Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Fiducia o barbarie

E’ un momento veramente straordinario.

Un mondo le cui fondamenta vacillano.

Un sistema che credevamo certo come l’aria che respiriamo e che, invece, nel giro di pochi giorni, perde i suoi punti di riferimento, le sue evidenze, e sembra come risucchiato da un buco nero.

Il denaro – “nerbo della pace”- come sangue che si rapprende.

Il credito – bella parola che testimonia, anche, la fede degli uomini in altri uomini- come un meccanismo che s’inceppa e si ferma.

La fiducia – la famosa “Fiducia” che altro non è , dopotutto, se non l’altro nome del patto sociale e delle ragioni del suo perpetuarsi- come un incantesimo che svanisce.

Si pensa a quei testi della filosofia politica classica che non si prendevano troppo seriamente e che tentavano di far luce sull’enigma del costituirsi della società.

Si pensa al “Leviatano”, al “Contratto sociale” e ai trattati “Sulla servitù volontaria” che consideravamo alla stregua di piacevoli fantasie e che invece ci parlavano proprio di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, con questa crisi senza precedenti nella storia del capitalismo.

Cos’è un legame sociale e come si rompe? Ecco. Ci siamo. E questo tracollo, questo naufragio, ce ne danno un’immagine abbastanza precisa.

Cos’è il tempo politico e come s’ingolfa? Prendete i quattro giorni persi dai parlamentari americani prima di decidersi a votare il piano Paulson; prendete quei quattro insignificanti giorni che però sappiamo aver contato il doppio, il triplo in più, e che hanno causato, come tutte le esitazioni in quelle situazioni un tempo qualificate come “prerivoluzionarie”, irreparabili danni.

L’uomo, un lupo per l’uomo? La paura del lupo che dorme nell’uomo e il timore, sotto la vernice mal fissata della civiltà, dello stato di natura che fa ritorno? Guardate quei principi della finanza, che ieri andavano tanto d’amore e d’accordo e che ora, all’improvviso, si scontrano sul bordo dell’abisso, si prendono per la gola e si sfidano a chi cadrà per ultimo; guardate la danza tra i lupi, quel feroce balletto di predatori esangui che si annusano, che fiutano la morte annunciata del vicino e che mettono gli occhi sulle sue spoglie- guardate il tango dell’odio incandescente cui si è dato il nome pudico di “credito interbancario che si esaurisce”.

In questi giorni s’è sentito odore di condanna a morte e di suicidio collettivo in seno alla piccola muta di belve.

Si è avuta la sensazione si una giga, di una fatale danza del Rigaudon, da cui quegli stessi che avevano condotto il mondo della finanza all’implosione a causa della propria irresponsabilità, del proprio egoismo devastatore come, è bene dirlo, della propria intelligenza divenuta folle e, in senso proprio, diabolica, pensavano di potersi tirare fuori facendovi precipitare gli altri.

E per tutti il risultato è stata un’apocalisse di cui era facile esporre l’implacabile concatenamento di conseguenze ma di cui nessuno sapeva disinnescare il meccanismo: come rispondere a risparmiatori che vengono a prelevare danaro che non si ha? come reagire alla messa in cessazione di pagamento dei fornitori di elettricità e di gas? cosa succede quando folle di risparmiatori riuniti, o di disoccupati disperati, o di debitori assillati dagli stessi che li hanno spinti ad indebitarsi, vengono, secondo uno scenario che la storia francese conosce, ahimè, molto bene, a gridare la propria collera sotto le finestre degli aggiotatori e degli speculatori?

I responsabili, in simili momenti, hanno due possibilità.

Ovviamente stanno tutti sulla nostra stessa barca fatta d’ignoranza del mondo oscuro, sconosciuto, mosso da nuove minacce.

Tutti, non c’è dubbio, brancolano, incespicano e, domenica sera, d’altronde, facevano fatica ad evitare, sulla scalinata dell’Eliseo, chi un lapsus, chi una goffaggine retorica, chi uno di quegli impercettibili movimenti del corpo che tradiscono la vertigine.

Ma tra loro, tuttavia, ci sono differenze.

Ci sono quelli, come un tempo Valéry Giscard d’Estaing secondo una frase rimasta famosa di Raymond Aron, ignorano che la Storia è tragica e credono che tutto, sempre, debba finire col mettersi a posto: la partita non è chiusa? non è votata a convulsioni che non sono e non saranno più che innocenti piroette?

E ci sono quelli, all’inverso, sensibili al Tragico e che sanno che niente è più fragile, precario, pronto a disfarsi, che un legame sociale ben annodato – “tutto tiene solo per magia” diceva un altro Valéry, lo scrittore, citato, questa volta, da Sartre: si parte da una crisi finanziaria ed è tutto il tessuto che, poco per volta, finisce per sfaldarsi; all’inizio si tratta della folla terrorizzata e, alla fine, ecco il gruppo in fusione terrorista, scatenato, con voglia di linciare.

Nicolas Sarkozy, l’altra sera, ha dimostrato di appartenere evidentemente al secondo tipo: concentrato, determinato, tipo un anti-Giscard ossessionato dalla situazione nello stesso momento in cui la prendeva di petto, con, negli occhi, un po’ di quel terrore lucido che fa gli uomini di Stato.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 16.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Perché vincerà Barack Obama

Dopo tre settimane, rientro dagli Stati Uniti, in attesa di ritornarvi presto. E, fin d’ora, a venti giorni dal risultato, stendo un primo bilancio della situazione.

Mantengo, più che mai, il pronostico che feci più di quattro fa, all’indomani della penultima convenzione democratica, quando intitolavo un testo su Barack Obama, apparso sulla rivista di Boston The Atlantic Monthly: “Un Clinton nero”.

E, naturalmente, mantengo pure il pronostico di sei settimane fa, quando annunciavo, su queste colonne, in questo bloc-notes, e mentre la maggior parte dei sondaggi davano un risultato opposto, la più che probabile vittoria di Obama sul suo avversario repubblicano, John McCain.

Non che quest’ultimo se la sia giocata male.

Non che abbia deluso i suoi sostenitori, in particolare nel primo “gran dibattito” organizzato dalla CNN e in cui, soprattutto sulle questioni internazionali, non ha sfigurato come possibile presidente.

E la stessa Sarah Palin, nel dibattito affrontato la settimana scorsa con l’altro candidato alla vice-presidenza, Joe Biden, ha mostrato di saper imparare alla svelta e di essere già lontana dall’ex-regina di bellezza dei primi giorni, balbettante, impacciata, terrorizzata da quanti la intervistavano, e che, accumulando gaffe su gaffe, veniva schernita –non senza una violenta ed insopportabile dose di sessismo– dall’insieme dei media, dei siti internet, dei blogger o degli umoristi della potentissima Comedy Channel.

Ma ci sono tre ragioni essenziali che fanno sì che la vittoria abbia sempre meno possibilità di sfuggire al senatore dell’Illinois, malgrado tutto, malgrado la sua inesperienza, malgrado la sua giovinezza, malgrado il fondo di razzismo che persiste nella classe media americana e su cui i nuovi Thénardier della politica statunitense, Hillary e Bill Clinton, non hanno mancato di fa leva durante la campagna per la designazione del candidato.

L’immenso desiderio di cambiamento, innanzitutto, che s’è impadronito di un paese che comincia a risvegliarsi, come un sonnambulo, dall’incubo degli anni Bush.

La crisi economica e finanziaria, in secondo luogo; l’impressione, per tutti, di entrare in una terra incognita dove nessuna delle vecchie bussole, nessuno degli strumenti di navigazione e dei punti di riferimento tradizionali, sono di alcun aiuto; ma la sensazione, allo stesso momento, in quello smarrimento condiviso, che la fede deregolatrice che fu il credo di John McCain durante i suoi ventidue anni al Senato, la sua diffidenza di principio verso un ruolo accresciuto dello Stato federale nella condotta degli affari economici, ovvero il suo lato da Scuola di Chicago ed il suo essere convinto conservatore, siano, ad ogni modo, la peggiore delle soluzioni.

E poi, infine, la crisi morale che gli Stati Uniti stanno attraversando; una profondissima crisi d’identità, quella vertigine che qualche anno addietro ho provato a diagnosticare; il comunitarismo, la balcanizzazione del tessuto sociale, l’allentarsi di un legame di cittadinanza a causa dalla nuova e rovinosa guerra tre le memorie, tra comunità ieri alleate e oggi rivali; insomma, quell’impossibile nazione, quel paese-ed è la sua grandezza-senza nome e senza matrice comune al quale Barack Obama, essendo, l’ho detto spesso, un Nero venuto da fuori, che discende non da una famiglia di schiavi nati nell’Alabama, ma da un Africano del Kenya, era l’unico tra i candidati disponibili a poter restituire il suo fondamento.

Oggi, dunque, affino il pronostico.

Obama vincerà, naturalmente, nel suo Stato, l’Illinois.

Vincerà, anche, nei grossi Stati tradizionalmente in mano ai democratici: quelli della costa Orientale, come lo Stato di New York e la Pennsylvania; quelli della costa Occidentale, quali la California o lo Stato di Washington, con Seattle, la sua capitale.

Ma avrà la meglio, anche, nella seguente serie di “swing states”, i famosi “Stati in bilico” la cui sorte era, fino a questi ultimi giorni, molto incerta, ma che si ritiene stiano schierandosi dalla sua parte: il Nevada, la Virginia, il Colorado, il Michigan, la Carolina del Nord, e senza dubbio l’Ohio.

Non è nemmeno escluso, infine, che avrà la meglio nei tre Stati che inviano rispettivamente 5,11 e 27 delegati al collegio elettorale cui tocca, seconda la Costituzione, l’elezione formale del presidente, l’indomani del 4 novembre- tre Stati che erano bastati, nelle due precedenti elezioni, a fare la differenza tra George W.Bush e Al Gore, e, la volta dopo, tra George W.Bush e Johh Kerry: il Nevada, il Missouri e la Florida.

Bene.

E’ tutto.

E, se le cose andranno come dico, Barack Obama stravincerà su John McCain, con un distacco di un centinaio abbondante di delegati, forse 150- cosicché potrà rimodellare molto profondamente la più potente e, oggi, la più vulnerabile delle economie-mondo.

Per tutti, amici o no dell’America, non esisterebbe epilogo migliore.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 9.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)