Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Sarajevo, mon amour. Saluti a P.P. d’Arvor. Di cosa soffre, veramente, l’Europa?

Di nuovo a Sarajevo. Come ogni anno, o quasi, da quindici anni, ritorno in questa città che amo e dove conservo tanti ricordi. Il centro André-Malraux ha avuto la felice idea di lanciare, attraverso la stampa, una sorta di ricerca di testimoni per trovare i superstiti del film (“Bosna!”) che, con Alain Ferrari e Gilles Hertzog, abbiamo girato nel pieno dell’assedio e della guerra. Ci sono tutti – comandanti e semplici combattenti, conosciuti in una trincea e in seguito più rivisti; insorti della prima ora, tra i quali Jovan Divjak ed Haris Siladzic, divenuti, rispettivamente, direttore di una fondazione per orfani di guerra e presidente della Repubblica; il mio amico Samir Landzo; il consigliere del vecchio presidente Izetbegovic, oggi ambasciatore in India, Kemal Muftic; o ancora lo sconosciuto soldato che posava, di schiena, sulla locandina del film e di cui non conoscevo il viso. Commuove ritrovarli tutti – e pure loro appaiono commossi- a questo appuntamento di fedeltà, di amicizia, di memoria. Hanno avuto destini divergenti. Hanno, sull’avvenire del loro paese, opinioni per forza di cose differenti. Ma sembrano felici di ritrovarsi. Felici di evocare, insieme, quel passato di sofferenza e di resistenza. E tutti convengono, in compenso, su un’analisi che condivido: lo scandalo che sarebbe se l’Europa, che li ha lasciati morire, li tradisse una seconda volta chiudendo loro le porte dell’Unione. Hanno ragione. Hanno addirittura più ragione di quanto credano. Perché i valori della Bosnia erano i valori dell’Europa. Motivo per cui , se la Bosnia ha bisogno dell’Europa, l’Europa ha, pure lei, per questa stessa ragione, un bisogno vitale della Bosnia.

A Parigi, il giorno del mio ritorno, la stampa è tutto un parlare sull’evizione, da parte della nuova direzione di TF1, di Patrick Poivre d’Arvor. Ho orrore delle visioni complottistiche e paranoiche del mondo. E diffido, dunque, per principio, del discorso in auge su quella bestia cattiva di Sarkozy, padrone segreto di tutti i media di Francia e di Navarra. Ma in questo caso, francamente… A chi si può far credere che il potere non c’entra nulla con l’esautorazione di un giornalista di cui il presidente della Repubblica stesso ha più volte dimostrato, con parole velate ma pubblicamente, di non apprezzare la causticità e l’insolenza? Chi si vuol prendere in giro quando ci viene spiegato che è una logica industriale, capite bene: in-du-stri-a-le, che ha costretto il canale televisivo, per necessità di un “rinnovamento” del paesaggio audiovisivo francese, a privarsi, dopo vent’anni, del suo emblema, del suo stendardo? Dimentichiamo, per un momento, la volgarità di come si è proceduto. Sorvoliamo sull’interessante innovazione che è, come dice Michèle Stouvenot nel Journal du Dimanche, il “licenziamento per SMS”. Sognava di farlo anche Mitterand, che Poivre tormentava. Nicolas Sarkozy, che Poivre esasperava, lo ha fatto. Ed è, che lo si voglia o no, la Grande Normalizzazione che continua. Decapitare TF1 dopo aver messo fuoco ai canali del servizio pubblico: è lo stesso procedimento; la stessa manovra di richiamo all’ordine; è, con mezzi diversi ma convergenti, lo stesso tentativo –probabilmente vano ma ci vorrà del tempo, ahimé! perché se ne rendano conto i piccoli re che ci governano- di normalizzazione e sottomissione delle grandi arene dello spazio pubblico.

L’Europa, ancora. Il no irlandese al trattato semplificato non è un incidente, bensì un evento. Un evento considerevole. Ci torneremo sopra. Ma per adesso si noterà che si paga il prezzo di un errore molto semplice che, Philippe Val , io ed altri , denunciamo da anni, senza sosta, ma nel deserto. Nessuno parla più di Europa. Nessun uomo di Stato, anche se europeista nell’anima e nella testa, osa più, da anni, parlarne se non sotto l’ottica dei benefici concreti, immediati, materiali che le nazioni che essi rappresentano possono trarne. Tutti, o quasi, si sono, lentamente ma inesorabilmente, accordati su questo basso profilo che consiste a sussurrare alle orecchie dei loro rispettivi popoli: “Facciamo l’Europa, non perché è l’Europa, non perché è un progetto politico nuovo, esaltante, magnifico, portatore di valori specifici, ma perché è un vantaggio per le nazioni e, per prima , la nostra”. Dopodiché come pretendere che tal o tal altro popolo, in questo caso gli Irlandesi, una volta ottenuti dall’Unione tutti i profitti che si sperava di poter ottenere , non mettano in tasca i benefici avuti e non escano dal gioco? Come pretendere, se l’Europa non è altro che una buona occasione, per ognuno, di rinforzarsi a spese degli altri, che l’Irlanda, fatta fortuna, non ritenga sia venuto il momento di farci un gestaccio e di andarsene? L’Europa non ha bisogno, come ci viene ripetuto da domenica, di spiegazioni, di pedagogia, di progetti concreti, ecc., ma di afflato.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 19.06.2008
(traduzione di Daniele Sensi)