Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Cesare Battisti, il Brasile e l'Italia: questione di principio

Occorre ancora ripeterlo?

Qui non si tratta dell’uomo Cesare Battisti.

Non so se abbia commesso o meno i crimini che gli vengono imputati e che lui nega con ostinazione dall’inizio.

E, più in generale, odio il terrorismo, terrorismo di cui egli si fece propagandista e per il quale io non ammetto, mai, circostanze attenuanti.

Ciò detto, assisto alle reazioni della stampa a seguito dell’asilo politico accordatogli dal ministro brasiliano della Giustizia, Tarso Genro.

Osservo, in Italia, lo strano clima d’isteria a fronte dell'idea di veder fuggire un uomo che abbracciò, come migliaia d’altri, l’imbecille tesi della “lotta armata”, ma di cui si sta facendo -sic- il peggior criminale degli anni di piombo, l’incarnazione del loro orrore, la personificazione del male, il diavolo.

E credo che occorra rammentare, ancora una volta, un certo numero di princìpi, a qualunque costo, e anche se il tutto pare poco importante rispetto alla crisi sociale, alla povertà in aumento o all’esplosione in Guadalupe.

1. L’Italia è, senza dubbio, une grande democrazia. Ma anche alle più incontestabili democrazie accade di nascondere punti d’imperfezione e zone d’ombra. Gli Stati Uniti e la pena di morte… La tortura, in Francia, all’epoca della guerra d’Algeria... L’Inghilterra, minata, per decenni, da una guerra civile irlandese che sembrava non potesse risolversi se non nel sangue e nelle leggi d’eccezione... Ebbene, allo stesso modo l’Italia che, nell’urgenza della lotta al terrorismo degli anni 70, si è dotata di un arsenale legislativo contemplante, in particolare, una legge sui pentiti capace di accordare ad un uomo un'impunità totale o parziale a condizione di scaricarne il peso su qualcun altro. E’ quanto accaduto a Battisti. E’ sulla parola di pentiti (tra i quali il suo capogruppo, il sinistro Pietro Mutti) che Battisti è stato condannato, vent’anni fa, all’ergastolo. E a distanza di tempo, ora che si è usciti dallo stato d’emergenza ed è giunto il momento di curare le ferite, vi è, in questa faccenda, qualcosa di inaccettabile.

2. Tra i punti critici della democrazia italiana, c’è un’altra bizzarria, e si tratta di quella legge sulla contumacia per la quale un imputato, condannato in sua assenza e poi catturato dalla giustizia, si vedrà applicare automaticamente la pena già stabilita senza la possibilità, come avviene in Francia per esempio, di essere giudicato un'altra volta. Battisti, durante quel processo in contumacia, fu rappresentato da un avvocato da egli stesso incaricato durante l’esilio messicano? No, dice giustamente Fred Vargas, che, perizie grafologiche alla mano, ha mostrato ai Brasiliani come esistesse più di un dubbio sull’autenticità di quel mandato. E mai, soprattutto, la difesa di un avvocato potrà sostituire completamente la comparizione davanti a un giudice, faccia a faccia, parola contro parola, di un uomo su cui pesano presunti crimini tanto terribili. Qualsiasi cosa abbia fatto o potuto fare, trent’anni fa, il futuro autore di “Cargo sentimentale”, aveva diritto, pure lui, almeno una volta, di incontrare i propri giudici. Ed è perché quel diritto non gli veniva riconosciuto, è perché il Codice penale italiano stabilisce che, in caso di estradizione, gli toccherebbe direttamente la prigione a vita, che non poteva che apparire giusto accordargli, sebbene il termine suona improprio, anche se può scioccare, lo status di “rifugiato politico”.

3. Non si affronta un problema tanto enorme quanto quello degli anni di piombo italiani fabbricando un mostro, incollando sulla sua schiena la totalità dei crimini dell’organizzazione cui apparteneva, cucendogli sulla pelle l’intero carico dei peccati di un’epoca di cui egli non fu che una pallida comparsa - insomma producendo un capro espiatorio la cui esecuzione giudiziaria darebbe la sensazione di essersela sbrigata, a buon prezzo, col doveroso lavoro della rievocazione e del lutto. Tuttavia ciò è quanto ha fatto Silvio Berlusconi estraendo dal cappello, cinque anni fa, quel nome di Battisti che tutti, o quasi, avevano dimenticato. Ed è ciò che fa quella parte dell’opinione pubblica italiana che preferisce cancellare, accusando il solo Battisti, la terrificante complessità di un’epoca in cui si affrontarono i terrorismi di estrema sinistra e i terrorismi di estrema destra, così come gli intrighi mafiosi di uno Stato che strumentalizzava gli uni e gli altri (si veda il film “Il Divo”, che Paolo Sorrentino ha appena consacrato all’inossidabile presidente del Consiglio di quegli e dei successi anni, Giulio Andreotti). Tutto ciò non fa bene né all’Italia di oggi, né alla lotta contro il terrorismo di domani, né, infine, alle vittime che nulla hanno da guadagnare, nulla, nel vedersi gettare in pasto, a saldo di ogni conto, dei colpevoli incerti.

Non so se sia questo, in questi termini, a essersi detto il ministro della Giustizia del presidente Lula. Ma credo che la sua decisione sia stata saggia. Credo che sia irragionevole scatenarsi contro un Brasile trasformato (e con quale disprezzo!) in una repubblica delle banane più nota “per le sue ballerine che per i suoi giuristi”. Perché la verità di una vicenda che non sarebbe mai dovuta diventare “l’affare Battisti” è questa: poco importano, in simili casi, le persone; poco importa che queste abbiano bell’aspetto, stampa favorevole, buona reputazione o che ispirino simpatia; i princìpi sono princìpi solo se ad essi non si ammettono eccezioni.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 19.02.2009
(traduzione di Daniele Sensi)

Vent'anni fa, l'affaire Rushdie

Ricordo tutto come fosse ieri.

In comune la stessa età. E la stessa passione per l’India, così come il privilegio di aver conosciuto, e di averne parlato nei nostri libri, Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir, il vecchio Primo ministro ucciso per impiccagione. Osservo da lontano il percorso di questo contemporaneo quasi perfetto, quando, un giorno di febbraio del 1989, giunge la notizia: l’ayatollah Khomeyni, cui non restano che pochi mesi di vita, ha appena promulgato una fatwa di morte contro l’autore dei “Versetti satanici”.

Come molti altri scrittori la mia reazione è immediata, e si contrappone alle prudenze dei responsabili politici e religiosi del pianeta: solidarietà istintiva, incondizionata, al romanziere. Questo perché sento, tra l’altro, che qualcosa di essenziale sia in gioco lì, sotto i nostri occhi, nel fragoroso furore delle sommosse di Karachi, Delhi o Londra: la vita di un uomo, ovvio; il diritto di un romanziere di poter continuare a dar vita alle proprie finzioni, senza dubbio; ma, anche, uno sconvolgimento di sostanza, profondo, nel paesaggio ideologico contemporaneo.

Venti anni dopo, non ho cambiato parere. Salman è più tranquillo, quasi libero (dico “quasi” perché, sebbene egli abbia l’estrema eleganza di vivere come se niente fosse, una fatwa “sospesa” resta pur sempre una fatwa) – ma non ho di fatto modificato una virgola della mia analisi.

1. La questione dei “Versetti” inaugura una serie di regressioni il cui primo esempio è l’episodio delle caricature di Maometto. Certo, le situazioni sono differenti. Ma s’è trattato del medesimo orrore. La stessa reazione di immobilismo da parte dei grandi giornali che, salvo rare eccezioni, si guardarono bene dal solidarizzare con il loro collega danese vilipeso. E la stessa capitolazione a fronte di gruppi rivendicanti il diritto di sostituire la loro legge privata alle leggi della Reppublica. In Francia, Charlie Hebdo ha salvato l’onore.

2. La questione segna una svolta nell’idea che ci facciamo del principio di tolleranza. Essa tolleranza, fino alla fatwa, era quel principio per il quale la parola della maggioranza salvaguarda il diritto di quella delle minoranze, lasciando loro, nello spazio pubblico, luoghi di espressione. Dopo la fatwa, essa diviene il diritto, per qualunque minoranza, di perseguire proponimenti che sono la negazione dello spirito democratico. Eccola, ad Amsterdam, l’idea secondo cui le opinioni che hanno armato la mano dell’assassino di Theo Van Gogh meritano la stessa tolleranza di quelle, “provocatrici”, del cineasta. Eccola, a Parigi, l’opinione dei funzionari islamisti , “offesi” dall’apostasia di Ayaan Hirsi Ali, ritenuta non meno legittima di quella dell’ex deputato favorevole al diritto, per ognuno, di entrare in una religione e di uscirvi. Ed ecco, ovunque, il concetto di tolleranza brandito come uno stendardo da coloro che intendono mettere sullo stesso piano le culture in cui le donne, per esempio, sono considerate essere umani in tutto e per tutto e quelle in cui esse vengono ridotte allo status di elementi perturbatori di cui bisogna, ad ogni prezzo, nascondere i corpi e i visi. Culturalismo. Differenzialismo e relativismo morale. L’altra eredità dell’affaire Rushdie.

3. L’affaire è il segnale di un’autentica regressione dello spirito dei Lumi. Perché cosa sono i Lumi? Il diritto di credere e di non credere. Il diritto, se non si crede, di fregarsene delle credenze altrui. Questo diritto al blasfemo s’è imposto, non senza difficoltà, sui monoteismi ebreo e cristiano, ma resta criminale presso coloro che, nell’Islam, e successivamente all’affaire Rushdie, urlano: “d’accordo per la libertà d’opinione; d’accordo per il diritto di non credere; ma con moderazione, e a condizione che chi non crede non diffami l’idea di Dio”. Allora, non mi soffermo sulla povera idea che di Dio si fanno coloro che pensano che basti una caricatura a diffamarlo. Passo sul fatto che i veri caricaturisti del Profeta, quelli che l’oltraggiano più scandalosamente, sono coloro che ne fanno la bandiera della loro pulsione di morte. La verità è che un mondo in cui non si ha più diritto di ridere dei dogmi è un mondo immiserito. La verità è che un mondo in cui non si possa più fare fiction di tutto sarebbe un mondo più asservito. Tempi cupi. Oscuramento degli spiriti. Spirito del tempo.

4. Gli ayatollah non sono i primi ad aver voluto bruciare libri e uccidere scrittori? Certo. E tale attacco allo spirito è anche, ogni volta, uno degli indicatori avanzati dell’ingresso nel regno del peggio. Eh sì, appunto. L’affare Rushdie è stato proprio uno di quegli indicatori avanzati. Ha avuto la stessa funzione del rintocco di campane nel mondo antico. Sarebbe rimasto come una delle date, se non la data, indicante la comparsa di quella nuova variante del fascismo che è il fascislamismo. C’è stato l’11 Settembre e i suoi tre rintocchi… La morte di Massoud, all’inizio.. Il martirio di Daniel Pearl, un poco più tardi… Gli omicidi di massa in Algeria, un po’ prima… Ma il primo tempo della sequenza fu –all’improvviso ciò mi appare, retrospettivamente, molto chiaro- la condanna a morte di uno scrittore per offesa alla parola del Corano.

Che strana avventura, per un incantatore di parole, essere pure il nome di una data nera nella storia delle idee!

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 12.02.2009
(traduzione di Daniele Sensi)