Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Colombani e Sarkozy. Valls e Camus, Taubmann su Ahmadinejad

Eccola, forse, la giusta distanza e la giusta ottica per parlare di Nicolas Sarkozy. Né partigiano né ostile per principio. Né adulatorio né abitato da quella rabbia che si impadronisce di tanti commentatori, a destra come a sinistra, quando c’è da trattare di questo presidente atipico: Jean-Marie Colombani era direttore di Le Monde al momento dell’elezione presidenziale, e il suo libro ("Un Américain à Paris", Plon) insiste, in particolare, su una politica dell’immigrazione divenuta, con le leggi Hortfeux, una delle più restrittive dell’Unione Europea. Jean-Marie Colombani è anche uno dei giornalisti francesi ad aver seguito con maggior attenzione, e da più tempo, l’itinerario di questa meteora, di questo "opni", oggetto politico non identificato, che è, anche, il nipote di quell’Ebreo di Salonicco che ha scelto la Francia ( e si sente una reale empatia per un uomo che, eletto con una schiacciante maggioranza, ha scelto di stroncare sul nascere la tentazione di uno Stato UMP e di portare al vertice dello Stato sensibilità, itinerari, visi che non vi si erano mai visti prima : Dati, Yade o Amara). Jean-Marie Colombani è, infine, autore di un editoriale memorabile, "Siamo tutti americani", ed è questo, forse, a permettergli di identificare la matrice ideologica, trascendentale, del sarkozysmo: un modo, molto americano in effetti, di non voler conoscere altra tavola dei valori se non quella fondata sul successo personale e il merito – si può essere pro o contro; ci si può inquietare, o no, per una forma di meritocrazia che sbocca inevitabilmente col mettere sul piedistallo il re-danaro; è un dibattito; un vero dibattito; ma è lontano, questo dibattito, da tutte quelle bizzarre speculazioni sull’uomo dei topi , sulla sua vita privata, sul suo corpo o sul suo rapporto agli psicanalisti.

Per vederci un po’ più chiaro in questa battaglia ideologica che va’ ad aprirsi a sinistra, raccomando la lettura di un altro libro: quello di Manuel Valls, che dialoga con Claude Asklovitch, e il cui titolo ("Per finirla con il vecchio socialismo ed essere alla fine di sinistra", Plon) è già tutto un programma. Ignoro quale sia il peso del giovane deputato sindaco di Evry nel suo partito. Ma è un coraggioso. E, almeno su due punti, su due parole, ha evidentemente ragione. Sulla parola "socialismo", di cui Camus già aveva notato la profonda, irreversibile, corruzione – questa parola che i guardiani dei campi stalinisti, alleati ai maniaci del nazional-socialismo, hanno disonorato per sempre e che è divenuto come una ferita cocente per metà dell’umanità. E sulla parola "liberalismo", che è la parola di Gavroche e di Delacroix, la parola degli "Atelier nazionali" del 1848, la parola della Comune, la parola delle grandi leggi sul diritto di coalizione e contro il lavoro dei bambini nelle fabbriche – una bella parola, una gran bella parola, su cui gli apostoli del capitalismo selvaggio, i suoi trafficanti, i suoi dirigenti vigliacchi, non sono (schema rovesciato) riusciti a conservare un diritto di prelazione e che sarebbe idiota, suicida, abbandonare loro. La differenza? Cosa fa che una parola si corrompa ed un’altra no? Come mai in un caso (il socialismo), si è dovuto cedere e nell’altro (il liberalismo), si deve tener duro ed ingaggiare una guerra per la riappropriazione? Questa è la questione. Politica, senza dubbio. Ma filosofica, pure. Poiché la risposta si trova in quella corrente del pensiero medievale chiamata nominalismo e di cui Nietzsche fu fervente ammiratore. Leggere Nietzsche, e Guglielmo d’Occam, per rischiarare le lanterne politiche di oggi? Ma sì. Ci tornerò sopra.

E, poiché sono alle mie letture della settimana, un terzo libro – non meno importante: firmata da Michel Taubmann, la prima biografia di Mahmud Ahmadinejad. Chi è veramente l’uomo che, il 6 agosto 2005, presta giuramento davanti ai 290 membri del Majlis? È lui che si riconosce su quel negativo dell’ Associated Press risalente al momento della presa degli ostaggi nell'ambasciata americana nel 1979? Cos’ha realmente in testa quando una delle sue prime decisioni è di fare allargare i viali di Teheran in previsione dell’atterraggio imminente del Mahdi? Qual è il suo potere reale? L’ayatollah ultra-ortodosso, e fascista, Mesbah-Yazdi è il suo maître à penser ? A queste domande, e ad altre, il direttore della rivista Le Meilleur des mondes fornisce risposte che delineano una inchiesta lunga, precisa, e le cui conclusioni finiranno col convincere i più scettici: il grande popolo persiano, quella società civile iraniana che è, per molti tratti, una delle più illuminate della regione, si è data un presidente terrorista che incarna, più che mai, la più temibile minaccia alla pace mondiale.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 5.06.2008
(traduzione di Daniele Sensi)