Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Barack Obama, l'Europa e la questione pakistana

Ancora una volta, Obama mantiene la parola. Colui che, quasi cinque anni fa, quando era soltanto il giovanissimo senatore dello stato dell’Illinois, già spiegava come il problema numero uno non fosse l'Iraq ma il Pakistan, venerdì scorso ha ben precisato la propria strategia nei confronti del “paese dei puri”. E quanto ci dice non solo conferma ciò che all’epoca era solo l’intuizione di un giovanissimo uomo, ma costituisce una catena di proposte ben formulate, di una solidità che non fa una piega, e che rompono, tutte, con quello che rimarrà il più enorme degli errori strategici degli anni Bush.

Prima proposta. Il Pakistan costituisce, più dell'Iraq dunque, più del Medio Oriente, ed anche più dell'Iran di Ahmadinejad, il vero buco nero che la diplomazia internazionale dovrà affrontare. È lui la retrovia di Al Qaeda. È lui il vivaio del terrorismo più fanatico. E questo non è vero né ai margini (le famose “zone tribali” tra Afghanistan e Pakistan) né per caso (certi gruppi del Kashmir per mettere in ginocchio i quali l'esercito ufficiale farebbe di tutto) ma, oserei dire, eminentemente (non sono forse i servizi di sicurezza pakistani che si infiltrano nella maggior parte di questi gruppi criminali lasciando che essi prosperino fino al centro di Islamabad ?). Gli osservatori seri lo sapevano. Daniel Pearl è morto per aver detto troppo sull'argomento. Ed io stesso ho dedicato un libro intero, “Chi ha ucciso Daniel Pearl?”, ai legami fra l'ISI e quei gruppi, come il Lashkar-e-Janghvi o il Lashkar-e-Toiba, che sembravano, a ragione, il nocciolo duro della nebulosa Bin Laden. Ma colui che nel frattempo è divenuto il presidente della più grande democrazia del mondo lo dice con una tale determinazione che i suoi principali consiglieri, come Richard Holbrooke, ne sembrano a loro volta persuasi e che il capo di Stato maggiore interforze, Michael Mullen, arriva a spiegare, con franchezza, come la strumentalizzazione di Al Qaeda attraverso l’ISI (e viceversa) è un fatto accertato che “deve cambiare” - ecco, sì, un‘autentica svolta.

Seconda proposta: si può, prosegue Obama, sostenere il Pakistan. Lo si può continuare a considerare un alleato di primo piano. Gli si può fornire ogni aiuto, di qualsiasi natura, necessario allo sviluppo di quel grande paese che è esso divenuto. Ma questo aiuto non può più essere cieco. Non può più essere automatico. Non si possono più continuare a distribuire miliardi di dollari a chi poi li dirotta verso “ONG” come la Ummah Tameer-e-Nau, da me identificata a suo tempo e che, in collegamento con la lobby nucleare di Abdul Qader Khan , il Dottor Stranamore pakistano, forniva ad emissari di Bin Laden il necessario per montare armi atomiche miniaturizzate. In altre parole, questo aiuto deve essere “vincolato”. Deve essere “condizionato”. Può continuare decentemente a funzionare solo se accompagnato da misure che costringano coloro che lo ricevono a “renderne conto”. Pure qui, siamo di fronte all'evidenza. Pure qui si tratta di ciò che gli stessi i pakistani - perlomeno quelli che hanno a cuore i diritti dell'uomo quanto il proprio Paese - reclamano da decenni. Ma che un Presidente americano ne prenda atto, che accetti di fornire il suo aiuto non come una cornucopia, ma come uno strumento politico e una leva, che abbia l'audacia di farne un dispositivo di pressione -se non di ricatto- democratico, è un altro evento di primissima importanza.

Terza proposta: i principali nemici di quest’Al Qaeda che in Pakistan si muove come un pesce nell'acqua, non sono gli americani. Sono, dice sempre Obama, i pakistani stessi. Di nuovo, lo si sapeva. Di nuovo, e per parlare solo di quello che io ho visto e filmato di persona, tutti sapevano che la madrasa di Binori Town è il santuario, in piena Karachi, di bande la cui occupazione preferita è ciò che pudicamente viene definito, laggiù, lo “scontro inter-settario”, ma che in realtà significa massacro a sangue freddo di sciiti disarmati. E, anche in questo caso, nessun pakistano può ignorare che sono le proprie figlie, le proprie amiche, la propria moglie ad essere in prima linea in una guerra dove si continua a bruciare viva una donna sorpresa a guardare un uomo che non sia il marito. Ma che il Presidente Obama, di nuovo, ne prenda atto, che affermi - sono le sue parole - che Al Qaeda è un “cancro” e che questo un cancro sta “distruggendo il Paese dall' interno”, che proclami dinanzi al mondo di voler soccorrere milioni di musulmani, bersaglio di tale violenza, significa che finalmente è stata trovata la formula di una lotta contro il terrorismo capace, per la prima volta, di evitare lo scoglio dello scontro di civiltà alla Bush e alla Huntington.

Andare a cercare il nemico fin dentro il cuore dello Stato pakistano… Far dipendere l’aiuto offerto a questo Stato dallo zelo che esso metterà nell'epurare i propri servizi segreti… Rilevare come l'unico scontro di civiltà che conti è quello, in seno all'Islam, che oppone jihadisti e moderati… Gli europei conoscono i termini dell'equazione. Cosa aspettano a dirlo? E, una volta detto, cosa aspettano a prestare la loro collaborazione alla revisione della dottrina geostrategica più decisiva del momento?

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 2.04.2009
(traduzione di Daniele Sensi)