Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Perché vincerà Barack Obama

Dopo tre settimane, rientro dagli Stati Uniti, in attesa di ritornarvi presto. E, fin d’ora, a venti giorni dal risultato, stendo un primo bilancio della situazione.

Mantengo, più che mai, il pronostico che feci più di quattro fa, all’indomani della penultima convenzione democratica, quando intitolavo un testo su Barack Obama, apparso sulla rivista di Boston The Atlantic Monthly: “Un Clinton nero”.

E, naturalmente, mantengo pure il pronostico di sei settimane fa, quando annunciavo, su queste colonne, in questo bloc-notes, e mentre la maggior parte dei sondaggi davano un risultato opposto, la più che probabile vittoria di Obama sul suo avversario repubblicano, John McCain.

Non che quest’ultimo se la sia giocata male.

Non che abbia deluso i suoi sostenitori, in particolare nel primo “gran dibattito” organizzato dalla CNN e in cui, soprattutto sulle questioni internazionali, non ha sfigurato come possibile presidente.

E la stessa Sarah Palin, nel dibattito affrontato la settimana scorsa con l’altro candidato alla vice-presidenza, Joe Biden, ha mostrato di saper imparare alla svelta e di essere già lontana dall’ex-regina di bellezza dei primi giorni, balbettante, impacciata, terrorizzata da quanti la intervistavano, e che, accumulando gaffe su gaffe, veniva schernita –non senza una violenta ed insopportabile dose di sessismo– dall’insieme dei media, dei siti internet, dei blogger o degli umoristi della potentissima Comedy Channel.

Ma ci sono tre ragioni essenziali che fanno sì che la vittoria abbia sempre meno possibilità di sfuggire al senatore dell’Illinois, malgrado tutto, malgrado la sua inesperienza, malgrado la sua giovinezza, malgrado il fondo di razzismo che persiste nella classe media americana e su cui i nuovi Thénardier della politica statunitense, Hillary e Bill Clinton, non hanno mancato di fa leva durante la campagna per la designazione del candidato.

L’immenso desiderio di cambiamento, innanzitutto, che s’è impadronito di un paese che comincia a risvegliarsi, come un sonnambulo, dall’incubo degli anni Bush.

La crisi economica e finanziaria, in secondo luogo; l’impressione, per tutti, di entrare in una terra incognita dove nessuna delle vecchie bussole, nessuno degli strumenti di navigazione e dei punti di riferimento tradizionali, sono di alcun aiuto; ma la sensazione, allo stesso momento, in quello smarrimento condiviso, che la fede deregolatrice che fu il credo di John McCain durante i suoi ventidue anni al Senato, la sua diffidenza di principio verso un ruolo accresciuto dello Stato federale nella condotta degli affari economici, ovvero il suo lato da Scuola di Chicago ed il suo essere convinto conservatore, siano, ad ogni modo, la peggiore delle soluzioni.

E poi, infine, la crisi morale che gli Stati Uniti stanno attraversando; una profondissima crisi d’identità, quella vertigine che qualche anno addietro ho provato a diagnosticare; il comunitarismo, la balcanizzazione del tessuto sociale, l’allentarsi di un legame di cittadinanza a causa dalla nuova e rovinosa guerra tre le memorie, tra comunità ieri alleate e oggi rivali; insomma, quell’impossibile nazione, quel paese-ed è la sua grandezza-senza nome e senza matrice comune al quale Barack Obama, essendo, l’ho detto spesso, un Nero venuto da fuori, che discende non da una famiglia di schiavi nati nell’Alabama, ma da un Africano del Kenya, era l’unico tra i candidati disponibili a poter restituire il suo fondamento.

Oggi, dunque, affino il pronostico.

Obama vincerà, naturalmente, nel suo Stato, l’Illinois.

Vincerà, anche, nei grossi Stati tradizionalmente in mano ai democratici: quelli della costa Orientale, come lo Stato di New York e la Pennsylvania; quelli della costa Occidentale, quali la California o lo Stato di Washington, con Seattle, la sua capitale.

Ma avrà la meglio, anche, nella seguente serie di “swing states”, i famosi “Stati in bilico” la cui sorte era, fino a questi ultimi giorni, molto incerta, ma che si ritiene stiano schierandosi dalla sua parte: il Nevada, la Virginia, il Colorado, il Michigan, la Carolina del Nord, e senza dubbio l’Ohio.

Non è nemmeno escluso, infine, che avrà la meglio nei tre Stati che inviano rispettivamente 5,11 e 27 delegati al collegio elettorale cui tocca, seconda la Costituzione, l’elezione formale del presidente, l’indomani del 4 novembre- tre Stati che erano bastati, nelle due precedenti elezioni, a fare la differenza tra George W.Bush e Al Gore, e, la volta dopo, tra George W.Bush e Johh Kerry: il Nevada, il Missouri e la Florida.

Bene.

E’ tutto.

E, se le cose andranno come dico, Barack Obama stravincerà su John McCain, con un distacco di un centinaio abbondante di delegati, forse 150- cosicché potrà rimodellare molto profondamente la più potente e, oggi, la più vulnerabile delle economie-mondo.

Per tutti, amici o no dell’America, non esisterebbe epilogo migliore.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 9.10.2008
(traduzione di Daniele Sensi)