Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Tom Cruise e le avventure della dialettica antinazista

L'uscita di “Operazione Valchiria”, prima negli Stati Uniti e in Germania, e, ora, in Francia, è evidentemente una buona cosa. Perché è sempre una buona cosa vedere il mondo onorare i propri eroi (Claus von Stauffenberg, anima del complotto del 20 luglio 1944 che fallì, com’è noto, nel tentativo di uccidere Adolf Hitler).Tuttavia questo film, per quanto appassionante, pone un certo numero di interrogativi - troppo complessi, troppo delicati, per poterli risolvere nella sola logica dell'industria hollywoodiana.

Il primo non è sfuggito ai commentatori tedeschi: riguarda la scelta di Tom Cruise per interpretare il ruolo di un uomo che ci è presentato come l'incarnazione stessa dell'onore anti-hitleriano. Non che l'attore abbia mai manifestato una qualche simpatia per l'hitlerismo. Ma è uno dei dirigenti di una setta, la Chiesa di Scientology, di cui il meno che si possa dire è che i suoi valori non hanno molto a che vedere con quelli che permisero di abbattere suddetto hitlerismo. Elitismo… Darwinismo sociale e politico… Educazione come addestramento… Lavaggio del cervello eretto a principio di convinzione… Sequestri… Applicazione delle tecniche della cibernetica all’organizzazione del legame sociale… Magia nera… Visione apocalittica del mondo… Questa è Scientology. Questo è, quindi, il credo di Cruise. Ed avergli permesso di incarnare Stauffenberg è, da tale punto di vista, un errore, per non dire uno sbaglio - o, come ha detto Berthold von Stauffenberg, il figlio, quando ne fu informato, un grave, un gravissimo oltraggio alla memoria del defunto.

Il secondo interrogativo è invece inerente a questo tipo di operazioni, e porta a chiedersi se l'eroizzazione di un personaggio non avvenga, ahimè, a discapito della precisione, della sfumatura e della storia stessa. Il film mostra bene l'integrità di Stauffenberg. Mostra il suo coraggio, l'elevatezza delle sue vedute, la sua fermezza d'animo. Ma che ci dice dei suoi pensieri? Cosa ci insegna della sua entusiastica adesione, nel 1933, al nazismo? Perché non specifica cosa, di questo nazismo degli inizi, egli dovette ripudiare per portare a termine il complotto, e ciò che, invece, conservò? Jünger, per esempio? Spengler? Conservò l'ostilità senza riguardi nei confronti di Weimar e della democrazia, ostilità che egli condivideva con quegli altri membri dei corpi franchi della prima ora che restarono, loro, fedeli al nazionalsocialismo e al suo frenetico antisemitismo? La speranza era sbarazzarsi di Hitler o dell'hitlerismo? Di un cattivo tiranno o del principio di ogni tirannia? Il progetto era di distruggere il nazismo o di salvarlo? E perché il film non si dilunga sul vero e tragico paradosso della vicenda? Perché non illustra quello che si dovrebbe chiamare il "teorema di Stauffenberg", per il quale bisognava avvicinarsi molto, moltissimo a Hitler (una prossimità che, tenuto conto della società di iper-sorveglianza hitleriana, non poteva essere né finta né fittizia) per avere la possibilità, come Stauffenberg, di accedere alla Tana dei lupi per deporvi la valigetta con l'esplosivo? Credo di non offendere la memoria di nessuno dicendo che resta aperta, dopo “Operazione Valchiria”, la questione della comunità di valori (eh sì!) fra il nazismo e certi suoi avversari; o anche che potrebbe esserci, dopo tutto, e in seconda analisi, una forma di Witz, di logica nascosta, di astuzia della Storia, nell'incontro fra l'attore di Scientology e i golpisti del luglio 1944.

E poi resta, infine, il terzo rischio che si corre con questo film e che consiste nel vedere l'albero Stauffenberg, nascondere la foresta della resistenza tedesca all'hitlerismo, così come la descrive Joachim Fest in un libro che esce in questi giorni e che bisogna leggere come contrappunto a “Operazione Valchiria”. Poiché nella casta degli alti ufficiali hitleriani, c'è già una differenza fra cospiratori tardivi (Stauffenberg) e precoci (solo nel 1938, e dall'interno stesso dell'esercito, Hans Oster e Hans von Dohnanyi). Ci sono, nella galassia generata dall'esplosione del primo nucleo nazional-socialista, i nazional-bolscevichi che rompono, come Niekisch, fin dal 1934; i nazional-conservatori, nostalgici, come Canaris, di una grande alleanza a Est infranta dalla rottura dell'accordo Stalin-Hitler; i rivoluzionari conservatori, il cui prototipo fu Hermann Rauschning, autore de “La rivoluzione del nichilismo” . Ma ci sono soprattutto persone semplici, come il falegname Georg Elser, autore di un tentativo di assassinio di Hitler nel 1939. Ci furono associazioni studentesche, come quella “La rosa bianca” che nascose ebrei durante tutta la guerra. Ci furono socialisti. Cattolici. Ebrei. Ci furono operai berlinesi, eroi di un romanzo di Fallada che Primo Levi diceva essere il più bel libro sulla resistenza tedesca antinazista. E ci furono, infine, quei weimariani impenitenti, come Willy Brandt, che preferirono esporsi al rimprovero di essere “disertori” all’irrimediabile disonore di dover portare l'uniforme della Wehrmacht e, quindi, dei cospiratori del 20 luglio.

Cancellare queste distinzioni, tutte queste distinzioni, questa è trappola. Sottolinearle, incriminarle, rifare instancabilmente la distinzione fra la cultura di guerra dei nazisti e di alcuni loro oppositori da un lato e, dall’altro, l'antinazismo radicale degli eredi di Willy Brandt, questo è il compito che impone la confusione stessa del film. Un compito per la Germania. Un dovere per l'Europa.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 29.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Barack Obama, un'opportunità per il mondo

La principale notizia della settimana è che Barack Obama non è più nero. Eh sì. Gli Stati Uniti funzionano così. Hanno votato per lui perché era nero e perché la sua elezione sarebbe stata il coronamento della lunga marcia inaugurata, due anni dopo la sua nascita, da un “sogno” di Martin Luther King. Alcuni hanno votato contro di lui perché era nero e per il permanere, negli Stati Uniti, malgrado la rivoluzione senza eguali compiuta in una cinquantina d’anni, di sacche di segregazionismo e di razzismo. Oggi, la battaglia è vinta. L’era della segregazione di Stato è stata ricacciata nel passato. E Barack Obama è, in linea allo slogan lanciato quattro anni fa, a Boston, durante il suo primissimo “grande” discorso, il 44° presidente, non di questa o di quell’altra America, ma degli Stati uniti d’America. Ristrutturazione del campo visivo. Fine della politica concepita come regione della pigmentologia. Né nero, né bianco, neppure meticco-Obama.

La seconda cosa che noi europei dovremmo metterci, al più presto, in testa, è che Barack Obama non è “di sinistra”. Esiste, contrariamente alla leggenda, una sinistra americana. Esiste una frangia del Partito democratico che, d'altronde, si è adeguata non senza reticenze o resistenze a colui che ancora era solo il carismatico giovane senatore dell’Illinois. Barack Obama è talmente poco di sinistra che ha nominato, nei posti chiave, personalità repubblicane (Robert Gates, confermato alla Difesa; Ray LaHood, scaraventato ai Trasporti) o tecnocrati ultra-pragmatici (Timothy Geithner al Tesoro; Lawrence Summers alla testa del Consiglio economico; Peter Orszag, direttore dell’Ufficio della gestione e del budget) che hanno davvero ben poco a che vedere con ciò che, in Europa, chiamiamo sinistra. Barack Obama non è Che Guevara. Barack Obama non è membro d’onore del Partito socialista francese. Barack Obama –ed è già cosa grandiosa!- è l’incontro, nello stesso corpo, sul tavolo da dissezione dell’iconologia americana, della doppia anima di King e di JFK.

Terza sciocchezza che speriamo ci sarà evitata nell’imminente valanga di commenti: Barack Obama non è, non sarà, il presidente del “declino dell’impero americano”. Chiuderà Guantanamo, naturalmente. Uscirà dall’Iraq prima della fine del 2011 – lo ha promesso. Romperà con l’ideologia dell’esportazione “messianica” e “forzata” degli ideali democratici – è probabile. Ed anche, senza dubbio, userà, nelle relazioni con gli alleati, quella retorica improntata al multilateralismo che tanto mancava a George Bush. Ma che non si conti su di lui, però, né per vedere l’America battersi il petto, né per farla cedere dinanzi a Chavez o ad Ahmadinejad, e nemmeno per accelerare l’avvento del mondo multipolare sognato dai russi e dai cinesi. Gli Stati Uniti resteranno gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non distribuiranno nuove verghe per farsi percuotere dall’antiamericanismo planetario. Gli Stati Uniti, che piaccia o no, faranno quanto sarà loro possibile per continuare ad essere, sotto Obama, la prima potenza economica, politica, militare, del mondo.

E il cambiamento, allora? In politica interna, si svilupperà su tre terreni principali. La riforma di un sistema di assicurazione sanitaria che esclude 46 milioni di americani poveri e a cui si sono adattati, fino a lui, tutti i presidenti degli Stati Uniti (compreso, ahimè, Bill Clinton). Un New Deal neokeynesiano finalizzato alla ricostruzione di una rete di infrastrutture (strade, ponti e dighe a New Orleans, quartieri distrutti a Detroit, Cleveland, Buffalo o nella stessa Los Angeles) il cui stato è talvolta degno del più abbandonato dei paesi del terzo mondo. E poi la riforma di un sistema finanziario sul quale gli osservatori più accorti (Nouriel Roubini, Harry Markopolos o ancora il premonitore autore del “Cigno nero”, Nassim Nicholas Taleb) richiamavano, urlando, l’attenzione, poiché esso avrebbe condotto il mondo alla catastrofe: ma l’ideologia deregolatrice non ha permesso che questi fossero ascoltati. Se Obama si impegnerà in questi tre compiti, se aprirà, senza tardare, questo triplo cantiere, allora sarà, per l’America di oggi, più che un cambiamento di rotta, una rivoluzione.

E quanto alla politica estera, infine, ciò che si sa delle convinzioni, delle dichiarazioni, perfino dei retropensieri del nuovo presidente porta a credere che essa conoscerà, oltre a quello riguardante l’Iraq, due punti principali di flessione. Il dossier mediorientale: Obama non aspetterà il termine del secondo mandato, come fecero Clinton e Bush, per rendersi conto dell’urgenza e per lanciarsi in un patetico sprint finale volto allo strappo di un impossibile accordo tra palestinesi e israeliani. I rapporti con il Pakistan: manterrà l’alleanza; forse persino la rinforzerà; ma romperà con l’incondizionalità che ha caratterizzato le tre ultime amministrazioni e che ha fatto del “paese dei Puri” il paese più pericoloso del pianeta; altrimenti detto, porrà precise condizioni attinenti alla sincerità della lotta contro quegli elementi di Al-Qaeda infiltrati nei servizi segreti del paese ed al controllo di un arsenale nucleare che nessuno, oggi, può garantire che non possa cadere, un giorno o l’altro, nelle mani degli jihadisti. Anche per questi due motivi, l’elezione di Barak Obama rappresenta un’opportunità per il mondo.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 22.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Appunti di guerra

Yuval Diskin è il capo dello Shin Bet, il mitico e temibile Servizio di sicurezza interna dello Stato di Israele. Per quanto ne sappia, non ha mai parlato. Comunque, non dopo l'inizio di questa guerra. Ha una quarantina d'anni. È alto. Massiccio. Un aspetto da militare, smentito dal suo abbigliamento: jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Mi riceve, all'alba, nel suo ufficio a nord di Tel Aviv che, con le sue feritoie orizzontali, assomiglia a una casamatta. «Tutto questo per Sderot? — comincio io —. Questo diluvio di fuoco, e le vittime, per fermare i Qassam su Sderot, sulle altre città e sui kibbutz del Sud del Paese?». «Sì, certo — mi risponde irritato —. Nessuno Stato al mondo tollererebbe di veder cadere così, tutti i giorni, le granate sulla testa dei propri cittadini». Poi, visto che gli rispondo di saperlo e gli dico che, per una questione di principio e di solidarietà, vado a Sderot ogni volta che arrivo in Israele, e aggiungo che forse, negoziando, si poteva evitare di giungere a questo punto, egli s'interrompe, alza le spalle e, con il tono di chi decide, visto che gli altri ci tengono, d'entrare nei dettagli, riprende.

«Bisogna che lei capisca, in questo caso, chi sono quelli di Hamas. Noi li conosciamo meglio di chiunque. Talvolta, ho l'impressione di esser capace di seguire in tempo reale anche le loro minime decisioni, talvolta di precederle. Ebbene, siamo consapevoli di tre cose». Gli portano una tazza di caffè che beve in un sorso. «Intanto, la loro strategia, che è quella dei Fratelli musulmani di cui sono l'emanazione e che mira a prendere il potere, sulla lunga durata, in Libano, in Giordania, in Israele...». Faccio un cenno per dire che so. «Bene. In seguito, l'alleanza con l'Iran, che può sembrare contro natura tanto è pesante il contenzioso fra sunniti e sciiti, ma di cui conosciamo tutta la storia». La data: 1993. Lo scenario: un consiglio di ulema siriani, sauditi, cisgiordani, cittadini di Gaza. L'ispiratore: l'egiziano El Kardaoui, importatore in terra sunnita della strategia sciita degli attentati suicidi. «Infine, l'essenziale: la rete di trecento tunnel, scavati sotto la frontiera egiziana col tacito accordo di Mubarak il quale, ogni volta che ne parlavamo, giurava che se ne sarebbe occupato, ma purtroppo non faceva nulla, tanto era il timore di contrariare i suoi Fratelli musulmani». Come i pacifisti israeliani, si può pensare che la distruzione di quei tunnel sarebbe bastata. Si può ritenere — è il mio caso — che, avendo questa guerra già avuto come effetto di far scoprire al mondo intero l'esistenza dei tunnel e di aver messo quindi gli egiziani con le spalle al muro, Israele potrebbe fermarsi e decidere fin da oggi, 11 gennaio, un cessate il fuoco. Quel che non si può ignorare è il contesto: Gaza che, evacuata, non diviene l'embrione dello Stato palestinese tanto desiderato, ma la base avanzata di una guerra totale contro lo Stato ebraico.



Mi trovo a Baka-el-Garbil, vicino a Um-el-Fahem: è una delle città di arabi israeliani che nel 1948 hanno scelto di restare a casa loro e costituiscono, sessant'anni dopo, il 20 per cento della popolazione del Paese. Questo pomeriggio, la città è scesa in piazza: 15.000 persone protestano contro il «genocidio» di Gaza. Ci sono militanti, che indossano la kefiah a scacchi del Fatah. Altri, che sventolano la bandiera verde di Hamas. Vedo anche, all'inizio del corteo, giovani incappucciati che urlano — ricordo che siamo nel centro di Israele — facendo appello all'Intifada, alla Jihad, al martirio. «Questo Israele che voi rigettate non è il vostro Israele? — chiedo a uno di loro —. Non è lo Stato di cui siete cittadini allo stesso modo e con gli stessi diritti degli altri suoi cittadini?». Il ragazzo mi squadra come fossi un pazzo. Mi risponde che Israele è uno Stato razzista che lo tratta come una sottospecie, gli vieta di frequentare università e night- club e, di conseguenza, non si deve aspettare da parte sua che gli sia fedele. Raggiunge quindi i suoi compagni, abbandonandomi alle mie perplessità: bella solidità di una democrazia che, in tempo di guerra, si accontenta che un cittadino su cinque sia sull'orlo della secessione politica; e vertiginosa fragilità di un legame sociale di cui vediamo bene come potrebbe, dall'interno, sciogliersi. Altro contesto? No. Ma situazione di Israele.

«Nulla giustifica la morte di un ragazzino — mi ha detto Asaf, 33 anni, proprietario di un ristorante a New York e, nei periodi da riservista, pilota di elicotteri Cobra —. Nulla. Per questo, quando il rischio esiste, quando in cabina di pilotaggio mi accorgo che, prendendo di mira un obbiettivo militare, potrei colpire anche dei civili, lascio perdere e torno alla base». Ho sfidato Asaf a darmi la prova di quanto dice. È così che mi trovo nel Negev, sulla base di Palmachim, il sancta sanctorum della tecnologia israeliana dove in particolare sono stati sperimentati i famosi missili anti- missili Arrow. A bordo, videocassette di Asaf. Registrazione del suo dialogo, il 3 gennaio, con un interlocutore a terra durante il quale l'informa che ha deciso di interrompere la missione perché il «terrorista» in linea di mira è stato raggiunto da un bambino. E filmati incredibili — ne ho visti quattro — di missili già lanciati che il pilota, vedendo apparire un civile sul suo schermo o una jeep presa a bersaglio entrare nel garage di un edificio di cui non sono stati avvertiti, come è d'uso, gli occupanti, fa dirottare in piena corsa e esplodere in un campo. Che non tutti abbiano gli stessi scrupoli, lo immagino (infatti, come spiegare altrimenti i troppo numerosi e inaccettabili bagni di sangue?). Ma che in Tsahal esistano persone come Asaf, che le procedure comandino di agire piuttosto come Asaf, insomma che Asaf non sia l'eccezione ma la regola, è importante dirlo (e pazienza per il cliché che vuole ridurre Tsahal a un'accozzaglia di bruti che si accaniscono su donne e vegliardi).

Ehud Barak è a casa sua. L'avevo visto ieri a Palmachim, circondato dai suoi generali. Lo ritrovo oggi, in un salone lungo lungo, che sembra costruito attorno ai due pianoforti che egli suona da virtuoso. Anche lui evoca il dilemma morale a cui il suo esercito è confrontato. Descrive il calcolo di Hamas che, proprio perché sa come funzionano gli israeliani, installa i suoi depositi di armi nel cortile di una scuola, nella sala di un ospedale, in una moschea. «Delle due l'una — mi spiega con un tono in cui si scorge, ci giurerei, una curiosità da stratega di fronte a una tattica inedita —. O ne siamo informati e non spariamo, e loro hanno vinto. Oppure l'ignoriamo e spariamo, e loro filmano le vittime, inviano le immagini alle televisioni e hanno ugualmente vinto». Mi accingo a chiedergli come l'uomo di Camp David, la Colomba che offrì ad Arafat, nove anni fa, le chiavi di uno Stato palestinese che questi non volle, viva personalmente questo dilemma. E sto per fargli osservare che Israele non sarebbe a questo punto senza la serie di occasioni mancate, di passi falsi, di cecità dei governi che seguirono. Ma suona il telefono. È Condoleezza Rice che chiama per spingerlo, appunto, a concludere al più presto un cessate il fuoco. Perché al più presto, secondo lei? Il ministro-pianista sorride. Perché, per una questione di pochi giorni, lo stesso cessate il fuoco sarà opera sua, di Condy, o dell'altro Barack (Obama) che le ruberà la sua eredità.

Amos Oz è prostrato. Il grande scrittore, coscienza del Paese e, in particolare, del campo della Pace, autore di Aidez-nous à divorcer. Israël Palestine: deux Etats maintenant (Editions Gallimard 2004) che ritrovo a Gerusalemme dal nostro amico comune Shimon Peres, ricorda come Tsahal dovette trattare, sette anni fa, la vicenda del «genocidio di Jenin» (66 morti, di cui 23 israeliani). Poi, quando ci fu la guerra in Libano, il dramma di Cana (remake, secondo alcuni, dell'assalto al ghetto di Varsavia). Parliamo anche delle armi terrificanti che utilizzerebbe Tsahal (il cui effetto sarebbe di «assorbire» l'ossigeno attorno al punto di impatto). La voce che circola quel giorno, la storia di una casa, nella zona di Zeitun, dove sarebbero state attirate cento persone prima che si sparasse nel mucchio, gli sembra tuttavia così insensata che non sa come interpretarla, né come abbia preso forma. Pare che tutto sia cominciato con una vaga testimonianza raccolta da una Ong (Organizzazione non governativa). Poi ci si son messi i giornalisti: «Che si lasci entrare la stampa! Come possiamo smentire i "si dice" se non siamo presenti? ». Dopodiché, è il villaggio mediatico planetario ad agitarsi: «Tsahal avrebbe... Tsahal potrebbe... Il dottor X conferma che Tsahal sarebbe all'origine di...». Questi condizionali sottili e per modo di dire prudenti sono un vero veleno. Fra due giorni non si parlerà più delle dicerie di Zeitun. Ma quali saranno le conclusioni della gente? Che era una voce assurda? O che un orrore scaccia l'altro e che Tsahal, nel frattempo, avrebbe superato un altro gradino sulla scala dell'abominio e del crimine? Amos Oz, il Camus di Israele. La disinformazione, o il mito ebraico di Sisifo.

Un'altra voce, di cui io stesso ho potuto verificare l'infondatezza, è quella del «blocco umanitario». Sorvolo sul caso dell'Ospedale Shiba di Tel Aviv, il cui vice- direttore, Raphi Walden mi spiega che il 70 per cento dei pazienti sono palestinesi. Sorvolo sulla vicenda delle ambulanze colpite per sbaglio da Tsahal, ma deliberatamente bloccate dal ministero della Salute di Hamas, che prende in ostaggio i suoi civili e soprattutto non vuole che siano curati all'ospedale Soroka di Beer Sheva. L'informazione decisiva la ricevo il 14 gennaio, al terminal di Keren Shalom, estremo sud della striscia di Gaza, dove un centinaio di camion passano, come ogni mattina, sotto gli occhi vigili dei rappresentanti delle Ong. Farina, medicinali, alimenti per neonati, coperte. Nulla, nessuno e soprattutto non gli abituali soccorsi umanitari potranno attenuare, qui come altrove, le sofferenze delle famiglie che hanno perso uno dei loro cari. Ma i fatti sono i fatti. E il fatto è che più di 20.000 tonnellate sono entrate, dall'inizio dell'operazione, sotto le insegne dell'Unicef o del World Food Program. Come mi dice il colonnello Jehuda Weintraub il quale, in un'altra vita, scrisse una tesi su Chrétien de Troyes e che, a sessant'anni, si impegna nel «coordinamento » degli aiuti: «La guerra è sempre orribile, criminale, piena di furore; perché aggiungere, alla sua atrocità, la menzogna?».

A Parigi, si alzano i toni. Jean-Marie Le Pen dichiara che Gaza è un campo di concentramento. Altri, vicini alla sinistra radicale, gridano che da molto tempo non c'era stato un massacro di musulmani peggiore di quello degli abitanti di Gaza. E i 300.000 del Darfur? E i 200.000 bosniaci? E le decine di migliaia di ceceni che Putin andò a «snidare fin dentro i cessi» e che non vi strapparono neanche una lacrima? Diversamente da voi, desideroso di provare almeno ad andare a vedere, il 13 gennaio, scesa la notte, sono entrato nei sobborghi di Gaza City, nel quartiere Abasan Al-Jadida, un chilometro a nord di Khan Yunis, «embedded» nell'unità di élite Golani. So, per averlo evitato tutta la vita, che il punto di vista dell'«embedded» non è mai il buon punto di vista. E non pretenderò di aver capito in qualche ora lo spirito di questa guerra. Ma, detto questo, ecco la mia testimonianza. I combattenti di Varsavia non avevano, purtroppo, le mine anticarro come quella appena esplosa sotto le ruote di un veicolo passato venti minuti prima del nostro. I loro aggressori non conoscevano quella stanchezza, quel profondo disgusto per la guerra che esprimono il comandante Gidi Kfirel e i quattro riservisti che ci accompagnano. Infine, posso sbagliarmi, ma le poche, le pochissime cose che vedo (palazzoni immersi nell'oscurità ma in piedi, frutteti all'abbandono, la via Khalil al-Wazeer con i negozi chiusi) indicano una città frastornata, che si trova in trappola, terrorizzata, ma certamente non una città rasa al suolo, come poterono esserlo Grozny o certi quartieri di Sarajevo. Questo è ancora un fatto.

Ehud Olmert a Gerusalemme. Racconta, non senza comicità, il balletto dei mediatori troppo frettolosi. Torna a parlare del doppio gioco di un Mubarak che la comunità internazionale dovrà pur costringere a chiudere le sue frontiere ai beduini contrabbandieri. Ma ecco che Olmert cambia tono. E con una voce più bassa, quasi confidenziale, comincia a raccontarmi l'ultima visita di Abu Mazen, tre settimane fa, proprio in questo ufficio, dove ora mi trovo io. «Gli ho fatto un'offerta. 94,5 per cento della Cisgiordania. Più 4,5 per cento sotto forma di scambio di territori. Più un tunnel, sotto il suo controllo, che colleghi la Cisgiordania a Gaza e che equivale all'1 per cento mancante. Quanto a Gerusalemme, una soluzione logica e semplice: i quartieri arabi per lui; i quartieri ebraici per noi; e i Luoghi Santi sotto un'amministrazione congiunta saudita, giordana, israeliana, palestinese, americana. Abu Mazen m'ha chiesto di lasciargli il foglio su cui avevo disegnato lo schema. Non gliel'ho dato, perché lo conosco e so che, la prossima volta, l'avrebbe utilizzato come punto di partenza di un contro-negoziato. Comunque, l'offerta c'è... Aspetto...». È troppo bello per essere vero? Possibile che siamo passati, così di recente, tanto vicini alla pace?

Abu Mazen non è a Ramallah, capitale dei palestinesi moderati. E nemmeno Yasser Abed Rabbo, con il quale una volta sostenemmo il piano di pace di Ginevra e che, anche lui, si trova al Cairo. Al loro posto, in un edificio del centro, incontro Mustafa Barghuti, presidente della Palestinian Relief Society, e Mamdouh Aker, medico, autorità morale e veterano del dialogo israelo-palestinese. Né l'uno né l'altro credono alla serietà di un'offerta di pace proposta da un primo ministro che sta per lasciare il proprio posto. Entrambi parlano severamente di Abu Mazen, colpevole di instaurare uno «Stato poliziesco». Soprattutto, mi rendo conto di come stiano attenti a non dire nulla che sembri attaccare Hamas che, come sanno, ha la solidarietà della piazza palestinese. Eppure, riflettendo bene, ascoltando il primo parlarmi con nostalgia del «piano saudita » di coesistenza dei due Stati, osservando il secondo animarsi solo nell'evocare la sua «Lettera a Yitzhak Rabin», pubblicata nel 1988 dal Jerusalem Post perché i giornali arabi l'avevano rifiutata, guardando infine, al ritorno, l'atteggiamento dei giovani e il volto scoperto delle ragazze che fanno la fila con me per entrare a Gerusalemme, al check-point di Kalandiya, mi sorprendo a crederci di nuovo. Ma certo, eccoli qua, gli interlocutori di Israele. Sono qui i partner della pace futura. Una pace malgrado tutto. Una pace al di là delle devastazioni e delle lacrime. Una pace ragionata, senza effusioni né entusiasmi, ma forse, per questo, più che mai a portata di mano. Due popoli, due Stati. Una pace, e nulla di più.

Bernard-Henri Lévy, Le Journal du Dimanche, 18.01.2009

(traduzione per il Corriere della Sera, Daniela Maggioni)

L'analisi Da Ramallah - I veri palestinesi sono moderati


Tralasciamo il «Morte agli ebrei» su alcune bandiere durante le manifestazioni di Bruxelles, Parigi o Madrid. Tralasciamo il sindacato italiano della Flaica-Cub che in «segno di protesta» contro l'operazione israeliana a Gaza fa un appello — avvenimento senza precedenti in Europa, da tre quarti di secolo — a «non comprare più nulla nei negozi appartenenti a membri della comunità ebraica». Non avrò la crudeltà di insistere sull'asse, a dir poco nauseabondo, che si forma quando la signora Buffet ( dirigente del partito comunista francese, n.d.t.), il signor Besançenot ( dirigente di un nuovo partito anticapitalista N.P.A, n.d.t.) e altri vengono raggiunti in testa di corteo dal faurissoniano ( Robert Faurisson, celebre negazionista, n.d.t.) Dieudonné ( attore comico francese, n.d.t.) o quando il suo degno compare, Jean-Marie Le Pen, si unisce al coro per paragonare la Striscia di Gaza a «un campo di concentramento».

Per un caso, proprio da Ramallah, capitale dell'Autorità palestinese, e poi da Sderot, la città israeliana alla frontiera di Gaza continuo bersaglio del fuoco dei razzi Qassam, scopro le immagini di simili manifestazioni di sostegno alla «causa palestinese». Proprio da questi due luoghi, vedo le folle di europei urlanti, vociferanti e scatenati: le immagini scorrono mentre sono in compagnia di persone la cui sola preoccupazione resta, malgrado le bombe, le sofferenze e i morti, quella di non perdere mai il filo della convivenza e del dialogo. Voglio dunque aggiungere alcune riflessioni a quelle già fatte nei giorni scorsi e che hanno dato vita, da parte degli internauti di Point, a una enorme serie di reazioni. Primo.

Che sollievo vedere i palestinesi veri, reali, anziché quelli immaginari che, in Francia, pensano di fare la resistenza prendendo di mira le sinagoghe! I primi, lo ripeto, si impongono di essere moderati e con ammirevole sangue freddo si sforzano di mantenere le chance della convivenza di domani; i secondi sono rabbiosi, più radicali dei radicali, pronti alla violenza, nelle strade di tutta Europa, fino all'ultima goccia di sangue dell'ultimo palestinese. I primi considerano e riflettono, sanno che niente in questa storia è tutto nero o tutto bianco, e conoscono la schiacciante responsabilità di Hamas nel disastro in cui sta precipitando il loro popolo. I secondi, come se la confusione non fosse già abbastanza, si bevono di gusto le enormi panzane della propaganda anti-israeliana e fanno dei teorici dell'attentato suicida e dello scudo umano, dei nuovi Che Guevara, di cui sfoggiano emblemi e simboli: anziché infondere calma, mettono in scena la politica del peggio, infiammando gli animi.

Secondo. Quale regressione, quale azzeramento del pensiero e dell'azione, da parte di costoro, che da lontano, ignorando i contorni del dramma, fomentano odio, quando invece si dovrebbe fare di tutto per andare nel senso della pace e della riconciliazione! La pace vuole due Stati che accettino di vivere l'uno accanto all'altro, e che comincino a dividersi la terra; la pace vuole, da entrambe le parti, la rinuncia all'estremismo, a posizioni radicali, ai luoghi comuni, e perfino ai sogni. La pace implica, per esempio, che Israele si ritiri dalla Cisgiordania così come si è ritirata dal Libano e da Gaza, ma implica l'esistenza di una parte palestinese che non tragga vantaggio dalla ritirata per trasformare, ogni volta, il territorio evacuato in una base per il lancio di missili sui civili. La pace deve passare per il cessate il fuoco, per la fine della guerra che sta facendo un insostenibile numero di vittime, soprattutto tra i bambini. Ma questa pace passa anche attraverso l'eliminazione politica di Hamas, cui poco o nulla importa delle vittime, e della pace — e che, non essendo stata capace di imporre la sharia al suo popolo, lo trascina sulla via del «martirio» e dell'inferno.

Terzo. Sono a Ramallah, dunque. A Sderot e a Ramallah. E vedendo da Sderot e da Ramallah questa mobilitazione contro un «olocausto», che nel momento in cui scrivo è di 888 morti, mi faccio una semplice domanda. Dov'erano i manifestanti quando si trattava di salvare, non gli 888, ma i 300.000 morti dei massacri programmati del Darfur? Perché non si sono visti nelle strade quando Putin radeva al suolo Grozny e trasformava decine di migliaia di ceceni in tiro al bersaglio? Perché hanno taciuto quando, tempo prima, e per anni, e stavolta nel cuore stesso dell'Europa, sono stati sterminati 200.000 bosniaci, il cui solo crimine era quello di essere nati musulmani? Per alcuni, i musulmani sono buoni solo quando sono in guerra con Israele. Meglio ancora: ecco i nuovi seguaci dell'antico «due pesi, due misure » che si preoccupano della sofferenza di un musulmano solo quando possono attribuirne la colpa agli ebrei. L'autore di questo articolo ha manifestato, in prima fila, per il Darfur, per la Cecenia e per la Bosnia. Si batte, da 40 anni, per un valido stato palestinese accanto a quello di Israele. Mi si permetterà di considerare questo doppio atteggiamento ripugnante e frivolo.

Bernard-Henri Lévy, Corriere della Sera, 14.01.2009

Liberare i palestinesi da Hamas

Non sono un esperto militare, mi asterrò quindi dal giudicare se i bombardamenti israeliani su Gaza potevano essere più precisi, meno intensi. Non sono mai riuscito, da decenni, a distinguere fra morti buoni e cattivi o, come diceva Camus, fra «vittime sospette» e «carnefici privilegiati», ragione per cui sono sconvolto pure io, ovviamente, dalle immagini di bambini palestinesi uccisi.

Ciò detto, e tenuto conto del vento di follia che, ancora una volta, come sempre quando si tratta di Israele, pare impadronirsi di certi media, vorrei ricordare alcuni fatti.

1. Nessun governo al mondo, nessun altro paese se non quest’Israele vilipeso, trascinato nel fango, demonizzato, tollererebbe di vedere migliaia di granate cadere, per anni, sulle proprie città: in questa vicenda, la cosa più sorprendente, il vero motivo di stupore, non è la «brutalità» di Israele - bensì, letteralmente, che Israele si sia tanto a lungo trattenuto.

2. Il fatto che i Qassam di Hamas e, ora, i suoi missili Grad, abbiano provocato così pochi morti non significa che essi siano artigianali, inoffensivi, ecc., ma che gli israeliani si proteggono, vivono rintanati nelle cantine dei loro edifici, nei rifugi: un’esistenza da incubo, in sospeso, al suono delle sirene e delle esplosioni - sono stato a Sderot, io so.

3. Il fatto che le granate israeliane facciano, al contrario, tante vittime, non significa, come sbraitavano i manifestanti lo scorso week-end, che Israele si abbandoni ad un «massacro» deliberato, ma che i dirigenti di Gaza hanno scelto l’atteggiamento inverso ed espongono le loro popolazioni: vecchia tattica dello «scudo umano » che fa sì che Hamas, come Hezbollah due anni fa, installi i propri centri di comando, i depositi d’armi, i bunker, nei sotterranei degli edifici, degli ospedali, delle scuole, delle moschee - tattica efficace ma ripugnante.

4. Tra l’atteggiamento degli uni e quello degli altri esiste, comunque, una differenza capitale che non possono ignorare coloro che vogliono farsi un’idea giusta, e della tragedia, e dei mezzi per porvi fine: i palestinesi mirano sulle città, ovvero sui civili (e questo, nel diritto internazionale, si chiama «crimine di guerra»); gli israeliani, invece, su obiettivi militari, provocando, senza volerlo, terribili danni civili (cosa che, nel linguaggio della guerra, ha un nome, «danni collaterali», che, seppur odioso, rimanda ad una vera dissimmetria strategica e morale).

5. Poiché occorre mettere i puntini sulle i, ricorderemo ancora un fatto al quale stranamente la stampa francese ha dato poco risalto e di cui non conosco ciononostante alcun precedente, in nessun’altra guerra, da parte di nessun altro esercito: le unità di Tsahal, durante l’offensiva aerea, hanno sistematicamente telefonato (la stampa anglosassone parla di 100.000 chiamate) agli abitanti di Gaza residenti nei pressi dei bersagli militari per invitarli ad evacuare la zona; che questo non cambi nulla della disperazione delle famiglie, delle vite stroncate, della carneficina, è evidente; ma che le cose si svolgano così non è, tuttavia, un dettaglio del tutto privo di senso.

6. Ed infine, quanto al famoso blocco integrale imposto ad un popolo affamato, privo di tutto e precipitato in una crisi umanitaria senza precedenti (sic), anche qui le cose non stanno proprio così: i convogli umanitari non hanno mai smesso di transitare, fino all’inizio dell’offensiva terrestre, per il punto di passaggio Kerem Shalom; solamente nella giornata del 2 gennaio 90 camion di viveri e di medicinali sono potuti entrare, secondo il New York Times, nel territorio; e voglio anche ricordare (cosa che dovrebbe essere evidente, ma, a leggere ed ascoltare taluni, pare sia meglio dirlo…) come gli ospedali israeliani continuino, nel momento in cui scrivo, ad accogliere e curare, tutti i giorni, i feriti palestinesi.

Speriamo che i combattimenti cessino al più presto. E che al più presto i commentatori tornino in sé – scopriranno così che negli anni Israele ha commesso tanti errori (occasioni mancate, lungo diniego della rivendicazione nazionale palestinese, unilateralismo), ma che i peggiori nemici dei palestinesi sono quei dirigenti estremisti che non hanno mai voluto la pace, che non hanno mai voluto uno Stato e che hanno sempre concepito il proprio popolo solo come strumento e ostaggio (immagine sinistra di Khaled Mechaal che, sabato 27 dicembre, mentre si precisava l’imminenza della risposta israeliana tanto desiderata, non sapeva far altro che esortare la propria «nazione» a «offrire il sangue di altri martiri» - e questo dal suo confortevole esilio a Damasco, dal suo nascondiglio…).

Oggi, delle due l’una. O i Fratelli musulmani di Gaza ristabiliscono la tregua che hanno rotto e dichiarano decaduta una Carta fondata sul puro rifiuto dell’«Identità sionista»: ed allora si uniranno al vasto partito del compromesso che, Dio sia lodato, non smette di progredire nella regione - e sarà la pace. Oppure continuano, ostinati, a vedere nella sofferenza dei loro compagni solo un buon carburante per le proprie passioni riacutizzate, per il proprio folle e nichilista odio - ed allora non solo Israele, ma gli stessi palestinesi dovranno essere liberati dall’oscura influenza di Hamas.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 8.01.2009
(traduzione di Daniele Sensi)