Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Su di un certo antisarkozismo...

Domenica. Breve annuncio sul canale LCI. Un sotto-prefetto di Charente-Maritime è stato dimesso dalle sue funzioni su istruzione del ministro degli Interni, Michèle Alliot-Marie. Motivo? L’essere venuto meno al dovere di riservatezza, regola per i servitori dello Stato. E ciò a causa di un "punto di vista" rilasciato al giornale on-line Oumma.com secondo il quale Israele sarebbe il solo Stato al mondo i cui i tiratori scelti abbattono le bambine all’uscita da scuola ed i cui centri di tortura, per via dello shabbat, fanno pausa il sabato. Ritornello conosciuto. Nulla di nuovo sotto il sole dell’insondabile stupidità politica. Salvo che questo psicotico passaggio all’atto proviene, ed è una novità, da un alto funzionario della Repubblica. E salvo che l’alto funzionario ha scelto, per rompere il suo dovere di riservatezza, non un grande quotidiano, una rivista, una radio, ma l’organo ufficiale dei Fratelli musulmani in Francia e, in particolare, di Tariq Ramadan.

La notte passa. L’affare mi ronza in testa. Perché non si tratta solo di Oumma. Ma pure del nome dell’uomo, che, anch’esso, mi dice qualcosa. Guigue... Sotto-prefetto Bruno Guigue... Cerco tra i miei ricordi. Sollecito l’amico Google. E, ben presto, mi ricordo: ma sì, sicuro! sempre quel Guigue che, al mio ritorno dal Darfur, aveva consegnato allo stesso Oumma un articolo particolarmente avvelenato su di me (la qualcosa non è poi grave) e sulla tragedia dei Darfuriani (e questo è , evidentemente, più importante). La coincidenza è quasi troppo bella. Perché è come una dimostrazione in laboratorio della mia vecchia tesi sull’effetto accecamento prodotto, immancabilmente, dalla monomania antisionista. Perché non si sentono mai gli avversari di Israele sul Tibet? sulle guerre dimenticate d’Africa? sulla Bosnia, quindici anni fa? perché si accaniscono, oggi, a negare il martirio del Darfur? Ebbene ecco. La prova la fornisce Guigue. Un martirio non interessa queste persone se non quando è questione di Israele o, cito, del suo servo americano. Un massacro dove né Israele né gli Stati Uniti siano coinvolti non gode, nella galleria dei cliché che costituisce la loro visione del mondo, che di una esistenza di secondo genere.

Nella mia frenesia, navigando di sito in sito, mi imbatto in tutta una nebulosa di altri siti che accorrono in difesa del "coraggioso" funzionario sanzionato. Non li nominerò, questi siti. Non voglio far loro pubblicità e dunque non li nomino. Ma ciò che scopro è – nuova sorpresa- che essi sono, in effetti, molto numerosi; che, dal rosso (no-global) al bruno (Fronte nazionale e affiliati) o al verde (islamista radicale), coprono l’essenziale dello spettro del peggio; e che si accordano tutti, di fatto, su una rappresentazione articolata in tre proposizioni tanto deliranti quanto semplici. Israele è uno Stato nazista. Il mondo è organizzato per dissimulare questa verità. E il cervello di questo complotto, il suo direttore d’orchestra clandestino, il vero agente dei neri disegni dell’eterna "Internazionale giudaica", si scopre essere qui, a Parigi, giusto dalle parti al disopra di Alliot-Marie che non sarebbe, con Kouchner, Attali e altri nuovi "Ebrei Süss" (cito sempre la stessa amena letteratura), che uno strumento docile tra le sue mani – questo ebreo vergognoso, nascosto, canonizzato, ma smascherato, non sarebbe altri che... Nicolas Sarkozy stesso!

Ripenso, ad un tratto, a quei siti antisemiti che si scatenarono, durante la campagna elettorale, sul ritornello del "Tutto tranne Sarkozy", denunciati da Liliane Kandel, membro del comitato di redazione di Tempi Moderni. Riprendo il libro, apparso, questo, dopo le elezioni, in cui il filosofo Alain Badiou, pretendendo richiamarsi a Freud (povero Freud!), non chiama più il presidente con il suo nome ma "l’uomo dei ratti", giusto "l’uomo dei ratti", come nei film di propaganda che davano nei cinema sotto l’Occupazione. Penso a tali segni, minuscoli senza dubbio, derisori, ma che vanno dagli attacchi personali ( in particolare sul fisico) ad un tipo di aggressione che non ci si era concessi nei confronti di nessuno dei suoi predecessori (l’affare dell’SMS) nel programma dei "Guignoles de l’Info", dove ora gli affibbiano (se ne saranno loro stessi accorti?) l’accento dei commedianti della "La verité si je mens". Metto tutto questo in fila. E finisco per dirmi che siamo di fronte , lo si voglia o no, a qualche cosa di sintomatico: non più di cosa Sarkozy ma di cosa l’antisarkozismo è il nome?

Dio sa se ci sono buone ragioni per opporsi a questo governo. L’immigrazione. La legge sulla ritenzione di sicurezza. Il discorso di Dakar. Gi slittamenti, à Riyad o in Vaticano, su quella pietra angolare della Repubblica che è l’idea di laicità. La parola tradita sui Ceceni, sui Tibetani, sulla democrazia in Russia, sui diritti dell’uomo in generale. Non bisogna cedere di un passo in nessuno di questi terreni. In nessuno di essi bisogna lasciarsi intimidire. Ma ragione in più per non tollerare che venga superata la linea gialla che separa il vero dibattito dall’ingiuria alla persona e al nome. Credo di essere stato uno dei primi, ben prima dell’inizio della campagna, a denunciare, in queste colonne, la demonizzazione di cui cominciava ad essere fatto oggetto il futuro candidato. Ebbene, allo stesso modo, oggi, metto in guardia contro i tanfi fetidi che di nuovo sembra liberare, al lato destro come a quello sinistro, l’inebetito odio per l’oramai capo dello Stato.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 27.03.2008
(traduzione: Daniele Sensi)

Il Tibet, la Cina e l'arma del boicottaggio

I Giochi olimpici, ci dicevano, avranno per effetto automatico di aprire la Cina al mondo e, dunque, alla democrazia – i Cinesi, sapendosi osservati, scrutati come non mai, avranno a cuore di offrire un’ immagine decente di se stessi e del loro regime.

La verità obbliga a dire che, per il momento, si è verificato proprio il contrario.

Dalle città sono stati espulsi i poveri e gli improduttivi.

É stata accelerata la distruzione degli hutong, i quartieri popolari del centro di Pechino.

Si è così moltiplicato il numero dei senza tetto che, ammucchiandosi nelle bidonville senza una vera politica di ricollocazione abitativa, hanno accentuato il fenomeno della miseria urbana, dell’insalubrità, contro cui si pretendeva lottare.

Migliaia di possibili dissidenti sono stati imprigionati, sovente senza processo.

In base all’articolo 306 del Codice penale del 1997 che permette di incarcerare ogni avvocato sospettato di "alterare o distruggere delle prove", sono stati arrestai, sequestrati, messi fuori scena, i più coraggiosi dei loro difensori.

É stata fatta pulizia nella stampa.

Sono state acquistate dal francese Thales antenne paraboliche allo scopo di rinforzare la grande muraglia di quelle onde che disturbano le trasmissioni in cinese delle radio anglosassoni.

Le sommosse si sono moltiplicate nella campagne, senza che la stampa locale se ne sia fatta portavoce.

Il ritmo delle esecuzioni capitali non sembra sia diminuito – senza che ciò scandalizzi più di tanto una stampa internazionale nondimeno libera, lei, di scrivere ciò che le pare.

Il traffico degli organi prelevati dai corpi dei suppliziati non è praticato meno di prima.

Nell’insieme del paese non rimangono meno campi di lavoro di quelli registrati dalla Laogai Research Foundation.

In breve, l’effetto "rifacimento di facciata" o non è stato di alcuna portata , o, al contrario, ha prodotto l’unico risultato concreto di intensificare le violazioni dei diritti dell’uomo.

Ed ecco che in Tibet si è scatenata la più brutale repressione che la "Regione autonoma" abbia conosciuto dopo quella condotta, diciotto anni fa, qualche mese dopo Tienanmen, dall’attuale presidente cinese, Hu Jinto, che lì guadagno la sua reputazione di uomo di ferro e i suoi galloni nel Partito.

Quali sono le circostanze esatte di questa nuova repressione?

E che credito bisogna accordare alla logorrea ufficiale sul "secessionismo" tibetano e sulla volontà dei suoi capi spirituali di utilizzare la cassa di risonanza del periodo preolimpionico per fare sentire, infine, la loro voce?

Infondo, poco importa.

Perché ciò che importa è che, come diciotto anni fa, si è freddamente sparato sulla folla.

Perché ciò che importa è che la capitale, Lhassa, è, nel momento in cui scrivo, trasformata in zona di guerra, suddivisa in scacchiera militare da forze di polizia e blindati, isolata dal resto del mondo.

E ciò che importa è che i Cinesi hanno mostrato, nella circostanza, la loro sovrana indifferenza agli stati d’animo di un Occidente che disprezzano – ciò che importa è che istruiti dalla nostra pusillanimità ai più duri dei massacri nel Darfur e delle violenze in Birmania, hanno compreso, o creduto di comprendere, che noi non ci saremo mossi di più se avessero messo il Tibet a ferro e fuoco.

Di fronte a un tale cinismo, io persisto a pensare che ancora una volta sia tempo –e si è ancora in tempo- di tenere quel linguaggio di fermezza che a parer loro noi saremmo troppo vigliacchi – o, forse, da loro troppo dipendenti – da osare articolare.

Io persisto a dire che non è troppo tardi per utilizzare l’arma dei Giochi al fine di esigere, come minimo, che smettano di uccidere e che applichino alla lettera – in materia, segnatamente, di rispetto delle libertà – le disposizioni della Costituzione sull’autonomia regionale tibetana.

Pechino non cederà? i boicottaggi, in generale, non funzionano mai? Andiamo, caro Robert Badinter. Finché non si tenta non lo si può sapere. Non abbiamo nulla da perdere se ci proviamo – e il popolo cinese e quello tibetano hanno, loro, tanto da guadagnare!

Non si mischia sport e politica? Non si può privare il mondo di questo grande giubilo che sono i Giochi? D’accordo, amici sportivi. Ma non invertiamo i ruoli, sono i Cinesi che guastano la festa. Sono loro che si fanno beffe dei princìpi olimpionici. Sono loro che fan sì che la fiamma, che nei prossimi giorni sarà issata sull’Everest, passerà letteralmente sui corpi di uomini di preghiera e di pace assassinati. Ed è a causa loro, infine, è a causa dei macellai di Tienanmen e, ora, del Tibet, che l’agosto prossimo , quando vi disputerete le vostre medaglie con atleti anabolizzati, trasfusi, trasformati in semi-robot, dovrete correre, lottare, sfilare , in stadi macchiati di sangue.

E’ tempo –e si è ancora in tempo – di salvare e lo sport, e l’onore, e delle vite.

È tempo – e si è ancora in tempo- di correre il rischio e di evocare, come ha appena fatto Barack Obama, la possibilità, giusto la possibilità, del boicottaggio, di dire in una volta sola sì all’ideale olimpico e no ai Giochi della vergogna.

Mancano cinque minuti a mezzanotte, anche per tutto ciò.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 20.03.2008
(traduzione: Daniele Sensi)

Quando intervistavo il capo delle FARC abbattuto dai suoi “compañeros”...

Avevo incontrato Ivan Rios, il comandante delle FARC appena ucciso dalla sua guardia del corpo nei pressi della frontiera tra le province di Caldas e di Antioquia, nel febbraio 2001, al momento della mia inchiesta sulle guerre dimenticate.

La stampa dice che aveva 40 anni.

A quanto ricordo, ne aveva un po’ di più.

Ma era, senza dubbio, il più giovane dei sette "segretari" che formavano la stato maggiore dell’Organizzazione.

Era anche il più colto, forse il più intelligente – il solo che, ad ogni modo, prima di darsi alla macchia, e quando ancora si chiamava Manuel Munoz Ortiz, avesse fatto, a Medellin, degli studi universitari di un certo livello, tanto che il Numero Uno - il vecchio capo di cui si conosce appena il viso, ed appena appena il nome, soprannominato "Tirofijo", cioè "Tiro preciso" - ne fece un dei consiglieri più ascoltati e, come diceva un altro grande terrorista (Bin Laden) di un altro brillante intellettuale (Omar Sheikh), una sorta di "figlio adottivo".

Lo rivedo, nel suo bunker di Los Pozos, nel cuore della foresta amazzonica, mentre mi racconta il concorso di circostanze che lo avevano condotto, giovane e dotto marxista, nutrito al latte del castrismo, fine lettore dei Francesi Althusser e Bettelheim, ad unirsi ad una delle guerriglie più sanguinose del pianeta.

Lo rivedo, molto calmo, molto posato, molto "assassino sensibile" alla Camus - ma un assassino sensibile che avrebbe appreso, con il tempo, a superare i suoi stati d’animo; un Kaliayev i cui anni di solitudine, di isolamento in una giungla fuori dal mondo, anni di paranoia e di tenebre, avrebbero trasformato in uno Stepan ancora più furioso, più ossesso, più spregiudicato e determinato – lo rivedo, piccola figura emaciata, coi capelli ben sistemati, barba nera ad incorniciargli il viso impeccabilmente curata e tono da professore intento a scomporre un’equazione complicatissima, spiegarmi, senza imbarazzo alcuno, la "profonda giustizia" della strategia dei sequestri mirati.

Lo sento, in un altro momento, mentre ci incamminiamo verso l’aeroporto di campagna dove è annunciato l’arrivo di Camilo Gomes, l’alto-commissario per la Pace del presidente colombiano, dar prova di alta dialettica al fine di convincermi che la cultura della coca, l’escavazione e la militarizzazione dei laboratori clandestini in cui verrà distillata, il suo traffico, la sua massiccia commercializzazione in direzione delle metropoli dell’impero, sono una forma di resistenza all’oppressione, un mezzo di difesa dei poveri contadini schiacciati dal grande capitale, una risposta politicamente corretta al deterioramento voluto dai trust americani dei termini di scambio tra il Nord e il Sud...

Raramente nella mia vita ho provato, fino a quel punto, la sensazione di una razionalità divenuta folle.

Mai, come allora, ho toccato con dito questa degenerazione dell’Ideologia divenuta l’alibi di ghiaccio di un gangsterismo puro.

Oggi, quell’uomo è morto.

Di quel viso illuminato, talvolta, da un sorriso furtivo, un po’ demente e che metteva del tempo a cancellarsi, non resta che la maschera mortuaria che sporge dalla plastica nera in cui hanno avvolto il cadavere, oggi mostrata dalla stampa colombiana.

Di quei gesti raffinati che mi indicavano, alle sue spalle, sulla malridotta carta appesa al muro del bunker, le zone delle province di Huila e di Putumayo dove i "gringos" riversavano, stando a quando diceva, agenti chimici defoglianti tipo quelli usati in Vietnam, non resta che quella mano mozzata consegnata, insieme al suo passaporto e al suo computer portatile, da Rojas, il guerrigliero che lo ha abbattuto, al comandante della caserma di San Mateo che li accerchiava da settimane.

E la verità è che io oscillo, stamattina, tra due, o piuttosto tre, sentimenti.

Una certa emozione – perché non confessarlo? – al ricordo di quello spirito deviato, di quell’intelligenza sprecata e che, persino lì, in quella giornata passata a sentirlo dispiegare sofismi insopportabili, non era priva di un oscuro fascino .

Una vera soddisfazione – bisogna dire anche questo, e dirlo con fermezza – all’idea che questa gang, quest’associazione mafiosa che sono divenute le FARC, vola di disfatta in disfatta, e che la morte di Rios -che segue così da vicino quella del primo marzo di Raul Reyes- possa significare, forse, infine, l’avvicinarsi della capitolazione tanto attesa.

E poi – si tratta , naturalmente, dell’essenziale – più che un pensiero direi un orrore all’idea di quale destino, per le ore o per i giorni a venire, possa spettare agli ostaggi in generale e ad Ingrid Betancourt in particolare : perché chi può dire come reagiranno queste bestie feroci, questi selvatici cani da guerra, quando si sentiranno definitivamente con le spalle al muro? e come, malgrado l’orrore, malgrado i crimini, malgrado l’imprescrittibile colpa che sono questi anni di terrorismo cieco, non pregare che si apra un ultimo, ultimissimo, dialogo – quello che permetterà che siano risparmiati gli innocenti?

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 13.03.2008
(traduzione: Daniele Sensi)

Sarkozy: qual è il problema?

C’è un libro che ha detto tutto.

Un vecchio libro, quasi un classico, ma che, bizzarramente, pochi si preoccupano di ricordare.

Questo libro, apparso nel 1957, si intitola "I due corpi del re".

Il suo autore - uno storico ebreo tedesco, medievalista, emigrato negli Stati Uniti alla fine degli anni 30 - si chiama Ernst Kantorowicz.

E se avessi un solo consiglio da dare a Nicolas Sarkozy e a quanti, attorno a lui, si curano della sua immagine e dell’immagine che, soprattutto, egli dà del suo incarico, questo sarebbe di interrompere ogni attività per gettarsi su questo grande testo, questo capolavoro allo tesso tempo di storia del Medioevo e della scienza politica contemporanea.

Perché qual è, appunto, la tesi di Kantorowizc?

Riassunta a grandi linee, essa consiste nel dire che un sovrano, quale che sia, non ha un corpo bensì due.

O, più esattamente, che un uomo, nel preciso momento in cui accede al potere supremo, vede il proprio corpo, il proprio essere, scindersi letteralmente in due.

Da un lato un corpo ordinario - Kantorowicz dice profano- che assomiglia a tutti i corpi, che nutre i loro stessi desideri, i loro stessi impeti, le loro stesse passioni.

Dall’altro un corpo sacro, slegato dal maneggio degli altri corpi, tanto impassibile quanto l’altro è appassionato, tanto muto quanto l’altro è loquace e capriccioso – un corpo, se non mistico, almeno misterioso, immateriale, invisibile, di cui è detto a volte aver per membri i suoi soggetti , altre di essere della stessa stoffa dell’istituzione a lui più grande e che lui incarna.

E ciò che dunque conclude questa teoria o, piuttosto, ciò che essa suggerisce, è che la questione del potere, del suo esercizio, del suo prestigio, è sempre una questione di dosaggio: tra il corpo volgare e quello etereo, tra il corpo perituro e quello sublime che si confonde con lo Stato e ne assicura la perpetuità le proporzioni possono variare, ma che ci debba essere proporzione, coesistenza e proporzione, è un principio, questo, non negoziabile.

Visto attraverso questa lente , il caso Sarkozy è semplice.

Troppo del corpo profano, non abbastanza di quello sacro.

Un corpo profano che si prende tutto lo spazio, che inghiottisce il corpo sacro.

Troppo di carne, se si vuole, troppo di quella prima carne, quella delle passioni e del godimento ordinari – ed un’eclissi inedita, mai vista sotto nessun regime, di quell’altro corpo che non gode, che non è soggetto alla passione e che, per questo, impone distanza e rispetto.

Osservo il presidente.

Lo osservo, contrariamente ad altri suoi avversari, con un po’ di simpatia.

Il problema non è la sua "vita privata" – François Mitterand ne aveva una ostentata, alla fine, in misura analoga. (...)

Non è nemmeno questione di essere troppo presente, troppo in presa diretta con la politica di ogni giorno – non è per questo, dopo tutto, e per le qualità di energia che sono supposte procedere insieme , che il suo elettorato lo ha scelto?

No. Il problema, quello vero, quello che l’opinione pubblica avverte in modo confuso e che non gli perdona, è di aver gettato a mare l’altro corpo, quello sacro, quello che, secondo Kantorowicx, pensano e mettono in scena Dante e Shakespeare nel "Riccardo II", così come i dottrinari moderni del principe e della sua grazia; il problema, il vero problema, quello che mina la sua popolarità e che, domani, ostacolerà la sua azione, è che quest’uomo per altri versi così attento, troppo attento, alle famose "radici cristiane" della Francia, diviene all’improvviso del tutto cieco a quella parte di eredità cristiana che costituisce, lei , stavolta, l’invalicabile limite di una laicità piena e completa; lo si sentiva, quest’altro corpo, presso i Chirac, i Mitterand, i de Gaulle; se ne intuiva, malgrado le loro eventuali volgarità, la presenza diffusa, la nostalgia; presso il loro giovane successore, non si avverte più nulla – ed è questo ad essere tragico.

Allora, forse, il tutto obbedisce, nel suo spirito, ad una strategia chiara e cosciente.

Forse Sarkozy pensa di imporre così una nuova figura di sovrano che, ancora una volta, rompa con le consuetudini.

E forse crede persino di strappare , così facendo, un distacco di vantaggio ai commentatori che tanto disprezza e che si impantanano nel passato (...).

Ma se così stanno le cose, Sarkozy si sbaglia.

Perché il passato è passato.

C’è un passato di cui si fa tabula rasa ed un altro con il quale non si scherza.

La teoria di Kantorowicz non è un’ipotesi ma un teorema – e ad un teorema non ci sono, per definizione, eccezioni.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 6.03.2008
(traduzione: Daniele Sensi)

Sarkozy e la sua legge. Perché Obama? Viva il Kosovo libero

Non molto da aggiungere a quanto già detto da Badinter. E da Bredin. E da Sureau. Questa legge sulla ritenzione di sicurezza è una legge terribile. È una legge che, per la prima volta, intende sanzionare un soggetto non per ciò che ha fatto ( e per cui ha già pagato), ma per ciò che potrebbe fare (e che non farà se lo si continua, a pena scontata, a tenerlo rinchiuso). È una legge che, per conseguenza, volta le spalle a ciò che costituisce l’onore, la grandezza, la difficoltà anche, della giustizia in regime democratico (il criminale, fosse pure il peggiore degli uomini, è un delinquente, non un mostro – ed è , non meno della sua vittima, beneficiario del contratto sociale). E quanto alla volontà, assunta in quanto tale dal capo dello Stato, di trovare l’astuzia che permetta di aggirare il parere negativo del Consiglio costituzionale sulla retroattività di una legge già in se’ problematica, siamo di fronte a un evento inedito, pure questo, nella storia delle nostre istituzioni (da quando la Corte di cassazione è agli ordini dell’esecutivo? il giudice Lamanda sarebbe un altro M.Guaino incaricato di consigliare il presidente e di garantirne la comunicazione? e la non-retroattività non costituisce la base non negoziabile di tutto l’edificio giudiziario?). Si è imbarazzati a ricordare l’evidenza. Ma i delinquenti non sono dei malati. I giudici non sono psichiatri incaricati di evitare i rischi di ricaduta. E fare della giustizia un settore della clinica, sostituire allo schema della responsabilità quello della pericolosità e del suo evitarsi, significa riallacciarsi ai tempi cupi della giustizia penale premoderna. Bisogna difendere la società, diceva Foucault. Bisogna difenderla contro se stessa. Ma anche, all’occorrenza, contro gli apprendisti stregoni che essa ha eletto e che giocano con i princìpi in nome di un populismo penale che bisogna combattere senza sconti.

Il mistero si chiama Obama. Un po’ lo conosco. E, soprattutto, ho avuto modo di conoscerlo in un momento, luglio 2004, in cui nessuno parlava ancora di lui, e in cui gli organizzatori della convenzione democratica ne ritenevano il peso talmente trascurabile da metterne il discorso in programma per la parte conclusiva della serata, quando le gradinate cominciano a svuotarsi e quando gli annunciatori della CNN hanno terminato i loro resoconti. Allora , sull’Obamania del momento, ho due spiegazioni. La prima, è che gli Americani sono un grande popolo repubblicano e che questo popolo si sta facendo tranquillamente i suoi calcoli: quattro anni di Bush padre, più otto anni di Bush figlio, più otto anni di Clinton Bill, più otto anni di Clinton Hillary, questo farebbe, se Hillary passasse e se, come gli altri, ricoprisse due mandati, vent’otto anni di potere nelle mani di due famiglie, due solamente, altrimenti detto due dinastie – insopportabile, avrebbe detto Tocqueville, in questo paese così ribelle ad ogni forma di oligarchia. E poi, secondo, Obama è nero,certo; ma non nero come Jesse Jackson; non nero come Al Sharpton; non nero come sono i Neri nati in Alabama o nel Tennessee e che, appena appaiono, rammentano all’America i ricordi della schiavitù, dei linciaggi, del Ku Klux Klan; no; Nero venuto dall’Africa; Nero discendente, non di uno schiavo, ma di un Kenyota; un Nero che, per conseguenza, ha l’incomparabile merito di non richiamare l’America media alle pagine vergognose della sua storia; se Obama vincerà, sarà a causa del suo talento, sicuro; a causa del suo carisma; a causa delle sue posizioni contro la guerra; della dimensione da nuovo Kennedy e da nuova frontiera che offre al suo paese; ma sarebbe anche perché è il primo politico nero a cui la biografia permetta di giocare non le corde della colpevolezza ma quelle della seduzione – il primo in grado di poter rappresentare non il rimprovero all’America, ma la sua promessa.

L’indipendenza del Kosovo sarà un esempio per tutti gli irredentismi d’Europa e di Navarra? Forse. Nessuno lo sa. Ma ciò che si sa, invece, e di sicuro, è che ci sono delle indipendenze giuste, nel senso in cui lo si dice di certe guerre. Quando vi hanno umiliato. Massacrato. Epurato etnicamente. Quando hanno violentato metodicamente le vostre donne. Bruciato non meno metodicamente le vostre case. Quando - presso Racak , nel gennaio 1999- hanno assassinato freddamente, come a Katyn, tutti gli abitanti di un intero villaggio. Quando hanno costretto all’emigrazione forzata un milione dei vostri. Ridotto il vostro paese in macerie. Quando vi hanno, in una parola, nel corso di decenni, reso impossibile la vita. Là, sì, la secessione è un diritto. Là, sì, l’indipendenza è la sola ed ultima delle soluzioni. So cosa ne pensano i Serbi, anche quando sono antitotalitari e democratici. So che sono sinceri quando contestano: "sì, d’accordo; ma noi? la nostra memoria? i nostri monasteri? la nostra genealogia reale e leggendaria? la nostra patria spirituale? la nostra culla?". Ma è prima, amici, che ci si doveva inquietare. Prima del disastro. Prima della distruzione, perpetrata a vostro nome, del vivere insieme jugoslavo. Prima della lunga e criminale follia che ha fatto che i vostri dirigenti abbiano trasformato, ahimè, la culla in tomba. Oggi il male è fatto. E voi non avete, ora, che un diritto. Quello di vedere i Serbi restati in Kosovo viverci liberi, uguali e, naturalmente, in sicurezza. Sotto la protezione di un nuovo Stato. E sotto quella, se necessario, della comunità internazionale.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 28.02.2008
(traduzione: Daniele Sensi)

Era une bella idea, ma...

É sempre bene, ovviamente, far sì che la memoria morta si faccia memoria viva, che essa animi la coscienza dei vivi.

È sempre cosa buona, è una vittoria filosofica e morale, che si permetta ai morti di essere nominati, individualizzati, personificati.

È sempre cosa egregia strapparli alla fatalità dell’aggregato, del grande numero, della cifra, e di fornirsi dei mezzi per onorarne il lutto uno a uno, singolarmente, non in blocco.

Al limite, provando ad immaginare le intenzioni di coloro che hanno concepito questo progetto di affidare ad ogni scolaro di CM2 (quinta classe elementare, ndt) la custodia della memoria di una delle piccole vittime della Shoah, sono pronto a sentire in esse come una lontana eco del soffio che, quarant’anni fa, faceva scandire il famoso "siamo tutti ebrei tedeschi" – divenuto nella circostanza, e tanto meglio, "siamo tutti ebrei francesi sterminati dai nazisti".

Ma alla fine trovo che ci sia nella levata di scudi che ha accolto questo annuncio; nella fioritura spontanea delle anime buone che s’improvvisano psichiatri infantili per stimare, senza un sincero pensiero per il martirio reale dei bambini di ieri, lo smarrimento che si rischia di imporre ai bambini in buona forma di oggi; in questo modo di dire che Sarkozy ha aperto il vaso di Pandora di un antisemitismo che già si era provveduto a giustificare e di ritenere legittimo che qualunque "comunità" possa prendere a pretesto il gesto presidenziale per reclamare la sua fetta di torta memoriale - trovo che ci sia, in tutto questo, qualche cosa di fetido che fa rivoltare lo stomaco.

Tuttavia, nello stesso tempo...

Perché l’idea fosse veramente bella, la si sarebbe dovuta accompagnare a qualche semplice condizione.

Si sarebbe dovuto consultare, innanzitutto , la Fondazione per la memoria della Shoah (e la sua presidentessa d’onore Simone Veil).

Si sarebbero dovuti coinvolgere i maestri che sono , fino a nuovo ordine, in prima linea nella battaglia (Nicolas Sarkozy, se l’avesse fatto, avrebbe appreso che ci sono un sacco di classi in cui già si patrocina un piccolo essere - peccato che si tratti di un albero, di una tartaruga, di una specie animale in via di estinzione...).

Ci si sarebbe dovuti rendere conto che sono 11 000 i morti da onorare e molti, molti di più, gli studenti che accedono ogni anno in CM2 – come si gestirà , allora, il tutto? chi attribuirà chi a chi? chi avrà il suo doppione e chi non lo avrà? l’idea di un patrocinio uno per uno, la volontà di confrontare ogni anima di un vivo al viso di un piccolo morto, non è, perciò, sintomatico di una falsa buona idea, di una idea affrettata , che non regge? e la vera buona iniziativa, quella a cui si sarebbe presto arrivati approfondendo la riflessione, non sarebbe stata quella di operare, certo, le adozioni – ma classe per classe?

Si sarebbe dovuto riflettere sul come un nome non voglia dire nulla, sul come non sia che un assemblaggio di sillabe e di suoni, se non inserito in un contesto, inscritto in una storia e accompagnato da un discorso che spieghi ciò che è l’ideologia che ha ucciso e perché il massacro che essa operò non è comparabile a nessun altro - questa unicità della Shoah, facciamo fatica addirittura noi, noi adulti, a pensarla; essa è, per gli storici, l’inconcepibile stesso; come potrebbero vederci più chiaro dei bambini? attraverso quale miracolo, ignorando tutto della Storia, potrebbero penetrare questo mistero? e l’istituzione di questo sistema di patrocinio non dovrebbe aspettare, almeno, che gli alunni arrivino ad affrontare la parte del programma inerente al nazismo?

Sarebbe servito sapere, ancora, che la memoria senza i suoi strumenti, i nomi senza il loro contesto, tutti quei piccoli visi, fluttuanti nell’etere dell’ignoranza, sono un universo spettrale, dalle tinte spiritiche , necessariamente e profondamente morboso, sordamente religioso, ma religioso nel peggiore dei sensi , perché è il morto che si impossessa del vivo e non l’inverso – come presso i mormoni, come nelle sette.

Per farla breve, non raffazzonare, non improvvisare, non dare la sensazione di una mossa politica, non annegare l’idea in una serie di raccomandazioni quali quelle presentate, l’indomani, a Périgueux, attinenti , esse, alla semplificazione dei programmi della scuola primaria, alla restaurazione dell'autorità, alla reintroduzione de "La Marsigliese" e della bandiera nelle classi , non dare a pensare, come nell’affare Môquet, che la Storia sia un self-service presso cui andare a fare provvista di emblemi e di simboli, ecco ciò che si attendeva da un presidente che fosse intervenuto in quel campo ad alta tensione che è quello della memoria.

Che la dimora della memoria sia in pericolo, è sicuro.

Che si debbano trovare i mezzi per perpetuarla dopo che i testimoni se ne saranno andati, è evidente.

Che appartenga alla generazione del presidente aprire le vie del dovere di trasmissione predicato da Primo Levi, chi può negarlo?

Ma non questo.

Non così.

Non questa improvvisazione.

Questa leggerezza.

Questo modo di lasciar credere che vi possa essere una risposta tecnica alla più complessa delle questioni.

Non questo pasticcio.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 21.02.2008
(traduzione: Daniele Sensi)

Chi è Bernard-Henri Lévy?

Bernard-Henri Lévy sta con ogni battaglia per la dignità dell’essere umano, mantenendo la tradizione degli scrittori impegnati nell’azione e nelle idee, quali Malraux, Sartre e Camus.

Dai suoi primi reportage in Bangla-Desh per il quotidiano "Combat", fino alla sua inchiesta, in Pakistan, sulla morte di Daniel Pearl - passando per i numerosi viaggi nella Sarajevo accerchiata dalla milizie serbe, o per l’immersione nelle "guerre dimenticate" come quelle d’Africa - non ha smesso di mettere il suo talento e la sua energia al servizio delle cause che ha ritenuto giuste.

Laureato alla Normale Superiore di Parigi, filosofo, scrittore, romanziere, giornalista, agitatore di idee, cineasta, attivista, fondatore della rivista "La Règle du Jeu", editorialista sul "Le Point" - dove commenta, ogni settimana, l’attualità politica, artistica e culturale - Bernard-Henri Lévy, o BHL, è in crociata permanente.

Una preoccupazione domina sempre la suo opera – ed è l’idea del Male.
Per BHL, il ventesimo secolo è il secolo del Male: fascismo, totalitarismo, terrorismo e, anche, integralismo, sono i volti successivi che questo Male ha preso - e che continua a prendere pure in questo inizio secolo.

Tra gli intellettuali e scrittori contemporanei, Bernard-Henri Lévy è quel "faro su mille fortezze " sempre pronto ad infiammarsi.
Pure a lui potrebbe applicarsi la definizione che Sartre diede della sua stessa opera: "ciò che ho cercato è l’evento che deve essere scritto letterariamente e che, nello stesso tempo, deve restituire un senso filosofico".

Liliane Lazar
(traduzione: Daniele Sensi)

Bibliografia


Ennemis publics, con Michel Houellebecq, Flammarion/Grasset, 2008

Ce grand cadavre à la renverse
, Grasset, 2007

American Vertigo, Grasset, 2006
[American Vertigo, Rizzoli, 2007]

Récidives. Questions de principe neuf, Grasset, 2004

Questions de principe huit. Jours de colère, Grasset, 2004

Qui as tué Daniel Pearl?, Grasset, 2003
[Chi ha ucciso Daniel Pearl?, Rizzoli, 2003]

Rapport au Président de la Répubblique et au Premier Ministre sur la contribution de la France à la reconstruction de l’Afghanistan, Grasset-La Documentation française, 2002

Questions de principe sept. Mémoire vive, LGF, 2001

Réflexions sur la Guerre, le Mal et la fin de l’Histoire, Grasset, 2001
[I Dannati della guerra – Riflessioni sulla guerra, il male, la fine della storia, il Saggiatore, 2002]

Le siècle de Sartre, Grasset, 2000
[Il secolo di Sartre, Il Saggiatore, 2004]

Questions de principe sex. Avec Salman Rushdie, LGF, 1999

Comédie, Grasset, 1997

Le Lys et la Cendre: journal d’un écrivain au temps de la guerre de Bosnie, Grasset, 1996

Questions de principe cinq. Bloc-notes, LGF, 1995

La Pureté dangereuse, Grasset, 1994

Les Hommes et les Femmes (avec Françoise Giroud), O.Orban, 1993

Le jugement dernier, Grasset, 1992

Questions de principe quatre. Idées fixes, LGF, 1992

Piero della Francesca/Mondrian, La Différence, 1992
[Piero della Francesca/Mondrian, Spirali, 1992]

Les aventures de la liberté: une histoire subjective des intellectuels, Grasset, 1991

César: les bronzes, La Différence, 1991

Questions de principe trois. La suite dans les idées, LGF, 1990

César – à celui qui était trop gai, La Différence, 1990

Frank Stella: les années 80, La Différence, 1989

Les derniers jours de Charles Baudelaire, Grasset, 1988
[Gli ultimi giorni di Charles Baudelaire, De Agostini, 1989]

Éloge des intellectuels, Grasset, 1987
[Elogio degli intellettuali, Spirali, 1987]

Questions de principe deux, LGF, 1986
[Questioni di principio, Spirali 1987]

Impressions d’Asie, Le Chêne-Grasset, 1985

Le Diable en tête, Grasset, 1984
[Il Diavolo in testa, De Agostini, 1985]

Questions de principe, Denoel-Gonthier, 1983

L’ideologie française, Grasset, 1981
[L’ideologia francese, Spirali, 1981]

Le testament de Dieu, Grasset, 1979
[Il testamento di Dio, SugarCo, 1979]

La barbarie à visage humain, Grasset, 1977
[La barbarie dal volto umano, Marsilio, 1977]

Bangladesh, nationalisme dans la révolution, Maspero, 1973
(ripubblicato con il titolo Les indes rouges, LGF, 1985)