Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Birmania: nel laboratorio della dittatura

La dittatura è sorda: tutti sanno ormai che l’arrivo del ciclone era stato previsto dal servizio meteorologico indiano il giorno precedente e da quello tailandese cinque giorni ancor prima – ed essa non ha voluto intendere.

La dittatura odia il suo popolo – non lo disprezza, lo odia proprio, e tale odio è freddo, totale, micidiale: come spiegare, altrimenti, l’inimmaginabile spettacolo di quei convogli bloccati sulla dogana alla frontiera con la Tailandia? di quegli aerei carichi di viveri e dall’atterraggio interdetto? come spiegare che nel momento in cui ogni ora è vitale, nel momento in cui al trascorrere di ogni minuto diminuiscono le possibilità di ritrovare superstiti tra le rovine dei villaggi sommersi nella zona di Bogalay o di Laputta, non si facciano entrare che col contagocce i viveri, i medicinali, che potrebbero salvarli?

La dittatura è folle – non è solamente crudele, essa è folle, clinicamente folle e, nello specifico, paranoica, ed è questa l’altra chiave di un regime insensato che preferisce lasciar morire il suo popolo piuttosto che aprire anche di poco le sue porte ai "medici senza frontiere": questi folli clinici, questi cretini sono visibilmente, chiaramente, incontestabilmente convinti che gli operatori umanitari siano delle spie, che vogliano entrare nel paese solo per destabilizzarlo e rovinarlo, che i pacchi del Programma alimentare mondiale contengano veleni più mortali di quelli liberati dai corpi in decomposizione che galleggiano nel delta del fiume Irrawaddy.

La dittatura è razzista – dunque la si smetta di presentare la Birmania come un paese postcoloniale la cui paranoia si spiegherebbe dal solo fatto che essa ebbe a subire, un tempo, i miasmi della peste razzista: perché è lei ad essere razzista; è lei che vede il Bianco, l’Occidentale, l’Americano quali nemici naturali e biologici; è lei che, nella più pura tradizione xenofoba e dunque razzista, vede lo straniero come un microbo, un agente corruttore, un virus.

La dittatura è monomaniaca – questo razzismo, questa follia vengono pure, se non innanzitutto, dal fatto che i dittatori non pensano che ai dittatori, al loro avvenire, alla loro sopravvivenza: il paese affonda; 5 000 chilometri quadrati di risaie sono già sott’acqua; i pochi testimoni ci raccontano di acquitrini cosparsi di cadaveri, di falde freatiche putrefatte, di bambini che tremano per la malaria o per la febbre rossa; e quelli non pensano – davvero inaudito!- che alla farsa di un referendum imposto con la verga e dall’unico scopo di rinforzare il loro regime.

La dittatura è autistica, vive sotto vetro, ripiegata su se stessa, avendo fatta propria l’ipotesi brechtiana della scomparsa del popolo che essa presume governare: 20 000 morti? 30 000? 100 000? domani saranno 300 000? di più? la dittatura se ne frega; la dittatura smette di tenere il conto; la dittatura, che non ci si inganni, non si prende nemmeno la briga di mentire davvero, di minimizzare, di barare sui numeri; quei corpi, da vivi, non avevano né viso né davvero un nome; perché dovrebbero averli una volta morti? la dittatura, di fatto, si compiace di una cosa sola: del "naso" avuto dagli astrologi da cui venne convinta, nel novembre del 2005, ad abbandonare Rangoun e a trincerarsi a Naypyidaw, capitale tutta nuova, nel cuore della giungla, lontana dall’acqua e dai tornado.

La dittatura non perde la bussola: folle, d’accordo; paranoica, senza dubbio; ma dai riflessi intatti; una reattività a prova di bomba; una rivolta scoppia, nel pieno del cataclisma, nella prigione di Insein, a Rangoun, e lei reagisce, immediatamente, alla velocità della luce – e quei soldati che a mobilitare in soccorso dei senzatetto non ci pensa proprio, lei li manda a giustiziare, senza indugi, i 36 animatori della rivolta.

La dittatura è mafiosa: all’apice del disastro, quando il Programma alimentare mondiale supplica che si lasci almeno passare un convoglio di biscotti vitaminizzati sufficienti a nutrire 100 000 bambini, lei dice: "OK, perché no?" – ma solo per confiscare la mercanzia e per poi rivenderla, senza dubbio, al mercato nero.

La dittatura è taccagna: i 5 milioni di dollari sbloccati a titolo di aiuto di emergenza corrispondono a un millesimo degli introiti annuali dalla vendita del suo petrolio alle compagnie straniere, tra cui Total – o, se si vuol comparare altrimenti, a un decimo del valore dei doni di matrimonio ricevuti dalla Signorina Shwe, amata figlia del generalissimo presidente Than Shwe.

La dittatura è grottesca infine – sì, come sempre, e malgrado l’orrore, ha qualcosa di profondamente assurdo e grottesco: è, ad ogni modo, ciò che si avverte davanti all’immagine di quell’imbecille coi galloni, e cogli occhiali scuri, declamante, su di un’emittente televisiva il cui segnale più nessuno riceve per mancanza di elettricità, che "la situazione torna alla normalità".

È raro, un laboratorio.

È raro vedere una dittatura funzionare in modo così chimicamente puro.

E di fronte a questo spettacolo, di fronte a questa macchina di morte, di odio e di follia, si esita tra la tristezza, la pena, la voglia di veder quegli assassini trascinati davanti ad un tribunale penale internazionale abilitato a giudicare su simili misfatti – e la nostalgia, pure, del tempo in cui la Francia inventava, e imponeva al mondo, il diritto e il dovere di ingerenza.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 15.5.2008
(traduzione di Daniele Sensi)