Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Requiem per Hillary?

Ma cos’è dunque successo?

E gioire della vittoria di Obama deve impedire di interrogarsi su quale concorso di circostanze abbia fatto di colei che solo sei mesi fa appariva ai democratici come la loro "candidata ineluttabile" la perdente di oggi?

Per questo inarrestabile declino ci sono più motivi, di diversa natura, non sfuggiti ai commentatori.

Uno stile troppo rigoroso, quasi mascolino, rispecchiato da quei tailleur-pantaloni che non ha abbandonato per tutta la campagna.

Una forma, in sintonia con quel rigore, di manicheismo ideologico che strideva con il pragmatismo e la prudenza del suo avversario.

La questione, all’inverso , della guerra in Iraq di cui lei sostenne la fondatezza quattro anni prima di cambiare parere – troppo tardi, nel pieno della campagna, e senza la minima spiegazione che potesse far passare quel cambiamento di opinione per qualcosa di diverso da un rinnegamento.

I suoi errori, naturalmente. I suoi errori incontestabili e, talvolta, imperdonabili. A cominciare dall’evocazione, in giugno, dell’assassinio di Robert Keneddy, che non poteva non suonare, ad un attento orecchio freudiano , come espressione di un sogno ridestato e dunque come la realizzazione di un desiderio inconfessato e, pertanto, come il manifestarsi alla luce del sole di un inconscio - fenomeno che non si era mai visto, in modo tanto flagrante, presso nessun altro politico al mondo.

Il sessismo, infine. Le speculazioni incessanti su una "incompetenza" che sembrava inquietare meno quando si trattava del giovanissimo Obama o degli inetti Mitt Romney e Mike Huckabee. Il fatto, in altri termini, che l’America è un paese dove – onore alle battaglie per i diritti civili di cui Hillary è stata, tra l’altro, per tutta la sua vita, uno degli ardenti avvocati- è divenuto più facile ad un Nero che non ad una donna accedere alle cariche più alte e, a maggior ragione, a quella più in alto di tutte.

Ma a tutti questi motivi se n’è aggiunto un ultimo che da nessuno ho visto richiamare e che tuttavia sono convinto sia quello che, alla fin dei conti, ha pesato di più.

La riprovazione delle donne.

Voglio dire: contrariamente a ciò che sostiene oggi la senatrice stessa, all’inverso di ciò di cui sembrava convinta, l’ultimo giorno, in quel gran e bel discorso al National Building Museum dove brandiva la causa femminile per farsene un ultimo vessillo, il disprezzo di tutta una frangia di elettrici per questa loro simile, per questa sorella in cui esse non si sono mai riconosciute.

Schema classico senza dubbio.

Schema familiare per un Francese che ha visto le stesse cause produrre gli stessi effetti in occasione, un anno fa, del rigetto folle, irrazionale, sovente senza parole, della candidata di sinistra da parte di molte donne francesi.

Ma, nel caso Hillary, con una dimensione supplementare, perché legata a quella malattia tipica della politica americana che si chiama puritanesimo: il ricordo dell’affare Lewinsky.

Quante donne ho visto, nelle città e nelle cittadine dell’Alabama e del Nevada dire e ripetere di non riuscire a comprendere la sua indulgenza per quel mascalzone di suo marito!

Quante conversazioni, negli Starbucks di Des Moines ma talvolta persino a New York, tra "dedicated mummies" convinte che solo l’ambizione, la più opportunistica, la più orribile , la più feroce delle ambizioni, potesse spiegare tanta indulgenza per un peccato ritenuto, dopo l’assassinio, il più imperdonabile di tutti!

Senza parlare di quel grido di indignazione che bisognava essere sordi, o sorda, per non sentire e che era il vero programma comune a tutte le comari conservatrici, repubblicane e democratiche insieme: "se mio marito, a me, facesse una cosa del genere… se mi umiliasse come l’ha umiliata… io me ne andrei, sloggerei… invece che tornare sui luoghi del crimine e soprassedere sul vizio e la compiacenza, scansandoli, fino a voler occupare a mia volta l’ufficio stesso in cui l’atto è stato compiuto.. oh, ma delle volte! – che orrore! che vergogna e che orrore! mai!"

La cosa sarebbe potuta andare diversamente.

Il gusto dello spettacolo -e dei suoi scenari inediti- avrebbe potuto suscitare il desiderio di vedere la donna tradita messa nell’inimmaginabile -dunque appassionate - situazione di entrare nella casa del diavolo per bere il suo calice fino in fondo.

Il political correctness ha deciso altrimenti.

Il femminismo americano, nella sua versione reazionaria, ha scelto di punire Hillary ed il suo liberalismo criminale.

Cosicché la sua disfatta, come quella, ancora una volta, della Royal l’anno scorso, non è quella delle donne, ma, in certi casi , ahimè, la loro vittoria.

La differenza è che la Royal, lei, è sempre lì. Mentre c’è nella politica d’Oltreoceano, e in particolare presso i democratici, una legge non scritta per la quale un candidato che ha corso e poi perso, non rientra, se non in rarissime eccezioni, nella partita. Non c’è una seconda chance, lo si sa, per gli eroi americani. A maggior ragion per le eroine.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 12.06.2008
(traduzione di Daniele Sensi)