Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

A Gerusalemme, per i 60 anni dello stato di Israele

Onorato ed emozionato nell’aprire, a Gerusalemme, sotto l’egida del presidente Shimon Peres, le cerimonie per il 60° anniversario della nascita dello Stato.

Con me, Henry Kissinger, che ha descritto il nuovo pericolo rappresentato da un Iran dotato dell’arma nucleare.

E con me anche lo scrittore Amos Oz, coscienza morale di Israele, che ha trovato le giuste parole riguardo alla sofferenza palestinese e alla parte di responsabilità che vi gioca il suo paese.

Piuttosto che ripetere ciò che io non avrei saputo dir meglio, piuttosto che ribadire, come ho fatto spesso, che la sola soluzione è quella di due Stati viventi in pace, fianco a fianco, nel riconoscimento e nel rispetto reciproci, ho scelto di insistere sul messaggio positivo, sui valori, sull’esperienza politica, morale e spirituale che lo Stato degli ebrei e gli ebrei stessi possono trasmettere al mondo di oggi.

Politica? L’esemplarità di Israele. Eh sì! Non tutto è perfetto, naturalmente, in Israele. E la questione palestinese, nello specifico, vi rappresenta una ferita aperta, una piaga. Ma, messa da parte questa questione, non so di altri Stati, usciti dalle decomposizione degli imperi, che abbiano saputo costruire, come Israele, una prosperità tanto duratura e una democrazia tanto degna di questo nome così come pure una relazione alla violenza che non si sottrae mai al senso dello scrupolo e a considerazioni etiche. E, al di là di questo stesso contesto, al di là di questa unicità che esso rappresenta tra i paesi usciti da ciò che un tempo veniva chiamato col bel nome di rivoluzione anticolonialista, osservo questo Israele accogliere indifferentemente Russi e Yemeniti, Francesi ed Etiopi, Maghrebini e Polacchi (senza parlare, ben inteso, del 20% di Arabi palestinesi); che lo si voglia o no, una delle società più aperte al mondo; che piaccia o no, una multietnicità combinata, come in nessun’altra parte al mondo, con un’appartenenza nazionale ed un patriottismo straordinariamente solidi; una lezione, altrimenti detto, una vera grande lezione, cui farebbero bene ad ispirarsi molte delle potenti nazioni messe di fronte alla stessa impossibile equazione (di patriottismo e multietnicità, ndt) – Francia e USA compresi.

Morale? Penso alla prova senza pari che ebbe ad attraversare il giudaismo d’Europa. So che alcuni pensano che si parli troppo di questa prova. La verità, ho detto ai 2 000 delegati presenti, è che se io mi metto a ripensare ai luoghi del mondo dove, nella mia vita, ho sentito parlare di più della Shoah, non è né Israele né l’Europa che mi tornano a mente. Bensì Sarajevo, dove al culmine dei bombardamenti un presidente musulmano mi affidò, per François Mitterand, il famoso messaggio in cui supplicava: "Non lasciateci divenire il prossimo ghetto di Varsavia". Mi tornano alla mente i Tutsi del Rwanda e del Burundi: "Siamo gli ebrei dell’Africa; ci avete abbandonati ai nostri nazisti come avete un tempo abbandonato gli ebrei d’Europa". Mi tornano alla mente i comandanti dell’unità di guerriglia che, giusto un anno fa, mi scortarono nel cuore del Darfur devastato e che, pure loro, ripetevano: " Ciò che ci terrorizza e che, allo stesso tempo, ci dà speranza, è il ricordo, certo, della Shoah, ma anche del modo in cui il popolo ebraico ha potuto superare la prova". Non dico che i morti del Darfur siano l’equivalente dello sterminio degli ebrei. Dico solo che è così che parlano tutte le vittime anonime, senza numero né viso, senza sepoltura, delle guerre dimenticate contemporanee. Ne deduco che il popolo ebraico ha, quindi, una responsabilità particolare di fronte a questi condannati. E dico della mia fierezza ogni volta che verifico come, in ognuno di questi casi, i primi a mobilitarsi – e a combattere, all’occorrenza , la criminale idiozia della competizione tra le vittime- siano molto spesso uomini e donne che hanno la Shoah nel cuore.

Esperienza spirituale, infine? Sappiamo, dopo Levinas, che quello ebraico non è solo il popolo del Libro ma pure quello del commentario del Libro. E sappiamo che esso ha inventato quel protocollo di lettura unico al mondo chiamato Talmud per il quale non c’è parola santa che non possa essere sottoposta ad un commentario infinito, inesauribile, infaticabile – Rachi che rispondeva a Rabbenu Hananel di Kairuan, che a sua volta rispondeva a Rabbenu Gershom di Mayence che, a sua volta, smentiva, contraddiceva o integrava un commentario di Yohanan Ben Zakkaï o di Hillel… Immaginate, allora, altri Talmud oltre a quello ebraico… Immaginate che gli ebrei trasmettano ai loro fratelli musulmani, per esempio, questo gusto per una lettera che resta una lettera aperta e dal significato indeciso. Immaginate che, alla maniera del giudaismo ma riallacciandosi, anche, al filo un tempo teso da Avicenna e prima che dai successori di quest’ultimo quel filo sia lasciato cadere, gli imam di oggi acconsentano a quest’idea di una interpretazione mai definita. Sarebbe la fine del dogmatismo, l’antidoto al fanatismo. Sarebbe il vero rimedio a quella malattia dell’islam diagnosticata, tra gli altri, dal mio amico Abdelwahab Meddeb.

Ecco, dunque, ciò che gli ebrei hanno da dire, non solo agli ebrei, ma pure ai non ebrei. Ecco la triplice esperienza che la loro storia ha dato loro incarico di trasmettere. Se lo faranno, se ci proveranno, se si cimenteranno davvero in questa condivisione metafisica, allora sì che Israele sarà quella regione, non solo del mondo, ma dell’essere, di cui il 60° anniversario sarà una buona notizia per tutti i popoli della terra.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 22.05.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Birmania: nel laboratorio della dittatura

La dittatura è sorda: tutti sanno ormai che l’arrivo del ciclone era stato previsto dal servizio meteorologico indiano il giorno precedente e da quello tailandese cinque giorni ancor prima – ed essa non ha voluto intendere.

La dittatura odia il suo popolo – non lo disprezza, lo odia proprio, e tale odio è freddo, totale, micidiale: come spiegare, altrimenti, l’inimmaginabile spettacolo di quei convogli bloccati sulla dogana alla frontiera con la Tailandia? di quegli aerei carichi di viveri e dall’atterraggio interdetto? come spiegare che nel momento in cui ogni ora è vitale, nel momento in cui al trascorrere di ogni minuto diminuiscono le possibilità di ritrovare superstiti tra le rovine dei villaggi sommersi nella zona di Bogalay o di Laputta, non si facciano entrare che col contagocce i viveri, i medicinali, che potrebbero salvarli?

La dittatura è folle – non è solamente crudele, essa è folle, clinicamente folle e, nello specifico, paranoica, ed è questa l’altra chiave di un regime insensato che preferisce lasciar morire il suo popolo piuttosto che aprire anche di poco le sue porte ai "medici senza frontiere": questi folli clinici, questi cretini sono visibilmente, chiaramente, incontestabilmente convinti che gli operatori umanitari siano delle spie, che vogliano entrare nel paese solo per destabilizzarlo e rovinarlo, che i pacchi del Programma alimentare mondiale contengano veleni più mortali di quelli liberati dai corpi in decomposizione che galleggiano nel delta del fiume Irrawaddy.

La dittatura è razzista – dunque la si smetta di presentare la Birmania come un paese postcoloniale la cui paranoia si spiegherebbe dal solo fatto che essa ebbe a subire, un tempo, i miasmi della peste razzista: perché è lei ad essere razzista; è lei che vede il Bianco, l’Occidentale, l’Americano quali nemici naturali e biologici; è lei che, nella più pura tradizione xenofoba e dunque razzista, vede lo straniero come un microbo, un agente corruttore, un virus.

La dittatura è monomaniaca – questo razzismo, questa follia vengono pure, se non innanzitutto, dal fatto che i dittatori non pensano che ai dittatori, al loro avvenire, alla loro sopravvivenza: il paese affonda; 5 000 chilometri quadrati di risaie sono già sott’acqua; i pochi testimoni ci raccontano di acquitrini cosparsi di cadaveri, di falde freatiche putrefatte, di bambini che tremano per la malaria o per la febbre rossa; e quelli non pensano – davvero inaudito!- che alla farsa di un referendum imposto con la verga e dall’unico scopo di rinforzare il loro regime.

La dittatura è autistica, vive sotto vetro, ripiegata su se stessa, avendo fatta propria l’ipotesi brechtiana della scomparsa del popolo che essa presume governare: 20 000 morti? 30 000? 100 000? domani saranno 300 000? di più? la dittatura se ne frega; la dittatura smette di tenere il conto; la dittatura, che non ci si inganni, non si prende nemmeno la briga di mentire davvero, di minimizzare, di barare sui numeri; quei corpi, da vivi, non avevano né viso né davvero un nome; perché dovrebbero averli una volta morti? la dittatura, di fatto, si compiace di una cosa sola: del "naso" avuto dagli astrologi da cui venne convinta, nel novembre del 2005, ad abbandonare Rangoun e a trincerarsi a Naypyidaw, capitale tutta nuova, nel cuore della giungla, lontana dall’acqua e dai tornado.

La dittatura non perde la bussola: folle, d’accordo; paranoica, senza dubbio; ma dai riflessi intatti; una reattività a prova di bomba; una rivolta scoppia, nel pieno del cataclisma, nella prigione di Insein, a Rangoun, e lei reagisce, immediatamente, alla velocità della luce – e quei soldati che a mobilitare in soccorso dei senzatetto non ci pensa proprio, lei li manda a giustiziare, senza indugi, i 36 animatori della rivolta.

La dittatura è mafiosa: all’apice del disastro, quando il Programma alimentare mondiale supplica che si lasci almeno passare un convoglio di biscotti vitaminizzati sufficienti a nutrire 100 000 bambini, lei dice: "OK, perché no?" – ma solo per confiscare la mercanzia e per poi rivenderla, senza dubbio, al mercato nero.

La dittatura è taccagna: i 5 milioni di dollari sbloccati a titolo di aiuto di emergenza corrispondono a un millesimo degli introiti annuali dalla vendita del suo petrolio alle compagnie straniere, tra cui Total – o, se si vuol comparare altrimenti, a un decimo del valore dei doni di matrimonio ricevuti dalla Signorina Shwe, amata figlia del generalissimo presidente Than Shwe.

La dittatura è grottesca infine – sì, come sempre, e malgrado l’orrore, ha qualcosa di profondamente assurdo e grottesco: è, ad ogni modo, ciò che si avverte davanti all’immagine di quell’imbecille coi galloni, e cogli occhiali scuri, declamante, su di un’emittente televisiva il cui segnale più nessuno riceve per mancanza di elettricità, che "la situazione torna alla normalità".

È raro, un laboratorio.

È raro vedere una dittatura funzionare in modo così chimicamente puro.

E di fronte a questo spettacolo, di fronte a questa macchina di morte, di odio e di follia, si esita tra la tristezza, la pena, la voglia di veder quegli assassini trascinati davanti ad un tribunale penale internazionale abilitato a giudicare su simili misfatti – e la nostalgia, pure, del tempo in cui la Francia inventava, e imponeva al mondo, il diritto e il dovere di ingerenza.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 15.5.2008
(traduzione di Daniele Sensi)

Per ricordare Simone de Beauvoir

Occorreva rendere omaggio a Simone de Beauvoir.

A fronte di una posterità che è quel che è, ingiusta e capricciosa, che mischia tutto e il contrario di tutto, che si perde in inutili quisquilie, che ci infligge fino alla nausea le sue figure imposte della commemorazione del Maggio 68, e che poi tratta i morti come se questi non avessero perso niente della loro temibile e viva virulenza (sebbene ciò non sia necessariamente una cattiva cosa), occorreva una celebrazione all’altezza di questo centenario da una nascita che sembra, al momento, lasciarci freddi.

Les Temps modernes, che furono la sua rivista almeno quanto lo furono per Sartre, lo fanno in un numero speciale su iniziativa di Claude Lanzmann e di Liliane Kandell.

E questo numero doppio, questa "Trasmissione Beauvoir", questa collezione di testimonianze, di ricordi non pietosi e di analisi storiche - talvolta davvero fini- , è una delle buone notizie della settimana.

Omaggio alla liberatrice, sicuro, all’emancipatrice del "secondo sesso", all’ispiratrice, in fondo, della sola rivoluzione riuscita del ventesimo secolo.

Omaggio alla donna grazie alla quale tutte le donne sono –ovunque nel mondo, anche sotto il burka o con le catene ai piedi- un po’ più donne, un po’ più libere, un po’ più indipendenti di quanto non sarebbero senza di lei e del suo libro.

Omaggio a colei –come dice uomo, Philippe Val, in uno dei primi testi del numero- che affossa una buona volta, con Freud e prima che tutto il pensiero moderno si appropri del suo gesto, lo spettro di Madame Bovary, le sue isterie, il suo mal di donna, la sua sofferenza, tutte cose che si credevano fondate in natura, eterne.

Omaggio a quel divenir-donna che ha fatto sì –racconta Josyane Savigneau- che tante ragazze della sua specie abbiano, negli anni 60, 70 o persino 80, osato rivoltarsi, pensare, giusto esistere e, in grazia di un altro libro, "Memorie di una ragazza perbene", del quale si tende a dimenticare la prodigiosa insolenza di cui il titolo stesso era carico, trasformare in "destino" la loro "situazione".

Omaggio alla resistente, e sì! nel senso stretto di resistente, nel senso della sola Resistenza che valga e che fu quella della lotta contro i nazisti: sono state scritte tante stupidaggini a proposito, tante calunnie sono circolate ed alcune si sono pure imposte, che è un piacere ora leggere, per mano dell’ultima sopravvissuta, Dominique Desanti, un resoconto dettagliato degli obiettivi, dei metodi, dei rischi corsi da quel gruppo di intellettuali antifascisti –chiamato dapprima "Sotto lo stivale" poi "Socialismo e Libertà"- di cui Sartre e Beauvoir furono l’anima.

Omaggio all’amante, anche, alla donna di charme – omaggio alla donna libera, curiosa delle cose d’amore, appassionata, che chiamava Claude Lanzmann suo "marito" e di cui questi racconta, in un bel testo d’apertura, la grazia nella vita di tutti i giorni.

Bisognerebbe citare tutto di questo numero.

Bisognerebbe mostrare come sia, ogni volta, un cliché che meritatamente si riduce in briciole: il cliché dell’intellettuale d’accordo ma, per favore, non una scrittrice, la sua prosa è così mediocre (si veda il richiamo, di Eliane Lecarme-Tabone, alla dimensione propriamente letteraria del "Secondo sesso"); quello dell’ignorante che sarebbe passata, come il suo compagno, a fianco della psicanalisi e dei suoi avanzi (si vedano le pagine dove Eisabeth Roudinesco mostra come Lacan stesso, nei suoi testi del 1958, non disdegnava di appoggiarsi, sebbene senza dirlo, e non fosse che per contraddirla, alla concezione beauvoiriana della sessualità e del desiderio); quello, come per Sartre, di nuovo, dell’intellettuale che si è sempre sbagliata e che si è gettata capo e piedi nella trappola totalitaria (leggere, assolutamente, il testo di Chahla Chafiq che narra come, a partire dal 1979 in Iran, l’autrice de "L’invitata" prenda atto dell’orrore, in particolare per le donne, di ciò che alcuni allora chiamavano la "rivoluzione spirituale" khomeynista); e poi il cliché, infine, di un’insurrezione femminista irresistibile, necessaria, che si sarebbe prodotta ad ogni modo e di cui lei non avrebbe raccolto che la fiaccola (mentre ciò che appare è, al contrario, la straordinaria solitudine di quella che venne chiamata la "Entesilea di Saint-Germain-des-Prés", l’incomprensione di cui fu oggetto persino tra i ranghi dei partiti detti di sinistra o delle presunte associazioni femministe, insomma, il suo eroismo speculativo...).

Ah, quanto è stata detestata questa donna!

Con quale accanimento si è voluto, ovunque, spegnere la luce della sua scia!

E con quale disinvoltura, nel migliore dei casi, la si è trasformata in non so quale controfigura di un compagno di cui io sarò l’ultimo, ovviamente, a contestare il genio - ma bisogna ridurla, lei, tuttavia, al rango di umile serva di un’avventura a lei superiore?

Beauvoir, qui, in quanto tale.

Beauvoir propriamente detta, e ricondotta alla sua vera dimensione.

Il mondo, al contrario, visto secondo il beau voir , il belvedere, di questa intellettuale a parte restituita all’integrità del suo valore.

Una volte per tutte.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 8.05.2008
(traduzione di Daniele Sensi)