americani prima di decidersi a votare il piano Paulson; prendete quei quattro insignificanti giorni che però sappiamo aver contato il doppio, il triplo in più, e che hanno causato, come tutte le esitazioni in quelle situazioni un tempo qualificate come “prerivoluzionarie”, irreparabili danni.

L’uomo, un lupo per l’uomo? La paura del lupo che dorme nell’uomo e il timore, sotto la vernice mal fissata della civiltà, dello stato di natura che fa ritorno? Guardate quei principi della finanza, che ieri andavano tanto d’amore e d’accordo e che ora, all’improvviso, si scontrano sul bordo dell’abisso, si prendono per la gola e si sfidano a chi cadrà per ultimo; guardate la danza tra i lupi, quel feroce balletto di predatori esangui che si annusano, che fiutano la morte annunciata del vicino e che mettono gli occhi sulle sue spoglie- guardate il tango dell’odio incandescente cui si è dato il nome pudico di “credito interbancario che si esaurisce”.

In questi giorni s’è sentito odore di condanna a morte e di suicidio collettivo in seno alla piccola muta di belve.

Si è avuta la sensazione si una giga, di una fatale danza del Rigaudon, da cui quegli stessi che avevano condotto il mondo della finanza all’implosione a causa della propria irresponsabilità, del proprio egoismo devastatore come, è bene dirlo, della propria intelligenza divenuta folle e, in senso proprio, diabolica, pensavano di potersi tirare fuori facendovi precipitare gli altri.

E per tutti il risultato è stata un’apocalisse di cui era facile esporre l’implacabile concatenamento di conseguenze ma di cui nessuno sapeva disinnescare il meccanismo: come rispondere a risparmiatori che vengono a prelevare danaro che non si ha? come reagire alla messa in cessazione di pagamento dei fornitori di elettricità e di gas? cosa succede quando folle di risparmiatori riuniti, o di disoccupati disperati, o di debitori assillati dagli stessi che li hanno spinti ad indebitarsi, vengono, secondo uno scenario che la storia francese conosce, ahimè, molto bene, a gridare la propria collera sotto le finestre degli aggiotatori e degli speculatori?

I responsabili, in simili momenti, hanno due possibilità.

Ovviamente stanno tutti sulla nostra stessa barca fatta d’ignoranza del mondo oscuro, sconosciuto, mosso da nuove minacce.

Tutti, non c’è dubbio, brancolano, incespicano e, domenica sera, d’altronde, facevano fatica ad evitare, sulla scalinata dell’Eliseo, chi un lapsus, chi una goffaggine retorica, chi uno di quegli impercettibili movimenti del corpo che tradiscono la vertigine.

Ma tra loro, tuttavia, ci sono differenze.

Ci sono quelli, come un tempo Valéry Giscard d’Estaing secondo una frase rimasta famosa di Raymond Aron, ignorano che la Storia è tragica e credono che tutto, sempre, debba finire col mettersi a posto: la partita non è chiusa? non è votata a convulsioni che non sono e non saranno più che innocenti piroette?

E ci sono quelli, all’inverso, sensibili al Tragico e che sanno che niente è più fragile, precario, pronto a disfarsi, che un legame sociale ben annodato – “tutto tiene solo per magia” diceva un altro Valéry, lo scrittore, citato, questa volta, da Sartre: si parte da una crisi finanziaria ed è tutto il tessuto che, poco per volta, finisce per sfaldarsi; all’inizio si tratta della folla terrorizzata e, alla fine, ecco il gruppo in fusione terrorista, scatenato, con voglia di linciare.

Nicolas Sarkozy, l’altra sera, ha dimostrato di appartenere evidentemente al secondo tipo: concentrato, determinato, tipo un anti-Giscard ossessionato dalla situazione nello stesso momento in cui la prendeva di petto, con, negli occhi, un po’ di quel terrore lucido che fa gli uomini di Stato.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 16.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Perché vincerà Barack Obama

Dopo tre settimane, rientro dagli Stati Uniti, in attesa di ritornarvi presto. E, fin d’ora, a venti giorni dal risultato, stendo un primo bilancio della situazione.

Mantengo, più che mai, il pronostico che feci più di quattro fa, all’indomani della penultima convenzione democratica, quando intitolavo un testo su Barack Obama, apparso sulla rivista di Boston The Atlantic Monthly: “Un Clinton nero”.

E, naturalmente, mantengo pure il pronostico di sei settimane fa, quando annunciavo, su queste colonne, in questo bloc-notes, e mentre la maggior parte dei sondaggi davano un risultato opposto, la più che probabile vittoria di Obama sul suo avversario repubblicano, John McCain.

Non che quest’ultimo se la sia giocata male.

Non che abbia deluso i suoi sostenitori, in particolare nel primo “gran dibattito” organizzato dalla CNN e in cui, soprattutto sulle questioni internazionali, non ha sfigurato come possibile presidente.

E la stessa Sarah Palin, nel dibattito affrontato la settimana scorsa con l’altro candidato alla vice-presidenza, Joe Biden, ha mostrato di saper imparare alla svelta e di essere già lontana dall’ex-regina di bellezza dei primi giorni, balbettante, impacciata, terrorizzata da quanti la intervistavano, e che, accumulando gaffe su gaffe, veniva schernita –non senza una violenta ed insopportabile dose di sessismo– dall’insieme dei media, dei siti internet, dei blogger o degli umoristi della potentissima Comedy Channel.

Ma ci sono tre ragioni essenziali che fanno sì che la vittoria abbia sempre meno possibilità di sfuggire al senatore dell’Illinois, malgrado tutto, malgrado la sua inesperienza, malgrado la sua giovinezza, malgrado il fondo di razzismo che persiste nella classe media americana e su cui i nuovi Thénardier della politica statunitense, Hillary e Bill Clinton, non hanno mancato di fa leva durante la campagna per la designazione del candidato.

L’immenso desiderio di cambiamento, innanzitutto, che s’è impadronito di un paese che comincia a risvegliarsi, come un sonnambulo, dall’incubo degli anni Bush.

La crisi economica e finanziaria, in secondo luogo; l’impressione, per tutti, di entrare in una terra incognita dove nessuna delle vecchie bussole, nessuno degli strumenti di navigazione e dei punti di riferimento tradizionali, sono di alcun aiuto; ma la sensazione, allo stesso momento, in quello smarrimento condiviso, che la fede deregolatrice che fu il credo di John McCain durante i suoi ventidue anni al Senato, la sua diffidenza di principio verso un ruolo accresciuto dello Stato federale nella condotta degli affari economici, ovvero il suo lato da Scuola di Chicago ed il suo essere convinto conservatore, siano, ad ogni modo, la peggiore delle soluzioni.

E poi, infine, la crisi morale che gli Stati Uniti stanno attraversando; una profondissima crisi d’identità, quella vertigine che qualche anno addietro ho provato a diagnosticare; il comunitarismo, la balcanizzazione del tessuto sociale, l’allentarsi di un legame di cittadinanza a causa dalla nuova e rovinosa guerra tre le memorie, tra comunità ieri alleate e oggi rivali; insomma, quell’impossibile nazione, quel paese-ed è la sua grandezza-senza nome e senza matrice comune al quale Barack Obama, essendo, l’ho detto spesso, un Nero venuto da fuori, che discende non da una famiglia di schiavi nati nell’Alabama, ma da un Africano del Kenya, era l’unico tra i candidati disponibili a poter restituire il suo fondamento.

Oggi, dunque, affino il pronostico.

Obama vincerà, naturalmente, nel suo Stato, l’Illinois.

Vincerà, anche, nei grossi Stati tradizionalmente in mano ai democratici: quelli della costa Orientale, come lo Stato di New York e la Pennsylvania; quelli della costa Occidentale, quali la California o lo Stato di Washington, con Seattle, la sua capitale.

Ma avrà la meglio, anche, nella seguente serie di “swing states”, i famosi “Stati in bilico” la cui sorte era, fino a questi ultimi giorni, molto incerta, ma che si ritiene stiano schierandosi dalla sua parte: il Nevada, la Virginia, il Colorado, il Michigan, la Carolina del Nord, e senza dubbio l’Ohio.

Non è nemmeno escluso, infine, che avrà la meglio nei tre Stati che inviano rispettivamente 5,11 e 27 delegati al collegio elettorale cui tocca, seconda la Costituzione, l’elezione formale del presidente, l’indomani del 4 novembre- tre Stati che erano bastati, nelle due precedenti elezioni, a fare la differenza tra George W.Bush e Al Gore, e, la volta dopo, tra George W.Bush e Johh Kerry: il Nevada, il Missouri e la Florida.

Bene.

E’ tutto.

E, se le cose andranno come dico, Barack Obama stravincerà su John McCain, con un distacco di un centinaio abbondante di delegati, forse 150- cosicché potrà rimodellare molto profondamente la più potente e, oggi, la più vulnerabile delle economie-mondo.

Per tutti, amici o no dell’America, non esisterebbe epilogo migliore.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 9.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

La crisi finanziaria vista da New York

Gli Americani non parlano, ovviamente, che di questo. In bocca e nella testa hanno solo l’incredibile tsunami che per poco non ha travolto tutto il loro sistema bancario e, per conseguenza, l’intero pianeta finanziario. Sullo sfondo, tre semplici interrogativi che ritornano ovunque, nei dibattiti e sulla stampa.

Innanzitutto, perché questo disastro? Perché questa serie di bolle (ipotecarie, finanziarie, fiduciarie e del credito) che sono esplose una dopo l’altra e hanno rischiato di far quindi sprofondare la prima economia mondiale in una situazione simile a quella vissuta dall’Argentina sette anni fa? Repubblicani e democratici convengono tutti, oramai, nel porre all’origine della crisi un sistema costruito sul profitto a breve termine, sulla cartolarizzazione a tutt’andare e sull’invenzione di strumenti finanziari sganciati da una correlativa produzione di valore. Fine di un’epoca in cui veniva “coperta” qualsiasi cosa. Agonia di un modello di crescita basato su un indebitamento senza misura e su una speculazione senza freni. E quei dirigenti che lanciavano le loro imprese in avventure indicizzate sul loro hubris quanto sulle remunerazioni assurde che si erano attribuiti sono divenuti l’oggetto, in qualche giorno, di una generale riprovazione, come coloro che, tipo il penultimo presidente di Merrill Lynch, osavano intascare 160 milioni di dollari come prezzo della loro non meno assurda incompetenza,.

E poi, quale rimedio? E se lo Stato federale, contrariamente al credo formulato, tra gli altri, dal defunto presidente Reagan, stesse tornando ad essere non il “problema”, bensì la “soluzione”? I pareri sono diversi, naturalmente. E già si trovano editorialisti, come David Brooks nel New York Times del 19 settembre, che ironizzano su chi pretende di scoprire un “regolazionismo” che costituiva già la norma sui mercati a termine o negli hedge funds. Ma, essenzialmente, l’opinione non cambia. E, da sinistra a destra, dai progressisti della rivista Nation ai devoti della deregolamentazione stile Wall Street Journal, nessuno giudica negativamente l’appropriazione di fatto, da parte dello Stato, di intere fette del settore finanziario. Né, ancor meno, l’intervento massiccio in un mercato che, in principio, dovrebbe essere ritenuto in grado di tornare a regolarsi presto da solo. E nemmeno l’interdizione, provvisoria certo, ma la cui idea stessa era, solo ieri, inconcepibile, delle “vendite allo scoperto” dei grandi titoli finanziari. Non è una riforma, è una rivoluzione. O, meglio ancora, è un cambiamento di paradigma. Ed è, anche qui, una nuova epoca che si annuncia.

Chi, tra Obama e Palin -ops, McCain- è il meglio attrezzato per poter accompagnare questo cambiamento di rotta e per poter incidere nel marmo di una linea politica ciò che, per il momento, ci si inventa di giorno in giorno, a seconda delle circostanze, senza coerenza? Probabilmente Obama. Perché i repubblicani hanno un bell'adeguarsi al nuovo corso. Hanno, come McCain stesso, un bel riconoscere che sì, la nazionalizzazione dei giganti delle assicurazioni era inevitabile. Chiunque si accorge che lo dicono a malincuore e senza disporre degli strumenti concettuali che possano permettere loro di pensare veramente, fino in fondo, la mutazione. Mentre i democratici… L’idea di uno Stato più forte e che con più forza assuma le proprie responsabilità di Stato riuscendo a svolgere, dunque, su questo terreno, il suo pieno ruolo di attore politico è a loro ben più familiare. Questione di cultura e di patrimonio ideologico: il fallimento di Lehman Brothers sarà più funzionale del discorso di Filadelfia all’elezione di Barack Obama.

Quanto all’osservatore straniero, questi giungerà due osservazioni.

La plasticità, dapprima, di un sistema capace di operare, così presto, una sì grande inversione. Quanto tempo sarebbe occorso, in Europa, per salvare una AIG? Quanti comitati interministeriali? quante commissioni europee e nazionali? quanti via vai tra le autorità finanziarie locali e comunitarie? L’America ha fatto in una notte ciò che a noi avrebbe richiesto settimane, e che alla fine magari non avremmo realizzato nemmeno del tutto. Ancora una volta l’America ha dato dimostrazione, e non spiaccia alle cupe previsioni degli anti-americanisti, della sua vitalità.

Ma anche la bizzarria di quello stesso sistema quando uno Stato che si decide, volente o nolente, a tale cambiamento di rotta, ricalcitra, invece, a compiere lo stesso sforzo quando si tratta di andare in aiuto dei bisognosi e di dar vita ad una sicurezza sociale degna di questo nome. O anche: come mai le centinaia di miliardi di dollari che si sanno muovere, a tempo di record, per salvare società finanziarie in fallimento, non le si riescono a trovare tanto facilmente quando si tratta di salvare dalla miseria o dalla morte i senzatetto di Los Angeles o di Detroit?

A questa questione, il prossimo presidente degli Stati Uniti, qualunque sia tra i due, non potrà più sottrarsi.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 24.09.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Con i Georgiani

Nessuno sa a che punto sarà, quando queste mie righe verranno pubblicate, il ritiro delle truppe russe dalla Georgia. Ma da questa aggressione è possibile, fin da ora, trarre le lezioni e le conclusioni seguenti.

1. La straordinaria brutalità del potere russo nell’era post-sovietica. La si era già vista, questa brutalità, all’opera in Cecenia. Ma il meno che si possa dire è che essa sia stata confermata – per quanto, naturalmente, su scala minore – dallo spettacolo di un esercito che invade un paese sovrano dove prende a muoversi così, a suo piacimento, avanzando o indietreggiando secondo i propri comodi e che distrugge, già che c’è, davanti al mondo sbigottito, le infrastrutture militari e civili della giovane democrazia. Oggi la Georgia. Perché non l’Ucraina, domani? O, in virtù dello stesso argomento della solidarietà con russofoni “perseguitati”, i paesi Baltici? la Polonia?

2. La non meno strana indifferenza alle proteste, agli ammonimenti, alle messe in guardia internazionali. La Guerra Fredda aveva le proprie regole e i propri codici. Era il regno dei segni e della loro sapiente interpretazione. Era come un’ermeneutica mezza bellicosa e mezza pacifica in cui si passava il proprio tempo a reagire a quelli che Michel Serres chiamava i “fuochi e segnali di bruma” emessi dall’avversario. In questa guerra fredda di nuovo tipo, niente più segnali. Niente più codici. Uno sberleffo volgare e permanente all’indirizzo di “messaggi” che si sa non saranno seguiti da alcun effetto e ai quali si decide dunque di non dar alcun peso. Non è forse nel momento stesso in cui Condoleezza Rice era a Tbilisi che Putin, con una sfrontatezza impensabile nel mondo di ieri, ha scelto di avanzare fino a Kaspy, a quaranta chilometri dalla capitale?

3. L’inimmaginabile faccia tosta ideologica di quella gente. Il modo, per esempio, di brandire il “precedente” del Kosovo: come se ci fosse paragone tra il caso di una provincia serba tormentata, martirizzata, distrutta da una purificazione etnica abominevole, e la situazione di un’Ossezia vittima di un “genocidio” che, stando alle ultime notizie (rapporto dell’Human Rights Watch), avrebbe causato… 47 morti! O il modo di rigirare a proprio vantaggio e a quello delle stesse minoranze russofone, che si vorrebbe, di fatto, ricondurre nel girone dell’Impero, l’argomento del “dovere d’ingerenza”: giustificare lo scempio, a Gori e altrove, dell’armata russa e delle sue milizie, in nome di quel grande e bel principio , caro al ministro degli Esteri francese -e non solo- … Bisognava osare! bisognava farlo e pensarci ! ebbene, il signor Putin ha osato… il signor Putin l’ha fatto e l’ha pensato… il signor Putin, medaglia d’oro alle Olimpiadi del capovolgimento del senso e del cinismo…

4. L’inquietante debolezza, di fronte a questo nuovo dispositivo retorico e politico, della diplomazia occidentale, compresa, ahimè, quella francese. Da una grande democrazia ci si aspettava che condannasse e sanzionasse l’aggressore – e che lo facesse senza mezzi termini. Invece si è fatto il contrario. Si è colpito l’aggredito. Si è fatto cedere, non il forte, ma il debole. Come tredici anni fa, a Dayton, quando il bosniaco Izetbegovic dovette firmare, con la morte nell’anima, l’accordo che consacrava lo smembramento del suo paese, il georgiano Saakachvili è stato costretto ad incassare un documento che dai russi stessi è indicato sempre come “documento Medvedev”. Non una parola, in questo documento, sull’integrità territoriale del paese… E le famose “clausole addizionali di sicurezza” che riconoscono all’esercito russo un diritto di stazionamento e di pattugliamento tanto scandaloso nel suo principio quanto nelle sue modalità di applicazione… Il mondo al contrario! Par di sognare”

5. E poi la sconcertante facilità, infine, con la quale le opinioni pubbliche occidentali si sono bevute la tesi avanzata, fin dal primo giorno, dagli apparati di propaganda del Cremlino. Si sa, oggi , che l’armata russa aveva moltiplicato, già prima dell’8 agosto, i preparativi di guerra, si sa che aveva ammassato, alla “frontiera” fra Georgia e Ossezia, una considerevole logistica militare e paramilitare. Si sa che essa aveva metodicamente riparato le ferrovie su cui dovevano passare i treni merci per il trasporto di truppe e si sa che 15 carri avevano attraversato, la mattina dell’8, il tunnel Roky che separa le due Ossezie. Nessuno può ignorare, altrimenti detto, che il presidente Saakachvili si è deciso ad agire solo perché non aveva atra scelta giacché si era già in guerra. Ora, malgrado ciò, malgrado tutti questi fatti che sarebbero dovuti saltare agli occhi di ogni osservatore in buona fede, molti dei nostri media si sono gettati come un sol uomo sulla tesi del Georgiano guerrafondaio, provocatore e irresponsabile. Snervante…

6. Bisognerà tornare su tutto questo. Bisognerà analizzare in seguito i meccanismi di una cecità che, se non facciamo attenzione, potrebbe perpetuare quel “declino del coraggio” denunciato un tempo da Soljenitsyne e che si pensava appartenesse alle epoche andate. Per il momento, sia concesso ad un cronista che si è preso la briga di andare a vedere di persona e di testimoniare, di ripetere qui: "SOS Georgia! SOS Europa! la ragione, non meno che l’onore, ordina di correre, più che mai, in soccorso dell’Europa a Tbilisi.”

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 28.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Cose viste nella Georgia in guerra

1. La prima cosa che colpisce non appena si esce da Tbilisi, è l’inquietante assenza di qualsiasi forza militare. Avevo letto di come l’esercito georgiano, battuto in Ossezia, poi messo in ritirata a Gori, avesse ripiegato sulla capitale per difenderla. Ebbene, giungo nei sobborghi della città. Avanzo di quaranta chilometri sull’autostrada che taglia il paese da est a ovest. E, di questo esercito che si dice si sia concentrato per opporre un’accanita resistenza all’invasione, non si vede quasi traccia. Un posto di polizia, qui. Più lontano, una pattuglia di soldati dalle uniformi troppo nuove. Ma non un’unità combattente. Non un pezzo di difesa antiaerea. Nemmeno quel paesaggio di sbarramenti a gincana che, in tutte le città assediate del mondo, dovrebbero ritardare l’avanzata del nemico. Un dispaccio, mentre viaggiamo, annuncia che i carri armati russi si dirigono verso la capitale. L’informazione, rilanciata dalle radio e, alla fine, smentita, crea enorme disordine e fa sì che rientrino le poche automobili che si erano avventurate fuori dalla città. Ma il potere, lui, sembra aver stranamente abbassato le braccia.

L’esercito georgiano sarà forse presente ma nascosto? Pronto ad intervenire, ma invisibile? Saremo in presenza di una di quelle guerre dove l’astuzia suprema è, come nelle guerre dimenticate d’Africa, quella di apparire il meno possibile? O, anche, il presidente Saakashvili ha scelto di non combattere – come a volerci mettere, noi, Europei e Americani, davanti alle nostre responsabilità e alle nostre scelte (“Dite di esserci amici? Ci avete detto cento volte che con le nostre istituzioni democratiche e con il nostro desiderio di Europa, il nostro governo in cui – fatto unico negli annali- siedono un primo ministro anglo-georgiano, ministri americano-georgiani, un ministro della difesa israelo-georgiano, era il primo della classe in occidente? Ebbene, è giunto il momento, inderogabile, di dimostrarlo”)? Non lo so. Ma il fatto è che la prima presenza militare significativa nella quale ci imbattiamo è un lungo convoglio russo, cento veicoli almeno, giunto tranquillamente a rifornirsi di benzina in direzione di Tbilisi. Poi, a quaranta chilometri dalla città, all’altezza di Okami, un battaglione, sempre russo, appoggiato da un’unità di blindati e il cui ruolo è di impedire il passaggio ai giornalisti in un senso, e ai rifugiati nell’altro.

Tra questi ultimi, un contadino ferito alla fronte, ancora inebetito dal terrore, mi racconta la storia del villaggio, in Ossezia, da cui è fuggito a piedi tre giorni fa. I Russi sono arrivati. Le bande ossete e cosacche hanno, nel loro percorso, saccheggiato, stuprato, assassinato. Hanno, come in Cecenia, raggruppato i ragazzi e li hanno caricati su camion verso destinazioni ignote. Sono stati uccisi i padri davanti ai figli. I figli davanti ai padri. Nelle cantine di una casa fatta saltare con bombole di gas, è stata scoperta una famiglia spogliata di tutto ciò che aveva tentato di nascondere e sono stati messi gli adulti in ginocchio prima di giustiziarli con una pallottola in testa. L’ufficiale russo, responsabile del check point, ascolta. Ma se ne infischia. Ha l’aria, ad ogni modo, di aver bevuto troppo - e se ne infischia. Per lui, la guerra è finita. Nessun pezzo di carta - cessate-il-fuoco, accordo in cinque o sei punti - cambierà nulla della sua vittoria. E quel poveraccio di un rifugiato può dunque raccontare ciò che vuole.

2. Presso Gori, la situazione è differente e diviene, all’improvviso, più tesa. Al bordo della strada, Jeep georgiane nel fossato. Più in là, un carro armato carbonizzato. Più lontano ancora, un check point più importante che blocca, lui, tutto il gruppo di giornalisti cui ci siamo uniti. E, soprattutto, ci viene chiaramente detto, qui, che non siamo più i benvenuti. “Siete in territorio russo, abbaia un ufficiale gonfio di boria e di vodka. Può procedere solo chi è accreditato dalle autorità russe”… Per fortuna sbuca un’auto del corpo diplomatico. È la macchina dell’ambasciatore dell’Estonia. A bordo, oltre all’ambasciatore, il segretario del Consiglio nazionale di sicurezza, Alexander Lomaia, che ha il permesso di andare, dietro alle linee russe, a cercare i feriti, e che mi fa salire, insieme alla deputata europea Isler Beguin e ad una giornalista del Washington Post. “Non assicuro l’incolumità di nessuno, avvisa – chiaro?”. Chiaro. E ci stringiamo nell’Audi, che punta verso Gori.

Dopo altri sei check point, di cui un costituito da un semplice tronco d’albero sollevato e abbassato da un argano e comandato da un gruppo di paramilitari, arriviamo a Gori. Non siamo nel centro della città. Ma, dal punto in cui Lomaia ci ha lasciati prima di ripartire -solo, nell’Audi, per recuperare i feriti-, da questo sobborgo controllato da un carro enorme e alto come un bunker a rotelle, possiamo vedere incendi a perdita d’occhio. La luce dei razzi che, a intervalli regolari, illuminano il cielo e che sono seguiti da brevi detonazioni. Il vuoto ancora. L’odore, lieve, di putrefazione e di morte. E poi, soprattutto, l’incessante rimbombo dei blindati e delle, quasi una volta su due, semplici utilitarie riempite da miliziani riconoscibili per le fasce bianche al braccio e per le bandane attorno ai capelli. Gori non appartiene a quell’Ossezia che i Russi pretendono essere venuti a “liberare”. È una città georgiana. Ed essi l’hanno bruciata. Saccheggiata. Ridotta a città fantasma. Svuotata.

E’ logico, spiega, mentre aspettiamo, in piedi, di notte, nel fetore, il ritorno di Lomaia, il generale Vyachislav Borisov. Siamo qui perché i Georgiani sono degli incapaci, perché la loro amministrazione si è dissolta e perché la città era preda dei saccheggiatori. Guardate qui…” Mi mostra, su un telefono portatile, alcune foto di armi di cui sottolinea pesantemente l’origine israeliana. “Credete che si poteva lasciare questo mercato senza sorveglianza? Peraltro, vi dirò…”Si gonfia in petto. Accende una sigaretta facendo sussultare il piccolo carrista biondo che si era addormentato nella torretta. “Abbiamo convocato, a Mosca, il ministro degli esteri israeliano. E gli è stato detto che, se avesse continuato a rifornire i Georgiani, noi avremmo continuato , noi, ad armare Hezbollah e Hamas.” Avremmo continuato.. Che confessione! Passano due ore. Due ore di spacconate e di minacce. Con, talvolta, una macchina che rallenta ma che, vedendo il carro armato, pare cambiare idea e ripartire veloce. Fino a che ritorna Lomaia che ci affida l’anziana signora e la donna incita strappate all’inferno e che ci incarica di condurre a Tbilisi.

3. Il presidente Saakashvili, affiancato dal suo consigliere Daniel Kunnin, ascolta il mio racconto. Ci troviamo nella residenza presidenziale di Avlabari. Sono le due del mattino, ma la noria dei sui consiglieri funziona come in pieno giorno. È giovane. Molto giovane. Di una giovinezza tradita dall’impazienza dei gesti, dallo sguardo febbrile, dai bruschi scatti di riso o, ancora, da quel modo di tracannare Red Bull come se fosse Coca Cola. Queste persone, del resto, sono tutte giovani. Tutti questi ministri e consiglieri sono borsisti di fondazione tipo Soros la cui “rivoluzione delle rose” ha interrotto gli studi a Yale, Princeton, Chicago. È francofilo e francofono. Appassionato di filosofia. Democratico. Europeo. Liberale nel duplice senso, americano ed europeo, della parola. Di tutti i grandi resistenti incontrati nella mia vita, di tutti i Massud o Izetbegovic dei quali mi è capitato di prendere le difese, è quello più evidentemente estraneo all’universo della guerra, ai suoi riti, ai suoi emblemi, alla sua cultura – ma vi fa fronte.

Mi lasci precisare una cosa, m'interrompe con improvvisa gravità. Non bisogna lasciare che si dica che siamo stati noi a cominciare questa guerra… Siamo al principio di agosto. I miei ministri sono in vacanza. Io stesso sono in Italia per una cura dimagrante e sul punto di partire per Pechino. Ed ecco che, sulla stampa italiana, leggo: Preparativi di guerra in Georgia. Mi ha capito bene: io me ne sto lì, tranquillo, in Italia, e leggo che il mio paese sta preparando una guerra! Sentendo che qualcosa non torna, rientro subito a Tbilisi. E cosa vengo a sapere dai miei servizi informativi?” Fa il gesto di chi ti pone una domanda difficile lasciandoti la possibilità di trovare una buona risposta… “Che i Russi, nel momento stesso in cui riempiono le agenzie di stampa di queste frottole, stanno svuotando Tskhinvali dei suoi abitanti, stanno ammassando truppe, trasporti di truppe, addetti al rifornimento di nafta in territorio georgiano e stanno facendo passare, infine, colonne di carri armati attraverso il tunnel Roky, che separa le due Ossezie. Allora, supponga di essere responsabile di un paese e di apprendere tutto ciò - che fa?” Si alza, va a rispondere ai due portatili che suonano, nello stesso momento, sulla sua scrivania, ritorna, stende le lunghe gambe…"Al centocinquantesimo carro armato posizionato di fronte alle vostre città, si è obbligati ad ammettere che la guerra è cominciata e, malgrado la sproporzione delle forze, non si ha scelta…” Con l’accordo dei vostri alleati, gli domando? Avvertendo i membri di quella Nato la cui porta vi è stata sbattuta in faccia? “Il vero problema, schiva, è la posta in gioco di questa guerra. Putin e Medvedev cercavano un pretesto per invaderci. Perché?” Fa il gesto di contare sulle dita. “Primo, siamo una democrazia ed incarniamo, dunque, riguardo all’uscita dal comunismo, un’alternativa al putinismo. Secondo, siamo il paese per cui passa la Btc, l’oleodotto che collega Baku a Ceyhan passando per Tbilisi; ragion per cui, se noi cadiamo, se Mosca mette al mio posto un impiegato di Gazprom, voi sarete, voi Europei, dipendenti al 100 per cento dai Russi per il vostro approvvigionamento energetico. E poi, terzo…” Sceglie una pesca dal cesto della frutta che il suo assistente –“osseto”, precisa lui – ha appena portato. “Terzo, guardi questa mappa, La Russia è alleata dell’Iran. I nostri vicini armeni non sono molto più lontani dagli Iraniani. Immagini che si installi a Tbilisi un regime filo-russo. Avreste un continuum geostrategico che andrebbe da Mosca a Teheran e che dubito possa convenire al mondo libero. Spero che la Nato comprenda tutto ciò…

4.Venerdì mattina. Decidiamo, con Raphaël Glucksmann, Gilles Hertzog e la deputata europea, di ritornare a Gori che, a seguito dell’accordo di cessate il fuoco redatto da Sarkozy e Medvedev, i Russi avrebbero cominciato ad evacuare e dove noi dovremmo raggiungere il patriarca ortodosso di Tbilisi in partenza, pure lui, per Shrinvali, dove cadaveri georgiani sarebbero abbandonati ai porci e ai cani. Ma il patriarca è introvabile. I Russi non hanno evacuato affatto. E siamo questa volta bloccati a venti chilometri da Gori quando una macchina, davanti a noi, viene presa di mira da una squadra irregolare che, sotto l’occhio placido di un ufficiale russo, fa scendere i giornalisti cui vengono strappati telecamere, denaro, oggetti personali e, alla fine, il veicolo. Falsa notizia, dunque, il solito balletto delle false notizie, arte nella quale gli artefici della propaganda russa sembrano decisamente essere divenuti maestri. Allora, direzione Kaspi, a metà strada tra Gori e Tbilisi, dove l’interprete della deputata ha la propria famiglia e dove la situazione dovrebbe essere più calma – ma, in realtà, ci aspettano due altre sorprese.. Dapprima le distruzioni. Anche qui, distruzioni. Ma distruzioni che, questa volta, non hanno colpito come primi bersagli né case né persone. Cosa allora? Il ponte, la stazione. La ferrovia che una squadra di addetti alla logistica guidati, dalla sua stanza, dal capo meccanico gravemente ferito all’anca, sta già rimettendo in sesto. Anche il sistema di comando elettronico del cementificio Heidelberg, a capitali tedeschi, è stato colpito da un missile a guida laser. “C’erano 650 operai, mi dice il direttore della fabbrica, Levan Baramatze. Solo 120 sono potuti venire oggi. Il nostro apparato produttivo è a pezzi.” A Poti, i Russi hanno affondato la marina di guerra georgiana. In tre punti, hanno colpito l’oleodotto BTC. Qui, a Kaspi, hanno colpito, deliberatamente, i centri vitali di una economia da cui dipende, indirettamente, quella della regione e del paese. Terrorismo mirato. Volontà, di nuovo, di mettere il paese in ginocchio.

E poi, seconda sorpresa, i carri armati. Siamo, lo ripeto, alle porte della capitale. Condoleezza Rice [segretario di Stato degli Stati Uniti, lo preciso], sta tenendo, in questo momento, una conferenza stampa. Ed ecco che appare, all’improvviso, volando a bassa quota sopra gli alberi, uno di quegli elicotteri da combattimento il cui arrivo indica sempre il peggio. E, subito dopo, quelli che restano degli abitanti di Kaspi si ritrovano in strada, davanti alle soglie delle case per essere presto imbarcati, a gruppi di dieci, sulle vecchie Lada – tutti urlano a chi vuole ascoltare e, in particolare, al nostro autista, che stanno arrivando i Russi e che bisogna scappare. Dapprima, non ci crediamo. Pensiamo: la stessa voce infondata dell’altro ieri. Ma ci sbagliamo. I carri armati sono proprio lì. Cinque, per la precisione. Più un’unità del genio che comincia a scavare trincee. Il messaggio è chiaro. Rice o no, qui i Russi sono a casa loro. Si piazzano, in Georgia, come su terra di conquista. Non è esattamente come l’invasione di Praga. È la sua versione XXI° secolo – lenta, a piccole mosse, a colpi di umiliazioni, intimidazioni, parate e panico…

5. L’incontro ha luogo, questa volta, alle 4 del mattino. Saakashvili ha trascorso la fine della giornata con la Rice. La vigilia con Sarkozy. All’una come all’altro è grato dei loro sforzi, della pena che si sono dati così come dell’amicizia di cui niente e nessuno lo farà dubitare – non si dà forse del tu con “Nicolas”? e il candidato McCain, “vicino a Madame Rice”, non gli telefona, dacché la crisi ha avuto inizio, tre volte al giorno? Ma riscontro sul suo viso, tuttavia, un’aria malinconia che non aveva la prima sera. La fatica, forse… Le notti senza sonno… Le continue sconfitte.. Il brontolio anche , che sente montare nel paese e che noi siamo obbligati, ahimè, a confermargli: “E se Misha non fosse in grado di proteggerci? E se questo ardente giovane presidente non attirasse su di noi che fulmini di guerra? E se, per sopravvivere, bisognasse passare per le ambizioni di Putin e per il fantoccio che tiene nella manica?” C’è tutto questo, sì, senza dubbio, nella melanconia del presidente, più un’altra cosa – più torbida e che attiene, come dire?, allo strano comportamento dei suoi amici.. L’accordo di cessate il fuoco, per esempio, ottenuto dall’amico Sarkozy e redatto, a Mosca, a quattro mani, con Medvedev. Rivede il presidente francese, lì, in quello stesso ufficio, così impaziente di vederlo firmare. Lo sente alzare il tono della voce, quasi gridare: “Non hai scelta Misha; sii realista, non hai scelta; quando i Russi arriveranno per destituirti, nessuno dei tuoi amici, nessuno, alzerà un dito per salvarti”. E che strana reazione, infine, quando lui, Misha Saakashvili, aveva ottenuto che venisse chiamato comunque Medvedev; e Medvedev aveva fatto rispondere che stava dormendo – non erano che le 21, ma lui dormiva, ed era irraggiungibile fino all’indomani mattina alle 9: anche lì il presidente francese si è infuriato; l’amico francese, nemmeno quella volta, ha voluto attendere; fretta di rientrare? Troppo sicuro che l’essenziale fosse firmare, non importa cosa ma firmare? Non è così, pensa Misha, che si negozia. Non è così che ci si comporta con gli amici.

Ho visto quel documento. Ho visto le annotazioni scritte di pugno dai due presidenti, dapprima da quello georgiano, e poi da quello francese. Ho visto il secondo documento, sempre firmato da Sarkozy e affidato a Condi Rice, a Brégançon, perché lo consegnasse a Saakashvili. E ho visto, infine, il memorandum di note redatto, in serata, da parte georgiana e da questa giudicato vitale.

La Rice ha ottenuto – e non è un dettaglio- che fosse tolta ogni allusione al futuro “statuto” futuro dell’Ossezia. Ha ottenuto – non è trascurabile- che fosse precisato che il “perimetro ragionevole” all’interno del quale le truppe russe erano autorizzate, nel primo documento, a continuare il pattugliamento per garantire la sicurezza dei russofoni della Georgia divenisse un perimetro di “qualche chilometro”. Ma, dell’integrità territoriale della Georgia, non si parla in nessun documento. E quanto all’argomento del legittimo aiuto portato ai russofoni, c’è da tremare all’idea dell’uso che ne sarà fatto quando saranno i russofoni dell’Ucraina, dei paesi baltici o della Polonia a sentirsi minacciati, a loro volta, da una volontà “genocida”… E’ l’Americano Richard Holbrooke, diplomatico di grosso calibro e vicino a Barak Obama, ritrovato, sul finire della notte, al bar del nostro comune hotel, ad avere l’ultima parola: “Aleggia, in questa vicenda, un cattivo odore di appeasement e di spirito di Monaco.” Eh sì. O siamo capaci di alzare veramente la voce e di dire, in Georgia, basta a Putin. Oppure l’uomo che è andato , secondo le sue stesse parole, “ad inseguire fin nei cessi” i civili della Cecenia si sentirà in diritto di fare la stessa cosa con qualsiasi altro suo vicino. Ed è così che di devono costruire l’Europa, la pace e il mondo di domani?

Bernard-Henri Lévy, Le Monde, 19.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

SOS Georgia? SOS Europa!

Non crediate si tratti solo di una faccenda locale: si tratta probabilmente della svolta più decisiva nella storia europea dalla caduta del muro di Berlino. Ascoltate Mosca gridare: “genocidio!”, come accusa Putin che questa parola, però, non si è degnato di pronunciarla in occasione del 50° anniversario di Auschwitz; - e “Monaco!”, come invoca il tenero Medvedev, volendo insinuare che la Georgia, con i suoi 4,5 milioni di abitanti, sia la reincarnazione del Terzo Reich. Ci guarderemo dal sottovalutare le capacità mentali di tali dirigenti. Ma riteniamo che fingendo indignazione, essi non manifestino che la volontà di infliggere un duro colpo. E’ evidente che gli spin doctors del Cremlino abbiano ripassato i classici della propaganda totalitaria: più è grossa la mia menzogna, più sono convincente - e più serro colpi decisivi.

Chi ha sparato, questa settimana, per primo? La domanda non conta più nulla. I Georgiani si sono ritirati dall’Ossezia del Sud, territorio che la legge internazionale pone, non dimentichiamocelo, sotto la loro giurisdizione. Si sono ritirati dalle città vicine. Dovrebbero ritirarsi pure dalla loro capitale? La verità è che l’intervento dell’esercito russo fuori dai suoi confini, contro un paese indipendente membro dell’ONU, è una novità, dall’invasione dell’Afghanistan in poi. Nel 1989, Gorbaciov aveva rifiutato di inviare i carri armati sovietici contro la Polonia di Solidarnosc. Eltsin si è ben guardato, cinque anni dopo, dal permettere alle divisioni russe di entrare in Jugoslavia per sostenere Milosevic. Lo stesso Putin non ha rischiato di mobilitare le sue truppe contro la “rivoluzione delle Rose” (Georgia, 2002) ed in seguito contro la “rivoluzione arancione” (Ucraina, 2004). Oggi, tutto traballa. Ed è un mondo nuovo, con nuove regole, quello che si profila sotto i nostri occhi.

Cosa aspettano l’Unione europea e gli Stati Uniti per bloccare l’invasione della Georgia, loro amica? Vedremo Mikhail Saakashvili, leader filo-occidentale, democraticamente eletto, silurato, esiliato, rimpiazzato da un fantoccio, o appeso ad un cappio? L’ordine sarà ristabilito a Tbilisi così come venne ristabilito a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968? A queste semplici domande , una risposta, una sola, s’impone. Si tratta di salvare una democrazia minacciata di morte. Perché non si tratta solo della Georgia. Ma anche dell’Ucraina, dell’Azerbaigian, dell’Asia centrale, dell’Europa dell’Est, e dunque dell’Europa. Se permettiamo che i carri armati e i bombardieri distruggano la Georgia, è come se noi dicessimo a tutti i paesi più o meno vicini alla Grande Russia che mai noi li difenderemo, che le nostre promesse sono carta straccia, i nostri buoni propositi parole al vento e che da noi nulla devono aspettarsi.

Rimane poco tempo. Cominciamo dunque col denunciare chiaramente chi è l’aggressore: la Russia di Putin e di Medvedev, il fantomatico sconosciuto “liberale” che si ritiene dovrebbe ponderare il nazionalismo del primo. Rompiamo, dunque, con il regime della tergiversazione e delle lucciole prese per lanterne: i 200 000 ceceni uccisi -dei “terroristi”; la sorte del Caucaso del Nord - una “questione interna”; Anna Politkovskaya - una “suicida”; Litvinenko - un “E.T.”… E ammettiamolo infine che l’autocrazia putiniana, nata grazie agli oscuri attentati che insanguinarono Mosca nel 1999, non è un partner affidabile, ancor meno una potenza amica. In virtù di quale diritto questa Russia, aggressiva e in cattiva fede, è ancora membro del G8? Perché siede al Consiglio d’Europa, istituzione votata a difendere i valori del nostro continente? A che pro mantenere onerosi investimenti, soprattutto tedeschi, per il gasdotto sotto il Baltico con il solo vantaggio –russo- di mettere in corto circuito le condutture che passano dall’Ucraina e dalla Polonia? Se il Cremlino insiste con la sua aggressione nel Caucaso, non sarebbe opportuno che l’Europa riconsiderasse l’insieme delle sue relazioni con il grande vicino? Vicino che ha bisogno di vendere il suo petrolio, come noi di acquistarlo. Non è sempre impossibile ricattare un ricattatore. L’Europa, se trova l’audacia e la lucidità per lanciare la sfida, è forte. Altrimenti, è morta.

I due firmatari di questo articolo imploravano pubblicamente, in una lettera datata 29 marzo, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy di non ostacolare l’avvicinamento della Georgia e dell’Ucraina alla Nato. Una decisione positiva, scrivevamo, “tutelerebbe i due territori, quello georgiano e quello ucraino. Il gas continuerebbe ad arrivare. E la logica di guerra, che spaventa i Norpois, presto si incepperebbe. In caso contrario, siamo convinti che il nostro rifiuto lancerebbe un segnale disastroso ai nuovi zar della Russia nazionale e capitalista. Mostrerebbe loro che siamo deboli ed inetti, che la Georgia e l’Ucraina sono terre di conquista e che siamo disposti ad immolarle di buon cuore sull’altare delle rinnovate ambizioni imperiali russe. Non integrare o, meglio, non preoccuparsi di integrare questi paesi nello spazio della civiltà europea destabilizzerebbe la regione. In breve, è cedendo a Vladimir Putin, è sacrificandogli i nostri principi, è dichiarando forfait senza aver prima provato nulla, che noi rinforzeremo , a Mosca, il più aggressivo nazionalismo”. Era un considerare il peggio, senza volerci credere troppo. Me il peggio si è verificato. Per non disturbare Mosca, la Francia e la Germania hanno posto il loro veto a questa prospettiva di integrazione. Putin ha recepito così bene il messaggio che ha lanciato la sua offensiva a mo’ di ringraziamento.

È giunto il momento di cambiare metodo. Gli europei hanno assistito, impotenti perché divisi, all’assedio di Sarajevo. Hanno visto consumarsi, impotenti perché ciechi, la tragedia di Grozny. La viltà ci obbigherà, questa volta, a contemplare, passivi e prostrati, la capitolazione della democrazia a Tbilisi? Lo stato maggiore del Cremlino non ha mai creduto nell’esistenza di una “Unione europea”. Esso confida che, sotto le belle parole di Bruxelles, brulichino rivalità secolari tra sovranità nazionali, manovrabili a piacere e reciprocamente paralizzanti. Quello georgiano vale come test di esistenza o non esistenza: l’Europa così come la si è edificata contro la cortina di ferro, contro i fascismi, vecchi e nuovi, contro le sue stesse guerre coloniali, l’Europa che ha festeggiato la caduta del muro di Berlino e salutato le rivoluzioni di velluto, si ritrova sul bordo del coma. 1945-2008… Vedremo suggellarsi nel Caucaso, nelle olimpiadi dell’orrore, la fine della nostra breve storia comune?

André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, Libération, 14.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Nessuna licenza di razzismo per gli umoristi (Di cosa Siné è il nome?)

Davvero bizzarra, però, questa faccenda.

Ecco un umorista –Siné- che consegna al suo giornale una cronaca in cui dice, in sostanza, che la conversione all’ebraismo è, nella Francia di Sarkozy, uno strumento di scalata sociale e che, lui, preferisce “una musulmana in chador” ad una “ebrea rasata” (sic).

Ecco un direttore -Philippe Val- rammentare al cronista il patto fondatore (ovvero, per Charlie Hebdo, il loro giornale, il rifiuto categorico di ogni forma di antisemitismo o di razzismo) e chiedergli, di conseguenza, di scusarsi o di andarsene.

Ed ecco la blogosfera, e poi la stampa, trasformare, in base ad uno sbalorditivo ribaltamento dei ruoli, la questione Siné nella questione Val e, invece di analizzare e stigmatizzare la deriva del primo, non interessarsi più, all’improvviso, che alle “vere” ragioni, per forza di cose nascoste, necessariamente oscure e ambigue, che avrebbero spinto il secondo, notorio volteriano, apostolo dichiarato della libertà di critica e di pensiero, difensore in particolare dei caricaturisti di Maometto, a reagire, questa volta, da censore occulto (la mano della “lobby”? quella di Sarkozy stesso? un regolamento di conti inconfessato e di cui l’umorista farebbe le spese? si è supposto di tutto, fino alla nausea…)

A fronte di un livello tanto alto di confusione corre obbligo operare alcune puntualizzazioni e, sine ira et studio, senza collera né entusiasmo, richiamare i semplici princìpi che, in questa disputa, si ha tendenza a perdere di vista.

1. Una cosa è la critica volteriana delle religioni, di ogni religione –sana, benvenuta, utile a tutti e, in particolare, forse, ai credenti stessi. Il razzismo, l’antisemitismo, sono un’altra cosa– odiosa, ingiustificabile, letale per tutti, e che in nessun caso dovrebbe essere confusa con la prima.

La distinzione non era così netta in Voltaire - razzista ed antisemita, come tutti sanno. Lo è dopo Voltaire, presso i suoi migliori eredi, e, in particolare, nel giornale di Philippe Val. I veri Lumi? I Lumi del nostro tempo? Criticare i dogmi, non le persone.

Prendersela con il curato, il rabbino, l’imam – mai con l’ “Ebreo” o con l’ “Arabo”. Essere solidali, certo, con i caricaturisti che si fanno beffe del fanatismo e lo denunciano – ma non cedere, fosse anche con il pretesto della satira, nemmeno al minimo atteggiamento di compiacenza nei confronti delle anime glauche che vanno a rimestare in storie di sangue, di DNA, di geni dei popoli, di razza. È una linea di demarcazione. Cioè, letteralmente, un principio critico. Il pensiero critico sta, propriamente, proprio nello stretto rispetto di questa linea.

2. La questione non è di sapere se un tale o un tal altro – in questo caso Siné- “sia” o “non sia” antisemita. E sono una fesseria i brevetti di moralità che pensano bene di rilasciargli quelli che, come un tempo per Dieudonné o, ancora prima, per Le Pen, dicono di conoscerlo “da molto” e di sapere “da fonte attendibile” che l’antisemitismo gli è estraneo.

Ciò che conta sono le parole. E ciò che conta, al di là delle parole, è la storia, la memoria, l’immaginario che esse veicolano e da cui questi sono ossessionati. Dietro quelle parole un orecchio francese non poteva non udire l’eco del più fetido antisemitismo.

Dietro l’immagine di un giudaismo onnipotente cui un Rastignac contemporaneo spetterebbe dar prova di fedeltà, un orecchio francese non poteva non riconoscere l’ombra del nostro primo best-seller antisemita nazionale: “Gli Ebrei, re dell’epoca”, di Alphonse Toussenel (1845). È così. Non è questione di psicologia, ma di acustica, dunque di fisica, di meccanica,

E quando si è al cospetto di tutto ciò, quando si vede un vecchio umorista –che, in effetti, non sa davvero quel che dice- manipolare connessioni di significati che hanno sempre, ovunque, con implacabile regolarità, incendiato gli spiriti, il corretto atteggiamento non è quello di minimizzare, razionalizzare, discutere a perdita d’occhio sui dosaggi rispettivi, nell’enunciato incriminato, del veleno dell’odio e dell’eccipiente genuinamente dissacrante- bensì quello di attivare subito, senza attendere, ciò che Walter Benjamin chiamava “segnalatori d’incendio”.

3. L’antisemitismo –come, naturalmente, il razzismo- è un delitto cui non sono concesse né circostanze attenuanti né scuse. Il che dovrebbe andare da sé. Purtroppo, non in questo caso. Poiché c’è almeno una giustificazione che, dall’affare Dreyfus in poi, pare funzionare sempre e instaurare una sorta di clausola dell’odio autorizzata.

E’ quella che consiste nel dire: no all’antisemitismo, salvo che si tratti di un borghese di un certo peso, ufficiale superiore dell’armata francese. O: no all’antisemitismo salvo che non si tratti di un simbolo del Grande Capitale, un banchiere ebreo, un plutocrate, un Rothschild. O: no all’antisemitismo, peste dei tempi messa a terra dal progressismo – a meno che non possa mettersi su i vestiti nuovi di un antisarkozysmo che, anch’esso, non si sofferma sui dettagli ed è pronto a tutto pur di aver la meglio.

Così parlava Alain Badiou quando, in un recente libro, Sarkozy: di che cosa è il nome?, si sentiva autorizzato, in virtù di una legittima lotta contro l’“immondo” a reintrodurre nel lessico politico le metafore zoologiche (“i topi”… “l’uomo dei topi”…) che Sartre nella prefazione ai Dannati della terra aveva dimostrato essere sempre, senza appello, segni di fascismo.

E così pensano, oggi, non solo gli “amici” di Siné che fanno petizioni in suo favore, ma tutti coloro che, con il pretesto che il Rastignac di turno era lo stesso figlio del Presidente disprezzato, sono come immobilizzati e impossibilitati ad indignarsi – vecchio rimasuglio dell’antidreyfusismo; ultima perla abbandonata dall’ostrica di un guesdismo la cui dottrina insegnava come esista un buon uso, sì, delle peggiori malattie dello spirito; che miseria.

4. Se c’è un argomento che si prova vergogna a dover ancora ascoltare dalla bocca di coloro che ritengono sia stato fatto a Siné un cattivo processo, è questo: “Siné è un vecchio libertario, un anarchico attardato, un ribelle – come potrebbe un uomo così attingere da quel sudiciume? come ci si può permettere di confondere la sua rivolta a tutto campo con quella passione mirata che è il furore antisemita?

Ebbene allora. Questo argomento è penoso perché ignora tutte le ambiguità di una tradizione una cui specialità è sempre stata, appunto, di passare dalla rabbia a tutto campo alla sua concentrazione antisemita: gli anarco-sindacalisti di inizio XX° secolo; i partigiani dell’azione diretta che proponevano, settant’anni dopo, di “gettare” gli “Ebrei nel “letame dell’Europa” (Ulrike Meinhoff, dirigente della Banda Baader)…

Questo argomento è penoso perché si comporta, o fa finta di comportarsi, come se lo spirito di rivolta, il non-conformismo, fossero un imparabile vaccino contro quelle tentazioni funeste: il che è fare buon mercato della corrente detta, precisamente, dei “non-conformisti degli anni 1930” e dell’energia dispiegata per fornire all’antisemitismo del suo tempo le sue armi e i suoi motivi (conviene, sull’argomento, leggere e rileggere il classico di Jean-Louis Loubet del Bayle)…

Questo argomento è privo di senso, infine, poiché lascia supporre che un uomo di sinistra, un progressista, sarebbe immunizzato, per natura, contro il peggio: mentre sappiamo che se questo peggio avesse una virtù sarebbe quella di confondere, polverizzare questo tipo di frontiera e di provocare, da sinistra a destra, un rincorrersi semantico permanente, vertiginoso, terribile (dalle famose “sezioni beefsteak”, brune fuori, rosse dentro, nate dall’innesto comunista nelle organizzazioni di massa hitleriane, fino al riciclaggio, da parte dell’islamo-gauchismo di oggi, dei ritornelli dell’estrema destra - gli esempi, ahimè, abbondano)…

5. Un’ultimissima parola. Bisognerebbe, mormora l’opinione pubblica, far attenzione a non cadere nel conformismo del politicamente corretto, ovvero di una polizia del pensiero e dell’umorismo il cui solo effetto sarebbe di impedire agli umoristi di esercitare il libero diritto a farsi beffe di tutto e di tutti. Va bene. Salvo che, pure qui, ci si deve intendere. E osare, soprattutto, porre la domanda. E se “politicamente corretto” fosse anche il predicato di un discorso e, in questo caso , di un umorismo, che vieterebbe a se stesso il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’assassinio?

E se la volontà di ridere di tutto e di tutti, tranquillamente, senza ostacoli, esprimesse proprio la nostalgia dell’epoca andata dello scherzo all’antica, grasso, salace, quando nessuno veniva a farvi noie se vi assaliva la voglia di prendervela con i “raton” (gli arabi, ndt) , gli “youpin” (gli ebrei), i “pédé” (gli omosessuali) , le donne?

E se fossero proprio cambiati i tempi e spettasse agli umoristi, non meno che agli scrittori, agli artisti, prendere atto del cambiamento ammettendo che oggi non si ride più né delle stesse cose, né nello stesso modo del 1930 o del 1950?

Dai, Siné. Hai ancora scelta. O la ripetizione, lo stereotipo, lo stesso eterno ritorno di quell’umorismo da cabaret che nemmeno a te fa più ridere, ne sono sicuro – meccanica applicata ai vivi, ignominia accoppiata al cliché, rimbambimento assicurato. Oppure cambiare disco, inventare, liberarti e fare della tua ironia l’avventura di una libertà ritrovata e regolata alle libertà del giorno – giovinezza a volontà, talento, modernità.

Non penso che la si sia “fatta troppo grossa” con questa faccenda Siné. Per quanto piccola possa sembrare, è una di quelle “secrezioni del tempo” che Michel Foucault diceva non aver eguali quando si tratta di riflettere ed indagare lo spirito e il malessere di un’epoca.

Bernard-Henri Lévy, Le Monde, 22 luglio 2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Risposta a chi dubita della probabile elezione di Obama

Ancora negli Stati Uniti. Starò qui per parte dell’estate e dell’autunno. Con lo sguardo fisso, come tutti, sull’elezione per eccellenza, quella da cui dipende il futuro, non solo dell’America, ma del pianeta.

Leggo le reazioni, stranamente numerose, che ha suscitato, nella corrispondenza al giornale, sulla rete, nella blogosfera, il mio ultimo bloc-notes dove annunciavo la prevedibile vittoria di Barack Obama.

E poiché, evidentemente, non sono stato compreso; poiché, immagino, mi sono espresso male, e siccome i lettori europei sembrano avere, per di più, vere difficoltà a cogliere l’originalità, la singolarità e, per farla breve, la particolarità dello scrutinio statunitense, ricomincio.

L’elezione presidenziale americana è un’elezione a suffragio universale, naturalmente.

Ma non è un’elezione nella quale, come per esempio in Francia, ciascuno dei due candidati fa campagna in tutto il paese e somma, alla fine, i voti raccolti.

Si vota in ogni Stato.

Ci sono cinquanta diverse elezioni che si terranno il 4 novembre e la cui posta in gioco sarà il pacchetto di “grandi elettori”, in quota PD o PR, che ciascuno dei cinquanta Stati invierà al collegio elettorale, collegio che, un mese più tardi, eleggerà il presidente.

Ora, prima originalità decisiva: ogni Stato dispone di un numero di grandi elettori uguale al numero dei suoi senatori (due per Stato, quale che sia la sua dimensione) aumentato dal numero dei membri inviati alla Camera dei rappresentanti (e che dipende, questo, invece, dal peso demografico – con uno scarto qui considerevole tra uno Stato molto popolato che, come la California, vede cinquantatré grandi elettori aggiungersi ai primi due e altri Stati molto vasti ma poco popolati che, come il Wyoming, il Nebraska, o l’Alaska, ne avranno solo uno in più).

E seconda particolarità, anche lei decisiva ma con la quale gli osservatori europei hanno, mi pare, poca dimestichezza: qualunque sia il punteggio ottenuto in ognuno dei cinquanta Stati (più il Distretto di Washington, che invierà, lui, tre grandi elettori supplementari), che vinca a stretta o larga maggioranza, che raggiunga l’80, il 60 o il 51 percento dei suffragi, il vincitore si arrafferà, in ogni caso, in virtù del cosiddetto principio del “winner take all”, la totalità dei “punti”, cioè dei “grandi elettori” attribuiti ad ogni Stato.

Conseguenza: ci sono Stati così vasti ma che pesano talmente poco sulla bilancia (i tre delegati del Wyoming o di ciascuno dei due Dakotas; i quattro del Maine, dell’Idaho o delle lontane Hawaii) che nessun candidato correrà il rischio di perderci tempo e denaro dieci volte più produttivi in quegli Stati che, come l’Ohio, la Pennsylvania o lo Stato di New York si percorrono velocemente e “fruttano”, rispettivamente, 20, 21 e 31 delegati.

Conseguenza: ci sono grandi Stati, procacciatori di un gran numero di grandi elettori, ma così saldamente ancorati, per tradizione, ad un campo o all’altro (il Texas, l’Arizona o la Carolina del Nord per i repubblicani; la California, l’Illinois o lo Stato di New York per i democratici) che, anche qui, non ci si va a perdere tempo e denaro al solo scopo di passare da un quasi assicurato 51 percento a un 55 o 60 percento che non cambierà nulla, lo ripeto, poiché la totalità dei grandi elettori sarebbe comunque assicurata.

Conseguenza, infine: la battaglia, tutta la battaglia, si concentrerà su un ristrettissimo numero di Stati chiamati “swing states”, ovvero “Stati in bilico”, e che votano in funzione di considerazioni locali, se non ultralocali, che nulla hanno a che vedere con le grandi questioni internazionali, o anche nazionali, su cui si polarizzano i commentatori – la chiusura di una miniera in una cittadina dell’Ohio; le sovvenzioni al mais nell’Iowa; un gesto che vada incontro agli esiliati cubani di Miami, sufficiente ad assicurare i ventisette grandi elettori della Florida; paradosso di una elezione “mondiale” che si disputa, per ragioni strutturali, come una serie di “cantonali”…

Insomma, se penso che Obama vincerà, è per il suo carisma, certo.

È per la magnifica speranza che ha saputo infondere nell’insieme del paese, sicuro.

Ma è anche perché sto ascoltando ciò che sta dicendo agli elettori del Minnesota; vedo come si rivolge alle vittime delle inondazioni dell’Iowa o agli Ispanici del Nevada; osservo come riesce ad omaggiare le Chiese bianche senza snervare le Chiese nere; come, nelle città difficili della regione dei Laghi, guadagna consenso tra i metallurgici senza cedere alle sirene di un protezionismo che gli alienerebbe gli Stati confinanti con il Messico; o ancora come – e l’esercizio da funambolo si fa, all’improvviso, problematico- sostiene, in Luisiana, i partigiani della pena di morte per chi stupra i bambini, ma a mezza voce, sul filo delle labbra, non volendo urtare gli abolizionisti del New Hampshire; Barack Obama sarà eletto anche perché è il più scaltro dei grandi politici prodotti, da molto tempo a questo parte, dall’America.

È la mia analisi e la mia scommessa. È così che vedo, da ciò che conosco, il più lirico e il più prammatico, il più entusiasmante e il più machiavelliano, dei riformatori americani dopo Kennedy. Appuntamento il 4 novembre. Su queste colonne.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 10.07.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Perché scommetto sulla vittoria di Barack Obama

Sicuro, ci sono delle incognite.

Il personaggio McCain, innanzitutto, che sarebbe un errore sottovalutare: un uomo rimarchevole; spiazzante con il suo rifiuto della tortura o di Guantanamo; audace nel combattere la politica fiscale delle due amministrazioni Bush: il democratico John Kerry non aveva forse pensato, ad un certo punto, di poter fare il ticket con questo conservatore fuori dagli schemi?

Quella specialità americana e, in particolare, repubblicana, inoltre, chiamata "junk politic", e di cui nessuno può predire gli effetti devastanti: a quando l’inizio dei colpi bassi? su quale sito internet i primi fotomontaggi del candidato rappresentato come un islamista radicale? quanti nuovi pastori Jeremiah Wright si vedranno uscire dalla selva di quelle terribili "associazioni 527" che permettono, al margine dei partiti, e senza che la responsabilità morale e finanziaria di questi sia messa in campo, di lanciare ogni tipo di campagna diffamatoria?

E poi c’è l’incognita, infine, di un modo di scrutinio senza uguali, ahimè, nel raffreddare gli slanci lirici: considerate che l’obiettivo dell’elezione è di aggiudicarsi, in ognuno dei cinquanta Stati, i delegati che, riuniti, andranno poi ad eleggere il presidente; considerate che non c’è, in questi Stati, alcuna differenza tra vincere per un soffio o con una schiacciante maggioranza, poiché ci si accaparrerà, in entrambi i casi, la totalità dei delegati; aggiungete che, nei due terzi dei suddetti Stati, la tradizione, come i sondaggi, indica che i giochi sono già fatti e che muovere battaglia non servirà a nulla; la logica conclusione di tutto ciò è che la campagna si concentrerà su 15, 18, forse questa volta 20, "swing states", altrimenti detti "Stati in bilico", dove si tratterà di spostare poche migliaia di voti; e la conclusione di questa conclusione è che il dibattito tenderà a concentrarsi su questioni locali, sovente infime, ben distanti, in ogni caso, dagli entusiasmi "macropolitici" che danno, a distanza, per effetto della lente d’ingrandimento mediatica, la sensazione di una Obamania irresistibile.

Restano, prese queste precauzioni, tre buone ragioni per credere nella vittoria del senatore dell’Illinois.

1. L’America è cambiata. È l’ultraconservatore Huntington a notarlo, nel suo ultimo libro, "La nuova America": l’America non è più quel paese protestante, anglosassone, europeo per tradizione e bianco per vocazione, che non poteva immaginare di vedere, un giorno, un Nero lanciarsi, seriamente, nella corsa alla Casa Bianca. I due mandati di Bush? Il viraggio ultradestroide del paese dopo l’11 Settembre? Le campagne degli avversari dell’aborto o dei sostenitori del creazionismo anti-Darwin? Ci si può vedere, certo, una tendenza forte, un movimento di fondo. Ci si può anche vedere –è il mio caso- il soprassalto, l’ultima lotta prima della resa, il movimento disperato di un’America che sa di star morendo ma che ritarda, finché può, l’ora in cui dovrà prenderne atto e rendere le armi.

2. Obama non è un Nero ordinario. Non è "solo" meticcio. Ma, contrariamente a un Jesse Jackson o a un Al Sharpton, contrariamente a una Condi Rice, come loro discendente degli schiavi e portatrice, dunque, a questo titolo, della memoria della segregazione, Obama è nato, lui, da padre keniota. La differenza è enorme. Perché lo specchio che tende all’America non è più quello di quei tempi bui. L’immagine che le rinvia di se stessa non è più quella di una colpevolezza ancestrale e, in fondo, insopportabile. Barack Obama può vincere perché è il primo Afro-Americano a compiere, grazie alle sue origini, un passo fuori dai ranghi di ciò che qui viene chiamata "guerra civile" – è il primo che possa giocare la carta, non della condanna, ovvero della dannazione, ma della seduzione e, come lo stesso Obama ripete senza sosta, della riconciliazione.

3. E’ uno che vale, non voglio solo dire che è il più carismatico (di ciò, nessuno dubita), ma il più dotato dei politici prodotti dalla macchina democratica da molto tempo. Appuntamento a Denver (Colorado), swing state per eccellenza, dove venderà caro, in agosto, il fatto di aver scelto questo Stato, e non un altro, come teatro della sua consacrazione. Appuntamento in Florida, altro Stato in bilico, dove è già in campagna contro la prospettiva, imprudentemente incoraggiata dal suo rivale, di trivellazioni petrolifere offshore. Ascoltatelo, nel Nevada, come riesce a trovare le parole che toccano la giuste corde di quei patrioti di prima, seconda generazione che sono gli Ispanici. Per non parlare di quella grande novità di attribuire ad un comitato speciale (e presieduto, scusate se è poco, dall’ultimo dei Kennedy!) la responsabilità della scelta del futuro vice-presidente: il governatore del Nuovo Messico? il senatore Jim Webb, veterano del Vietnam? il governatore Strickland, a mo’ di strizzatina d’occhio ai blu collars? Bill Ritter, per i cattolici? c’è, nel principio stesso di questo bilanciamento politico dato in spettacolo all’America intera, il più abile, il più astuto e, alla fine, il più redditizio dei tributi pagati all’inevitabile bizzarria del suo sistema elettorale.

Sono stato uno dei primi a prendere atto, su queste colonne, quattro anni fa, dopo averlo ascoltato, poi incontrato, a Boston, dell’apparizione della meteora Obama. Possa io non sbagliarmi nemmeno oggi annunciando che egli avrà, ormai molto presto, il viso degli Stati Uniti. In ogni caso, ci metto la firma.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 3.07.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Sarajevo, mon amour. Saluti a P.P. d’Arvor. Di cosa soffre, veramente, l’Europa?

Di nuovo a Sarajevo. Come ogni anno, o quasi, da quindici anni, ritorno in questa città che amo e dove conservo tanti ricordi. Il centro André-Malraux ha avuto la felice idea di lanciare, attraverso la stampa, una sorta di ricerca di testimoni per trovare i superstiti del film (“Bosna!”) che, con Alain Ferrari e Gilles Hertzog, abbiamo girato nel pieno dell’assedio e della guerra. Ci sono tutti – comandanti e semplici combattenti, conosciuti in una trincea e in seguito più rivisti; insorti della prima ora, tra i quali Jovan Divjak ed Haris Siladzic, divenuti, rispettivamente, direttore di una fondazione per orfani di guerra e presidente della Repubblica; il mio amico Samir Landzo; il consigliere del vecchio presidente Izetbegovic, oggi ambasciatore in India, Kemal Muftic; o ancora lo sconosciuto soldato che posava, di schiena, sulla locandina del film e di cui non conoscevo il viso. Commuove ritrovarli tutti – e pure loro appaiono commossi- a questo appuntamento di fedeltà, di amicizia, di memoria. Hanno avuto destini divergenti. Hanno, sull’avvenire del loro paese, opinioni per forza di cose differenti. Ma sembrano felici di ritrovarsi. Felici di evocare, insieme, quel passato di sofferenza e di resistenza. E tutti convengono, in compenso, su un’analisi che condivido: lo scandalo che sarebbe se l’Europa, che li ha lasciati morire, li tradisse una seconda volta chiudendo loro le porte dell’Unione. Hanno ragione. Hanno addirittura più ragione di quanto credano. Perché i valori della Bosnia erano i valori dell’Europa. Motivo per cui , se la Bosnia ha bisogno dell’Europa, l’Europa ha, pure lei, per questa stessa ragione, un bisogno vitale della Bosnia.

A Parigi, il giorno del mio ritorno, la stampa è tutto un parlare sull’evizione, da parte della nuova direzione di TF1, di Patrick Poivre d’Arvor. Ho orrore delle visioni complottistiche e paranoiche del mondo. E diffido, dunque, per principio, del discorso in auge su quella bestia cattiva di Sarkozy, padrone segreto di tutti i media di Francia e di Navarra. Ma in questo caso, francamente… A chi si può far credere che il potere non c’entra nulla con l’esautorazione di un giornalista di cui il presidente della Repubblica stesso ha più volte dimostrato, con parole velate ma pubblicamente, di non apprezzare la causticità e l’insolenza? Chi si vuol prendere in giro quando ci viene spiegato che è una logica industriale, capite bene: in-du-stri-a-le, che ha costretto il canale televisivo, per necessità di un “rinnovamento” del paesaggio audiovisivo francese, a privarsi, dopo vent’anni, del suo emblema, del suo stendardo? Dimentichiamo, per un momento, la volgarità di come si è proceduto. Sorvoliamo sull’interessante innovazione che è, come dice Michèle Stouvenot nel Journal du Dimanche, il “licenziamento per SMS”. Sognava di farlo anche Mitterand, che Poivre tormentava. Nicolas Sarkozy, che Poivre esasperava, lo ha fatto. Ed è, che lo si voglia o no, la Grande Normalizzazione che continua. Decapitare TF1 dopo aver messo fuoco ai canali del servizio pubblico: è lo stesso procedimento; la stessa manovra di richiamo all’ordine; è, con mezzi diversi ma convergenti, lo stesso tentativo –probabilmente vano ma ci vorrà del tempo, ahimé! perché se ne rendano conto i piccoli re che ci governano- di normalizzazione e sottomissione delle grandi arene dello spazio pubblico.

L’Europa, ancora. Il no irlandese al trattato semplificato non è un incidente, bensì un evento. Un evento considerevole. Ci torneremo sopra. Ma per adesso si noterà che si paga il prezzo di un errore molto semplice che, Philippe Val , io ed altri , denunciamo da anni, senza sosta, ma nel deserto. Nessuno parla più di Europa. Nessun uomo di Stato, anche se europeista nell’anima e nella testa, osa più, da anni, parlarne se non sotto l’ottica dei benefici concreti, immediati, materiali che le nazioni che essi rappresentano possono trarne. Tutti, o quasi, si sono, lentamente ma inesorabilmente, accordati su questo basso profilo che consiste a sussurrare alle orecchie dei loro rispettivi popoli: “Facciamo l’Europa, non perché è l’Europa, non perché è un progetto politico nuovo, esaltante, magnifico, portatore di valori specifici, ma perché è un vantaggio per le nazioni e, per prima , la nostra”. Dopodiché come pretendere che tal o tal altro popolo, in questo caso gli Irlandesi, una volta ottenuti dall’Unione tutti i profitti che si sperava di poter ottenere , non mettano in tasca i benefici avuti e non escano dal gioco? Come pretendere, se l’Europa non è altro che una buona occasione, per ognuno, di rinforzarsi a spese degli altri, che l’Irlanda, fatta fortuna, non ritenga sia venuto il momento di farci un gestaccio e di andarsene? L’Europa non ha bisogno, come ci viene ripetuto da domenica, di spiegazioni, di pedagogia, di progetti concreti, ecc., ma di afflato.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 19.06.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Requiem per Hillary?

Ma cos’è dunque successo?

E gioire della vittoria di Obama deve impedire di interrogarsi su quale concorso di circostanze abbia fatto di colei che solo sei mesi fa appariva ai democratici come la loro "candidata ineluttabile" la perdente di oggi?

Per questo inarrestabile declino ci sono più motivi, di diversa natura, non sfuggiti ai commentatori.

Uno stile troppo rigoroso, quasi mascolino, rispecchiato da quei tailleur-pantaloni che non ha abbandonato per tutta la campagna.

Una forma, in sintonia con quel rigore, di manicheismo ideologico che strideva con il pragmatismo e la prudenza del suo avversario.

La questione, all’inverso , della guerra in Iraq di cui lei sostenne la fondatezza quattro anni prima di cambiare parere – troppo tardi, nel pieno della campagna, e senza la minima spiegazione che potesse far passare quel cambiamento di opinione per qualcosa di diverso da un rinnegamento.

I suoi errori, naturalmente. I suoi errori incontestabili e, talvolta, imperdonabili. A cominciare dall’evocazione, in giugno, dell’assassinio di Robert Keneddy, che non poteva non suonare, ad un attento orecchio freudiano , come espressione di un sogno ridestato e dunque come la realizzazione di un desiderio inconfessato e, pertanto, come il manifestarsi alla luce del sole di un inconscio - fenomeno che non si era mai visto, in modo tanto flagrante, presso nessun altro politico al mondo.

Il sessismo, infine. Le speculazioni incessanti su una "incompetenza" che sembrava inquietare meno quando si trattava del giovanissimo Obama o degli inetti Mitt Romney e Mike Huckabee. Il fatto, in altri termini, che l’America è un paese dove – onore alle battaglie per i diritti civili di cui Hillary è stata, tra l’altro, per tutta la sua vita, uno degli ardenti avvocati- è divenuto più facile ad un Nero che non ad una donna accedere alle cariche più alte e, a maggior ragione, a quella più in alto di tutte.

Ma a tutti questi motivi se n’è aggiunto un ultimo che da nessuno ho visto richiamare e che tuttavia sono convinto sia quello che, alla fin dei conti, ha pesato di più.

La riprovazione delle donne.

Voglio dire: contrariamente a ciò che sostiene oggi la senatrice stessa, all’inverso di ciò di cui sembrava convinta, l’ultimo giorno, in quel gran e bel discorso al National Building Museum dove brandiva la causa femminile per farsene un ultimo vessillo, il disprezzo di tutta una frangia di elettrici per questa loro simile, per questa sorella in cui esse non si sono mai riconosciute.

Schema classico senza dubbio.

Schema familiare per un Francese che ha visto le stesse cause produrre gli stessi effetti in occasione, un anno fa, del rigetto folle, irrazionale, sovente senza parole, della candidata di sinistra da parte di molte donne francesi.

Ma, nel caso Hillary, con una dimensione supplementare, perché legata a quella malattia tipica della politica americana che si chiama puritanesimo: il ricordo dell’affare Lewinsky.

Quante donne ho visto, nelle città e nelle cittadine dell’Alabama e del Nevada dire e ripetere di non riuscire a comprendere la sua indulgenza per quel mascalzone di suo marito!

Quante conversazioni, negli Starbucks di Des Moines ma talvolta persino a New York, tra "dedicated mummies" convinte che solo l’ambizione, la più opportunistica, la più orribile , la più feroce delle ambizioni, potesse spiegare tanta indulgenza per un peccato ritenuto, dopo l’assassinio, il più imperdonabile di tutti!

Senza parlare di quel grido di indignazione che bisognava essere sordi, o sorda, per non sentire e che era il vero programma comune a tutte le comari conservatrici, repubblicane e democratiche insieme: "se mio marito, a me, facesse una cosa del genere… se mi umiliasse come l’ha umiliata… io me ne andrei, sloggerei… invece che tornare sui luoghi del crimine e soprassedere sul vizio e la compiacenza, scansandoli, fino a voler occupare a mia volta l’ufficio stesso in cui l’atto è stato compiuto.. oh, ma delle volte! – che orrore! che vergogna e che orrore! mai!"

La cosa sarebbe potuta andare diversamente.

Il gusto dello spettacolo -e dei suoi scenari inediti- avrebbe potuto suscitare il desiderio di vedere la donna tradita messa nell’inimmaginabile -dunque appassionate - situazione di entrare nella casa del diavolo per bere il suo calice fino in fondo.

Il political correctness ha deciso altrimenti.

Il femminismo americano, nella sua versione reazionaria, ha scelto di punire Hillary ed il suo liberalismo criminale.

Cosicché la sua disfatta, come quella, ancora una volta, della Royal l’anno scorso, non è quella delle donne, ma, in certi casi , ahimè, la loro vittoria.

La differenza è che la Royal, lei, è sempre lì. Mentre c’è nella politica d’Oltreoceano, e in particolare presso i democratici, una legge non scritta per la quale un candidato che ha corso e poi perso, non rientra, se non in rarissime eccezioni, nella partita. Non c’è una seconda chance, lo si sa, per gli eroi americani. A maggior ragion per le eroine.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 12.06.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Bernard-Henri Lévy a Sarajevo il 10-11 giugno 2008

10 GIUGNO 2008: Sarajevo - Kid's Festival

Lanciato nel 2003 dall’associazione ViaKult sotto la presidenza di Bernard-Henri Lévy e patrocinato, tra le altre, dalla Fondazione André Lévy, Kid’s Festival riunisce ogni anno più di 40 000 bambini e adolescenti provenienti da tutti i paesi dell'ex-Yugoslavia. Un incontro che permette a questa nuova generazione di proseguire il processo di riconciliazione, dopo il terribile conflitto che ha devastato questa zona dei Balcani, attraverso laboratori tecnici e creativi, esposizioni, e grandi sale cinematografiche, nel cuore di Sarajevo. Il quartiere di Skenderija si trasformerà, così, per una settimana, in una città della gioventù dove ogni ragazzo potrà incontrare artisti bosniaci e dell’Europa intera: scrittori, pittori, scultori, musicisti, giocolieri, ballerini, attori del teatro di strada, acrobati, ecc…

11 GIUGNO 2006: Sarajevo – Centro André Malraux (Teatro Sartir)

Il Centro André Malraux organizza un incontro con Bernard-Henri Lévy avente per tema "Sarajevo, in Europa", seguito dalla proiezione dei suoi due film "Bosna!" e "Un jour dans la mort de Sarajevo", in presenza di alcune delle persone filmate durante quella terribile guerra (1993-1994), e rintracciate dal Centro André Malraux.

(da: bernard-henri-levy.com)

Colombani e Sarkozy. Valls e Camus, Taubmann su Ahmadinejad

Eccola, forse, la giusta distanza e la giusta ottica per parlare di Nicolas Sarkozy. Né partigiano né ostile per principio. Né adulatorio né abitato da quella rabbia che si impadronisce di tanti commentatori, a destra come a sinistra, quando c’è da trattare di questo presidente atipico: Jean-Marie Colombani era direttore di Le Monde al momento dell’elezione presidenziale, e il suo libro ("Un Américain à Paris", Plon) insiste, in particolare, su una politica dell’immigrazione divenuta, con le leggi Hortfeux, una delle più restrittive dell’Unione Europea. Jean-Marie Colombani è anche uno dei giornalisti francesi ad aver seguito con maggior attenzione, e da più tempo, l’itinerario di questa meteora, di questo "opni", oggetto politico non identificato, che è, anche, il nipote di quell’Ebreo di Salonicco che ha scelto la Francia ( e si sente una reale empatia per un uomo che, eletto con una schiacciante maggioranza, ha scelto di stroncare sul nascere la tentazione di uno Stato UMP e di portare al vertice dello Stato sensibilità, itinerari, visi che non vi si erano mai visti prima : Dati, Yade o Amara). Jean-Marie Colombani è, infine, autore di un editoriale memorabile, "Siamo tutti americani", ed è questo, forse, a permettergli di identificare la matrice ideologica, trascendentale, del sarkozysmo: un modo, molto americano in effetti, di non voler conoscere altra tavola dei valori se non quella fondata sul successo personale e il merito – si può essere pro o contro; ci si può inquietare, o no, per una forma di meritocrazia che sbocca inevitabilmente col mettere sul piedistallo il re-danaro; è un dibattito; un vero dibattito; ma è lontano, questo dibattito, da tutte quelle bizzarre speculazioni sull’uomo dei topi , sulla sua vita privata, sul suo corpo o sul suo rapporto agli psicanalisti.

Per vederci un po’ più chiaro in questa battaglia ideologica che va’ ad aprirsi a sinistra, raccomando la lettura di un altro libro: quello di Manuel Valls, che dialoga con Claude Asklovitch, e il cui titolo ("Per finirla con il vecchio socialismo ed essere alla fine di sinistra", Plon) è già tutto un programma. Ignoro quale sia il peso del giovane deputato sindaco di Evry nel suo partito. Ma è un coraggioso. E, almeno su due punti, su due parole, ha evidentemente ragione. Sulla parola "socialismo", di cui Camus già aveva notato la profonda, irreversibile, corruzione – questa parola che i guardiani dei campi stalinisti, alleati ai maniaci del nazional-socialismo, hanno disonorato per sempre e che è divenuto come una ferita cocente per metà dell’umanità. E sulla parola "liberalismo", che è la parola di Gavroche e di Delacroix, la parola degli "Atelier nazionali" del 1848, la parola della Comune, la parola delle grandi leggi sul diritto di coalizione e contro il lavoro dei bambini nelle fabbriche – una bella parola, una gran bella parola, su cui gli apostoli del capitalismo selvaggio, i suoi trafficanti, i suoi dirigenti vigliacchi, non sono (schema rovesciato) riusciti a conservare un diritto di prelazione e che sarebbe idiota, suicida, abbandonare loro. La differenza? Cosa fa che una parola si corrompa ed un’altra no? Come mai in un caso (il socialismo), si è dovuto cedere e nell’altro (il liberalismo), si deve tener duro ed ingaggiare una guerra per la riappropriazione? Questa è la questione. Politica, senza dubbio. Ma filosofica, pure. Poiché la risposta si trova in quella corrente del pensiero medievale chiamata nominalismo e di cui Nietzsche fu fervente ammiratore. Leggere Nietzsche, e Guglielmo d’Occam, per rischiarare le lanterne politiche di oggi? Ma sì. Ci tornerò sopra.

E, poiché sono alle mie letture della settimana, un terzo libro – non meno importante: firmata da Michel Taubmann, la prima biografia di Mahmud Ahmadinejad. Chi è veramente l’uomo che, il 6 agosto 2005, presta giuramento davanti ai 290 membri del Majlis? È lui che si riconosce su quel negativo dell’ Associated Press risalente al momento della presa degli ostaggi nell'ambasciata americana nel 1979? Cos’ha realmente in testa quando una delle sue prime decisioni è di fare allargare i viali di Teheran in previsione dell’atterraggio imminente del Mahdi? Qual è il suo potere reale? L’ayatollah ultra-ortodosso, e fascista, Mesbah-Yazdi è il suo maître à penser ? A queste domande, e ad altre, il direttore della rivista Le Meilleur des mondes fornisce risposte che delineano una inchiesta lunga, precisa, e le cui conclusioni finiranno col convincere i più scettici: il grande popolo persiano, quella società civile iraniana che è, per molti tratti, una delle più illuminate della regione, si è data un presidente terrorista che incarna, più che mai, la più temibile minaccia alla pace mondiale.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 5.06.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

A Gerusalemme, per i 60 anni dello stato di Israele

Onorato ed emozionato nell’aprire, a Gerusalemme, sotto l’egida del presidente Shimon Peres, le cerimonie per il 60° anniversario della nascita dello Stato.

Con me, Henry Kissinger, che ha descritto il nuovo pericolo rappresentato da un Iran dotato dell’arma nucleare.

E con me anche lo scrittore Amos Oz, coscienza morale di Israele, che ha trovato le giuste parole riguardo alla sofferenza palestinese e alla parte di responsabilità che vi gioca il suo paese.

Piuttosto che ripetere ciò che io non avrei saputo dir meglio, piuttosto che ribadire, come ho fatto spesso, che la sola soluzione è quella di due Stati viventi in pace, fianco a fianco, nel riconoscimento e nel rispetto reciproci, ho scelto di insistere sul messaggio positivo, sui valori, sull’esperienza politica, morale e spirituale che lo Stato degli ebrei e gli ebrei stessi possono trasmettere al mondo di oggi.

Politica? L’esemplarità di Israele. Eh sì! Non tutto è perfetto, naturalmente, in Israele. E la questione palestinese, nello specifico, vi rappresenta una ferita aperta, una piaga. Ma, messa da parte questa questione, non so di altri Stati, usciti dalle decomposizione degli imperi, che abbiano saputo costruire, come Israele, una prosperità tanto duratura e una democrazia tanto degna di questo nome così come pure una relazione alla violenza che non si sottrae mai al senso dello scrupolo e a considerazioni etiche. E, al di là di questo stesso contesto, al di là di questa unicità che esso rappresenta tra i paesi usciti da ciò che un tempo veniva chiamato col bel nome di rivoluzione anticolonialista, osservo questo Israele accogliere indifferentemente Russi e Yemeniti, Francesi ed Etiopi, Maghrebini e Polacchi (senza parlare, ben inteso, del 20% di Arabi palestinesi); che lo si voglia o no, una delle società più aperte al mondo; che piaccia o no, una multietnicità combinata, come in nessun’altra parte al mondo, con un’appartenenza nazionale ed un patriottismo straordinariamente solidi; una lezione, altrimenti detto, una vera grande lezione, cui farebbero bene ad ispirarsi molte delle potenti nazioni messe di fronte alla stessa impossibile equazione (di patriottismo e multietnicità, ndt) – Francia e USA compresi.

Morale? Penso alla prova senza pari che ebbe ad attraversare il giudaismo d’Europa. So che alcuni pensano che si parli troppo di questa prova. La verità, ho detto ai 2 000 delegati presenti, è che se io mi metto a ripensare ai luoghi del mondo dove, nella mia vita, ho sentito parlare di più della Shoah, non è né Israele né l’Europa che mi tornano a mente. Bensì Sarajevo, dove al culmine dei bombardamenti un presidente musulmano mi affidò, per François Mitterand, il famoso messaggio in cui supplicava: "Non lasciateci divenire il prossimo ghetto di Varsavia". Mi tornano alla mente i Tutsi del Rwanda e del Burundi: "Siamo gli ebrei dell’Africa; ci avete abbandonati ai nostri nazisti come avete un tempo abbandonato gli ebrei d’Europa". Mi tornano alla mente i comandanti dell’unità di guerriglia che, giusto un anno fa, mi scortarono nel cuore del Darfur devastato e che, pure loro, ripetevano: " Ciò che ci terrorizza e che, allo stesso tempo, ci dà speranza, è il ricordo, certo, della Shoah, ma anche del modo in cui il popolo ebraico ha potuto superare la prova". Non dico che i morti del Darfur siano l’equivalente dello sterminio degli ebrei. Dico solo che è così che parlano tutte le vittime anonime, senza numero né viso, senza sepoltura, delle guerre dimenticate contemporanee. Ne deduco che il popolo ebraico ha, quindi, una responsabilità particolare di fronte a questi condannati. E dico della mia fierezza ogni volta che verifico come, in ognuno di questi casi, i primi a mobilitarsi – e a combattere, all’occorrenza , la criminale idiozia della competizione tra le vittime- siano molto spesso uomini e donne che hanno la Shoah nel cuore.

Esperienza spirituale, infine? Sappiamo, dopo Levinas, che quello ebraico non è solo il popolo del Libro ma pure quello del commentario del Libro. E sappiamo che esso ha inventato quel protocollo di lettura unico al mondo chiamato Talmud per il quale non c’è parola santa che non possa essere sottoposta ad un commentario infinito, inesauribile, infaticabile – Rachi che rispondeva a Rabbenu Hananel di Kairuan, che a sua volta rispondeva a Rabbenu Gershom di Mayence che, a sua volta, smentiva, contraddiceva o integrava un commentario di Yohanan Ben Zakkaï o di Hillel… Immaginate, allora, altri Talmud oltre a quello ebraico… Immaginate che gli ebrei trasmettano ai loro fratelli musulmani, per esempio, questo gusto per una lettera che resta una lettera aperta e dal significato indeciso. Immaginate che, alla maniera del giudaismo ma riallacciandosi, anche, al filo un tempo teso da Avicenna e prima che dai successori di quest’ultimo quel filo sia lasciato cadere, gli imam di oggi acconsentano a quest’idea di una interpretazione mai definita. Sarebbe la fine del dogmatismo, l’antidoto al fanatismo. Sarebbe il vero rimedio a quella malattia dell’islam diagnosticata, tra gli altri, dal mio amico Abdelwahab Meddeb.

Ecco, dunque, ciò che gli ebrei hanno da dire, non solo agli ebrei, ma pure ai non ebrei. Ecco la triplice esperienza che la loro storia ha dato loro incarico di trasmettere. Se lo faranno, se ci proveranno, se si cimenteranno davvero in questa condivisione metafisica, allora sì che Israele sarà quella regione, non solo del mondo, ma dell’essere, di cui il 60° anniversario sarà una buona notizia per tutti i popoli della terra.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 22.05.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Birmania: nel laboratorio della dittatura

La dittatura è sorda: tutti sanno ormai che l’arrivo del ciclone era stato previsto dal servizio meteorologico indiano il giorno precedente e da quello tailandese cinque giorni ancor prima – ed essa non ha voluto intendere.

La dittatura odia il suo popolo – non lo disprezza, lo odia proprio, e tale odio è freddo, totale, micidiale: come spiegare, altrimenti, l’inimmaginabile spettacolo di quei convogli bloccati sulla dogana alla frontiera con la Tailandia? di quegli aerei carichi di viveri e dall’atterraggio interdetto? come spiegare che nel momento in cui ogni ora è vitale, nel momento in cui al trascorrere di ogni minuto diminuiscono le possibilità di ritrovare superstiti tra le rovine dei villaggi sommersi nella zona di Bogalay o di Laputta, non si facciano entrare che col contagocce i viveri, i medicinali, che potrebbero salvarli?

La dittatura è folle – non è solamente crudele, essa è folle, clinicamente folle e, nello specifico, paranoica, ed è questa l’altra chiave di un regime insensato che preferisce lasciar morire il suo popolo piuttosto che aprire anche di poco le sue porte ai "medici senza frontiere": questi folli clinici, questi cretini sono visibilmente, chiaramente, incontestabilmente convinti che gli operatori umanitari siano delle spie, che vogliano entrare nel paese solo per destabilizzarlo e rovinarlo, che i pacchi del Programma alimentare mondiale contengano veleni più mortali di quelli liberati dai corpi in decomposizione che galleggiano nel delta del fiume Irrawaddy.

La dittatura è razzista – dunque la si smetta di presentare la Birmania come un paese postcoloniale la cui paranoia si spiegherebbe dal solo fatto che essa ebbe a subire, un tempo, i miasmi della peste razzista: perché è lei ad essere razzista; è lei che vede il Bianco, l’Occidentale, l’Americano quali nemici naturali e biologici; è lei che, nella più pura tradizione xenofoba e dunque razzista, vede lo straniero come un microbo, un agente corruttore, un virus.

La dittatura è monomaniaca – questo razzismo, questa follia vengono pure, se non innanzitutto, dal fatto che i dittatori non pensano che ai dittatori, al loro avvenire, alla loro sopravvivenza: il paese affonda; 5 000 chilometri quadrati di risaie sono già sott’acqua; i pochi testimoni ci raccontano di acquitrini cosparsi di cadaveri, di falde freatiche putrefatte, di bambini che tremano per la malaria o per la febbre rossa; e quelli non pensano – davvero inaudito!- che alla farsa di un referendum imposto con la verga e dall’unico scopo di rinforzare il loro regime.

La dittatura è autistica, vive sotto vetro, ripiegata su se stessa, avendo fatta propria l’ipotesi brechtiana della scomparsa del popolo che essa presume governare: 20 000 morti? 30 000? 100 000? domani saranno 300 000? di più? la dittatura se ne frega; la dittatura smette di tenere il conto; la dittatura, che non ci si inganni, non si prende nemmeno la briga di mentire davvero, di minimizzare, di barare sui numeri; quei corpi, da vivi, non avevano né viso né davvero un nome; perché dovrebbero averli una volta morti? la dittatura, di fatto, si compiace di una cosa sola: del "naso" avuto dagli astrologi da cui venne convinta, nel novembre del 2005, ad abbandonare Rangoun e a trincerarsi a Naypyidaw, capitale tutta nuova, nel cuore della giungla, lontana dall’acqua e dai tornado.

La dittatura non perde la bussola: folle, d’accordo; paranoica, senza dubbio; ma dai riflessi intatti; una reattività a prova di bomba; una rivolta scoppia, nel pieno del cataclisma, nella prigione di Insein, a Rangoun, e lei reagisce, immediatamente, alla velocità della luce – e quei soldati che a mobilitare in soccorso dei senzatetto non ci pensa proprio, lei li manda a giustiziare, senza indugi, i 36 animatori della rivolta.

La dittatura è mafiosa: all’apice del disastro, quando il Programma alimentare mondiale supplica che si lasci almeno passare un convoglio di biscotti vitaminizzati sufficienti a nutrire 100 000 bambini, lei dice: "OK, perché no?" – ma solo per confiscare la mercanzia e per poi rivenderla, senza dubbio, al mercato nero.

La dittatura è taccagna: i 5 milioni di dollari sbloccati a titolo di aiuto di emergenza corrispondono a un millesimo degli introiti annuali dalla vendita del suo petrolio alle compagnie straniere, tra cui Total – o, se si vuol comparare altrimenti, a un decimo del valore dei doni di matrimonio ricevuti dalla Signorina Shwe, amata figlia del generalissimo presidente Than Shwe.

La dittatura è grottesca infine – sì, come sempre, e malgrado l’orrore, ha qualcosa di profondamente assurdo e grottesco: è, ad ogni modo, ciò che si avverte davanti all’immagine di quell’imbecille coi galloni, e cogli occhiali scuri, declamante, su di un’emittente televisiva il cui segnale più nessuno riceve per mancanza di elettricità, che "la situazione torna alla normalità".

È raro, un laboratorio.

È raro vedere una dittatura funzionare in modo così chimicamente puro.

E di fronte a questo spettacolo, di fronte a questa macchina di morte, di odio e di follia, si esita tra la tristezza, la pena, la voglia di veder quegli assassini trascinati davanti ad un tribunale penale internazionale abilitato a giudicare su simili misfatti – e la nostalgia, pure, del tempo in cui la Francia inventava, e imponeva al mondo, il diritto e il dovere di ingerenza.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 15.5.2008
(traduzione di Daniele Sensi)