Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Come e perché i talebani possono essere sconfitti

Ritorno in Afghanistan con un gruppo di giornalisti al seguito del ministro della Difesa, Hervé Morin. Scarsa visione d’insieme, perché limitata alle vallate di Surobi e di Kapisa. Ma osservazioni ciò nondimeno preziose, perché contrastanti con quanto viene detto in giro.

Prima tappa, Tora, fortino a 20 chilometri da Kabul. Veniamo accolti dal colonnello Benoît Durieux, capo reggimento e autore di un eccellente “Relire 'De la guerre' de Clausewitz”. Ci muoviamo verso Surobi, dove ci aspetta l’assemblea dei malek, i saggi della regione, per l’inaugurazione di una piccola scuola per ragazzi. E scambio di opinioni sul tema dell’alleanza franco-afghana di fronte all’ascesa dei talebani. Il numero di blindati mobilitati per lo spostamento, l’estremo nervosismo degli uomini così come il volo raso terra, talora a 10 metri dal suolo, dell’elicottero Caracal che qui ci ha condotti di buon mattino, non lasciano dubbi sulla serietà della minaccia. Ma nemmeno alcun dubbio sul fatto che la strategia dei militari si basi su un’idea semplice che non ha molto a che vedere con la caricatura che ne danno i media: mostrare che si è lì per fare la guerra, certo, ma anche che questa guerra attiene alla sicurezza, alla pace, all’accesso alle cure e al sapere di un popolo che ha la coalizione come alleata.

Forte Rocco, nel cuore della valle di Uzbin, 10 chilometri più a monte rispetto al punto in cui hanno trovato la morte, nell’agosto del 2008, i dieci legionari del RPIMA. È un altro forte da western, ancora più isolato, circondato dalle montagne. I 159 uomini del capitano Vacina vi alloggiano in tende rafforzate da compensato in previsione dell’inverno. Appena installati, racconta Vacina, ecco le elezioni, il bombardamento talebano dei seggi elettorali, la risposta delle forze regolari afghane appoggiate dai legionari - e, quindi, l’incredibile spettacolo dei contadini che vengono a votare nel frastuono di bombe e mitragliatrici. Forza d’occupazione, veramente? Neocolonialismo, come dicono gli “utili idioti” dell’islamo-progressismo? Gli eserciti, come i popoli, hanno un inconscio. E non nego che la tentazione possa esistere. Ma quel che là osservo, per il momento, è questo: una forza militare che viene per, letteralmente, consentire alla gente di votare e che quindi è presente, non meno letteralmente, a supporto di un processo democratico.

Tagab, nel cuore della valle di Kapisa, più a nord, dove ritrovo il colonnello Chanson che ricorda di quando, quindici anni fa, mi impedì –all'epoca giovane Casco blu a Sarajevo- l’accesso al monte Igman. Configurazione come a Rocco. Stesso paesaggio di montagne, con in basso una vallata verdeggiante ma infestata da gruppi armati. Il forte è stato bombardato ieri. Due giorni prima, un attacco più duro ha provocato un’incursione. E Chanson racconta l’arrampicata verso la posizione avversa; l’occupazione delle due creste di montagna; lo scontro, al ritorno, con un’unità jihadista; la battaglia, durissima; e infine la disfatta degli assalitori. Il bilancio dell’operazione, chiediamo? Il numero esatto delle vittime? Appunto… Sorride… “Io sono ed io resterò l’unico, qui, a saperlo. Perché ecco un altro principio. Ogni talebano ucciso significa un nuovo talebano che nasce. Ogni vittoria strombazzata provoca, automaticamente, umiliazione e vendetta. Di modo che vincere non deve più significare uccidere ma restare, semplicemente restare - essere gli ultimi a rimanere sul campo e mostrarlo”.

Nijrab, 18 chilometri a nord, sempre nel Kapisa. È stazionato qui, in questo quarto forte, il terzo battaglione dell’esercito nazionale afghano comandato dal colonnello Khalili. Ricordo che, nel mio “Rapporto afghano” del 2002 commissionatomi da Jacques Chirac, la prima raccomandazione era: aiutare a costituire un esercito nazionale afghano cui lasciare, appena possibile, la responsabilità di isolare, e poi di mettere fuori gioco, i neofascisti talebani. Ebbene, è quello che sta accadendo, stando a quanto dice Khalli. Spetta a lui l’iniziativa degli assalti. È lui che decide se richiedere o meno i rinforzi del battaglione francese. Ed è sotto il suo comando che si trovano i famosi “consiglieri” americani di cui mi parlava, poco prima, il colonnello americano Scaparotti. Di nuovo, il contrario del cliché. Di nuovo, l’opposto dell’immagine convenuta di una guerra franco-americana di cui gli afghani non sarebbero che le comparse.

Bagram, infine. La base americana. Con la terribile prigione segreta, impossibile da avvicinare, a 200 metri dal luogo in cui mi trovo. E con i 42 uomini del distaccamento francese Harfang addetti stavolta ai due droni SIDM, pilotati da terra dal personale addestrato sul Mirage, e che forniscono alle truppe qualsiasi informazione in grado di ridurre la parte di rischio delle operazioni. Immagine di una guerra “tecnica”, fondata su un’estrema economia di mezzi. Conflitto di “bassa intensità”, la cui via d’uscita, ognuno ne è consapevole, non può essere soltanto militare. E tendenza al “morti zero”, tanto per l’avversario che per i soldati della coalizione stessa. Non ho visto tutto, naturalmente. Ma questo è quanto ho visto: una guerra brutta, come tutte le guerre; ma una guerra giusta; che ha preso un verso meno negativo di quanto si dica; e che i democratici afghani, possono, con i loro alleati, vincere.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 1.10.2009
(traduzione di Daniele Sensi)