Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

SOS Georgia? SOS Europa!

Non crediate si tratti solo di una faccenda locale: si tratta probabilmente della svolta più decisiva nella storia europea dalla caduta del muro di Berlino. Ascoltate Mosca gridare: “genocidio!”, come accusa Putin che questa parola, però, non si è degnato di pronunciarla in occasione del 50° anniversario di Auschwitz; - e “Monaco!”, come invoca il tenero Medvedev, volendo insinuare che la Georgia, con i suoi 4,5 milioni di abitanti, sia la reincarnazione del Terzo Reich. Ci guarderemo dal sottovalutare le capacità mentali di tali dirigenti. Ma riteniamo che fingendo indignazione, essi non manifestino che la volontà di infliggere un duro colpo. E’ evidente che gli spin doctors del Cremlino abbiano ripassato i classici della propaganda totalitaria: più è grossa la mia menzogna, più sono convincente - e più serro colpi decisivi.

Chi ha sparato, questa settimana, per primo? La domanda non conta più nulla. I Georgiani si sono ritirati dall’Ossezia del Sud, territorio che la legge internazionale pone, non dimentichiamocelo, sotto la loro giurisdizione. Si sono ritirati dalle città vicine. Dovrebbero ritirarsi pure dalla loro capitale? La verità è che l’intervento dell’esercito russo fuori dai suoi confini, contro un paese indipendente membro dell’ONU, è una novità, dall’invasione dell’Afghanistan in poi. Nel 1989, Gorbaciov aveva rifiutato di inviare i carri armati sovietici contro la Polonia di Solidarnosc. Eltsin si è ben guardato, cinque anni dopo, dal permettere alle divisioni russe di entrare in Jugoslavia per sostenere Milosevic. Lo stesso Putin non ha rischiato di mobilitare le sue truppe contro la “rivoluzione delle Rose” (Georgia, 2002) ed in seguito contro la “rivoluzione arancione” (Ucraina, 2004). Oggi, tutto traballa. Ed è un mondo nuovo, con nuove regole, quello che si profila sotto i nostri occhi.

Cosa aspettano l’Unione europea e gli Stati Uniti per bloccare l’invasione della Georgia, loro amica? Vedremo Mikhail Saakashvili, leader filo-occidentale, democraticamente eletto, silurato, esiliato, rimpiazzato da un fantoccio, o appeso ad un cappio? L’ordine sarà ristabilito a Tbilisi così come venne ristabilito a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968? A queste semplici domande , una risposta, una sola, s’impone. Si tratta di salvare una democrazia minacciata di morte. Perché non si tratta solo della Georgia. Ma anche dell’Ucraina, dell’Azerbaigian, dell’Asia centrale, dell’Europa dell’Est, e dunque dell’Europa. Se permettiamo che i carri armati e i bombardieri distruggano la Georgia, è come se noi dicessimo a tutti i paesi più o meno vicini alla Grande Russia che mai noi li difenderemo, che le nostre promesse sono carta straccia, i nostri buoni propositi parole al vento e che da noi nulla devono aspettarsi.

Rimane poco tempo. Cominciamo dunque col denunciare chiaramente chi è l’aggressore: la Russia di Putin e di Medvedev, il fantomatico sconosciuto “liberale” che si ritiene dovrebbe ponderare il nazionalismo del primo. Rompiamo, dunque, con il regime della tergiversazione e delle lucciole prese per lanterne: i 200 000 ceceni uccisi -dei “terroristi”; la sorte del Caucaso del Nord - una “questione interna”; Anna Politkovskaya - una “suicida”; Litvinenko - un “E.T.”… E ammettiamolo infine che l’autocrazia putiniana, nata grazie agli oscuri attentati che insanguinarono Mosca nel 1999, non è un partner affidabile, ancor meno una potenza amica. In virtù di quale diritto questa Russia, aggressiva e in cattiva fede, è ancora membro del G8? Perché siede al Consiglio d’Europa, istituzione votata a difendere i valori del nostro continente? A che pro mantenere onerosi investimenti, soprattutto tedeschi, per il gasdotto sotto il Baltico con il solo vantaggio –russo- di mettere in corto circuito le condutture che passano dall’Ucraina e dalla Polonia? Se il Cremlino insiste con la sua aggressione nel Caucaso, non sarebbe opportuno che l’Europa riconsiderasse l’insieme delle sue relazioni con il grande vicino? Vicino che ha bisogno di vendere il suo petrolio, come noi di acquistarlo. Non è sempre impossibile ricattare un ricattatore. L’Europa, se trova l’audacia e la lucidità per lanciare la sfida, è forte. Altrimenti, è morta.

I due firmatari di questo articolo imploravano pubblicamente, in una lettera datata 29 marzo, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy di non ostacolare l’avvicinamento della Georgia e dell’Ucraina alla Nato. Una decisione positiva, scrivevamo, “tutelerebbe i due territori, quello georgiano e quello ucraino. Il gas continuerebbe ad arrivare. E la logica di guerra, che spaventa i Norpois, presto si incepperebbe. In caso contrario, siamo convinti che il nostro rifiuto lancerebbe un segnale disastroso ai nuovi zar della Russia nazionale e capitalista. Mostrerebbe loro che siamo deboli ed inetti, che la Georgia e l’Ucraina sono terre di conquista e che siamo disposti ad immolarle di buon cuore sull’altare delle rinnovate ambizioni imperiali russe. Non integrare o, meglio, non preoccuparsi di integrare questi paesi nello spazio della civiltà europea destabilizzerebbe la regione. In breve, è cedendo a Vladimir Putin, è sacrificandogli i nostri principi, è dichiarando forfait senza aver prima provato nulla, che noi rinforzeremo , a Mosca, il più aggressivo nazionalismo”. Era un considerare il peggio, senza volerci credere troppo. Me il peggio si è verificato. Per non disturbare Mosca, la Francia e la Germania hanno posto il loro veto a questa prospettiva di integrazione. Putin ha recepito così bene il messaggio che ha lanciato la sua offensiva a mo’ di ringraziamento.

È giunto il momento di cambiare metodo. Gli europei hanno assistito, impotenti perché divisi, all’assedio di Sarajevo. Hanno visto consumarsi, impotenti perché ciechi, la tragedia di Grozny. La viltà ci obbigherà, questa volta, a contemplare, passivi e prostrati, la capitolazione della democrazia a Tbilisi? Lo stato maggiore del Cremlino non ha mai creduto nell’esistenza di una “Unione europea”. Esso confida che, sotto le belle parole di Bruxelles, brulichino rivalità secolari tra sovranità nazionali, manovrabili a piacere e reciprocamente paralizzanti. Quello georgiano vale come test di esistenza o non esistenza: l’Europa così come la si è edificata contro la cortina di ferro, contro i fascismi, vecchi e nuovi, contro le sue stesse guerre coloniali, l’Europa che ha festeggiato la caduta del muro di Berlino e salutato le rivoluzioni di velluto, si ritrova sul bordo del coma. 1945-2008… Vedremo suggellarsi nel Caucaso, nelle olimpiadi dell’orrore, la fine della nostra breve storia comune?

André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, Libération, 14.08.2008
(traduzione di Daniele Sensi)