Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Sarkozy e la sua legge. Perché Obama? Viva il Kosovo libero

Non molto da aggiungere a quanto già detto da Badinter. E da Bredin. E da Sureau. Questa legge sulla ritenzione di sicurezza è una legge terribile. È una legge che, per la prima volta, intende sanzionare un soggetto non per ciò che ha fatto ( e per cui ha già pagato), ma per ciò che potrebbe fare (e che non farà se lo si continua, a pena scontata, a tenerlo rinchiuso). È una legge che, per conseguenza, volta le spalle a ciò che costituisce l’onore, la grandezza, la difficoltà anche, della giustizia in regime democratico (il criminale, fosse pure il peggiore degli uomini, è un delinquente, non un mostro – ed è , non meno della sua vittima, beneficiario del contratto sociale). E quanto alla volontà, assunta in quanto tale dal capo dello Stato, di trovare l’astuzia che permetta di aggirare il parere negativo del Consiglio costituzionale sulla retroattività di una legge già in se’ problematica, siamo di fronte a un evento inedito, pure questo, nella storia delle nostre istituzioni (da quando la Corte di cassazione è agli ordini dell’esecutivo? il giudice Lamanda sarebbe un altro M.Guaino incaricato di consigliare il presidente e di garantirne la comunicazione? e la non-retroattività non costituisce la base non negoziabile di tutto l’edificio giudiziario?). Si è imbarazzati a ricordare l’evidenza. Ma i delinquenti non sono dei malati. I giudici non sono psichiatri incaricati di evitare i rischi di ricaduta. E fare della giustizia un settore della clinica, sostituire allo schema della responsabilità quello della pericolosità e del suo evitarsi, significa riallacciarsi ai tempi cupi della giustizia penale premoderna. Bisogna difendere la società, diceva Foucault. Bisogna difenderla contro se stessa. Ma anche, all’occorrenza, contro gli apprendisti stregoni che essa ha eletto e che giocano con i princìpi in nome di un populismo penale che bisogna combattere senza sconti.

Il mistero si chiama Obama. Un po’ lo conosco. E, soprattutto, ho avuto modo di conoscerlo in un momento, luglio 2004, in cui nessuno parlava ancora di lui, e in cui gli organizzatori della convenzione democratica ne ritenevano il peso talmente trascurabile da metterne il discorso in programma per la parte conclusiva della serata, quando le gradinate cominciano a svuotarsi e quando gli annunciatori della CNN hanno terminato i loro resoconti. Allora , sull’Obamania del momento, ho due spiegazioni. La prima, è che gli Americani sono un grande popolo repubblicano e che questo popolo si sta facendo tranquillamente i suoi calcoli: quattro anni di Bush padre, più otto anni di Bush figlio, più otto anni di Clinton Bill, più otto anni di Clinton Hillary, questo farebbe, se Hillary passasse e se, come gli altri, ricoprisse due mandati, vent’otto anni di potere nelle mani di due famiglie, due solamente, altrimenti detto due dinastie – insopportabile, avrebbe detto Tocqueville, in questo paese così ribelle ad ogni forma di oligarchia. E poi, secondo, Obama è nero,certo; ma non nero come Jesse Jackson; non nero come Al Sharpton; non nero come sono i Neri nati in Alabama o nel Tennessee e che, appena appaiono, rammentano all’America i ricordi della schiavitù, dei linciaggi, del Ku Klux Klan; no; Nero venuto dall’Africa; Nero discendente, non di uno schiavo, ma di un Kenyota; un Nero che, per conseguenza, ha l’incomparabile merito di non richiamare l’America media alle pagine vergognose della sua storia; se Obama vincerà, sarà a causa del suo talento, sicuro; a causa del suo carisma; a causa delle sue posizioni contro la guerra; della dimensione da nuovo Kennedy e da nuova frontiera che offre al suo paese; ma sarebbe anche perché è il primo politico nero a cui la biografia permetta di giocare non le corde della colpevolezza ma quelle della seduzione – il primo in grado di poter rappresentare non il rimprovero all’America, ma la sua promessa.

L’indipendenza del Kosovo sarà un esempio per tutti gli irredentismi d’Europa e di Navarra? Forse. Nessuno lo sa. Ma ciò che si sa, invece, e di sicuro, è che ci sono delle indipendenze giuste, nel senso in cui lo si dice di certe guerre. Quando vi hanno umiliato. Massacrato. Epurato etnicamente. Quando hanno violentato metodicamente le vostre donne. Bruciato non meno metodicamente le vostre case. Quando - presso Racak , nel gennaio 1999- hanno assassinato freddamente, come a Katyn, tutti gli abitanti di un intero villaggio. Quando hanno costretto all’emigrazione forzata un milione dei vostri. Ridotto il vostro paese in macerie. Quando vi hanno, in una parola, nel corso di decenni, reso impossibile la vita. Là, sì, la secessione è un diritto. Là, sì, l’indipendenza è la sola ed ultima delle soluzioni. So cosa ne pensano i Serbi, anche quando sono antitotalitari e democratici. So che sono sinceri quando contestano: "sì, d’accordo; ma noi? la nostra memoria? i nostri monasteri? la nostra genealogia reale e leggendaria? la nostra patria spirituale? la nostra culla?". Ma è prima, amici, che ci si doveva inquietare. Prima del disastro. Prima della distruzione, perpetrata a vostro nome, del vivere insieme jugoslavo. Prima della lunga e criminale follia che ha fatto che i vostri dirigenti abbiano trasformato, ahimè, la culla in tomba. Oggi il male è fatto. E voi non avete, ora, che un diritto. Quello di vedere i Serbi restati in Kosovo viverci liberi, uguali e, naturalmente, in sicurezza. Sotto la protezione di un nuovo Stato. E sotto quella, se necessario, della comunità internazionale.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 28.02.2008
(traduzione: Daniele Sensi)