Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Con il popolo iraniano, come non mai

Enorme truffa elettorale o no?

Nuova forma di colpo di stato o no?

E come interpretare queste strane elezioni i cui risultati sono stati annunciati dalla stampa legata ai servizi segreti e alle milizie filogovernative ancor prima che gli scrutini fossero terminati? Vista l’assenza di osservatori internazionali, visto che gli scrutatori inviati dagli oppositori di Ahmadinejad sono stati cacciati dai seggi a colpi di manganello, e considerato il clima di terrore in cui le elezioni si sono svolte, è difficile pronunciarsi con certezza. Ma tre cose, ad ogni modo, restano certe.

La prima è che queste elezioni sono state democratiche solo in apparenza. Mir Hossein Moussavi, il principale rivale di Ahmadinejad, è anche lui figlio del sistema. A proposito del “diritto” dell’Iran al nucleare, le sue posizioni non differiscono di molto da quelle di Ahmadinejad. Inoltre, interrogato sulle dichiarazioni negazioniste dell’avversario, Moussavi non ha esitato a dichiarare: “Ammettendo che ci sia stato lo sterminio degli ebrei in Germania (si noti la sottigliezza di quell’ammettendo che...), cosa avrebbe esso a che fare con il popolo oppresso della Palestina, vittima di un olocausto a Gaza (questo dice tutto...)?”. In altre parole, non ci troviamo di fronte ad un Gorbaciov iraniano. L’uomo che possa osare una vera perestroika resta inconcepibile, e inesistente, in una repubblica islamista ad oggi più blindata che mai. E gli osservatori che commentavano l’"alternativa" proposta da un uomo, Moussavi appunto, già primo ministro di Khomeini, oltre che direttore onnipotente dell’equivalente iraniano della Pravda, peccavano per ingenuità - un po’ come quelli che, ai tempi della trionfante Unione Sovietica, discettavano sulle impercettibili lotte tra fazioni in seno a un apparato maestro, anch’esso, nell’orchestrare la propria commedia. È un dato di fatto.

L’altro fatto certo, peraltro, è il desiderio di cambiamento di una parte non indifferente, forse addirittura maggioritaria, della società iraniana. Gli elettori esasperati che vediamo, da domenica, sfidare i paramilitari delle milizie... Le donne che, a Teheran ma anche a Isfahan, Zahedan e Shiraz, reclamano l’uguaglianza dei diritti... I giovani, collegati tutto il tempo alla Rete e che hanno fatto di Facebook, di Dailymotion e del sito “I love Iran” il teatro di una guerriglia ludica ed efficace... I conducenti di taxi, araldi della libertà di espressione... Gli intellettuali... I disoccupati... I mercanti dei bazar in rotta contro un governo che li manda in rovina... In breve, i ribelli contro gli imbroglioni. I blogger e i burloni contro i sepolcri imbiancati dell’apparato militare islamista. L’autore anonimo della battuta che, rimbalzata tramite sms su milioni di cellulari, a quanto pare diverte i manifestanti: “Perché Ahmadinejad si pettina con la riga in mezzo? per separare i pidocchi maschi dalle femmine”... Tutti costoro hanno votato per Moussavi. Ma senza farsi illusioni. In mancanza di meglio. Come i polacchi di Solidarnosc che, negli ultimi anni del comunismo, autolimitavano la loro rivoluzione in attesa di vedere il regime autodistruggersi e sparire.

La terza certezza, infine, è che l’iniziativa, all’improvviso, torna più che mai nelle mani delle democrazie. Delle due l’una, infatti. O vincono i partigiani della realpolitik, ci rassegniamo davanti al presunto verdetto delle urne e ratifichiamo il peggio, come quel ministro degli Affari esteri francese che, nel 1981, al momento del colpo di Stato contro Solidarnosc, pronunciò il suo famoso “Sia chiaro che noi non faremo nulla”. Oppure, davanti a un Paese diplomaticamente isolato, davanti a un regime nella cui caduta sperano, più o meno esplicitamente, tutti gli Stati confinanti, davanti ad un’economia esangue incapace persino di raffinare il proprio petrolio, decidiamo di ricorrere ai mezzi che abbiamo a disposizione e che sono molto più numerosi di quanto si pensi.

Eviteremo così la doppia catastrofe che sarebbe, da un lato, l’inasprimento della repressione, forse addirittura un bagno di sangue a Teheran, e, dall’altro, l’inevitabile rafforzamento di uno Stato jihadista che rappresenterebbe un terribile pericolo per il mondo, dotato com’è di un arsenale nucleare che -non ne ha mai fatto mistero- non esiterebbe a mettere immediatamente al servizio dell’Imam nascosto e della sua apocalittica riapparizione.

Da queste tre certezze, prese insieme, scaturisce un obbligo chiaro: fare di tutto per aiutare e rafforzare la società civile iraniana in rivolta. L’abbiamo fatto, un tempo, con l’URSS. Abbiamo finito col comprendere, dopo decenni di vigliaccheria, che, giunto ad un certo stadio di putrefazione, il totalitarismo traeva la propria forza solo dalle nostre debolezze. E noi abbiamo saputo organizzare catene di solidarietà con coloro che venivano definiti dissidenti e che alla fine trionfarono sul sistema. In Iran esiste l’equivalente di quei dissidenti. Questi sono persino -lo stiamo scoprendo in queste ore- infinitamente più numerosi e potenti. E’ loro che occorre sostenere. E’ loro che bisogna incoraggiare. La “mano tesa” di Obama? Possa essa essere anche tesa in direzione di questa gioventù, onore di un popolo che ha dato i natali ad Avicenna, Razi, al-Ghazali, Rumi e tanti altri. È questa la posta in gioco.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 18.06.2009
(traduzione di Daniele Sensi)