Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

Perché commemorare i morti della Shoah

Non bisogna lasciare, si chiedono taluni, che i morti seppelliscano i morti e che l' oblio, il buon oblio, cicatrizzi le ferite del passato? Certo che sì. Del resto nulla è più conforme ai comandamenti della Torah dell'ingiunzione evangelica di seppellire subito, una volta per tutte, i morti. Salvo… Sì, salvo quando si tratta di morti non ancora, appunto, seppelliti. Salvo quando si tratta di morti la cui stessa morte implicava che fosse senza tomba. Salvo quando si tratta di morti di cui era previsto che non lasciassero traccia in alcun luogo. Allora, sì, spetta ai vivi essere le tombe viventi di quei morti. E allora sì, in via eccezionale, è dovere dei sopravvissuti portare in sé il ricordo dei padri che, per sempre, avranno l'età dei propri figli. Noi siamo le tombe dei nostri padri... Quei morti, quei poveri morti, hanno grandi dolori... Sono parole di Baudelaire. È il caso della Shoah.

Quel crimine, dicono ancora alcuni, fu un grande crimine. Ma cosa vi fa dire che sia più grande di altri? e perché, nel susseguirsi di crimini che è la storia degli uomini, questo posto d'eccezione? Non si tratta di questo, naturalmente. E nulla è più estraneo alla tradizione ebraica dell'idea di stabilire, fra i morti, una qualsiasi gerarchia. Salvo che lì si verificò un evento senza precedenti. Ovvero un progetto di messa a morte che non solo implicava l'assenza di tracce, ma anche l'impossibilità per le vittime di trovare un luogo, uno solo, dove sottrarsi ai carnefici. Le vittime degli altri genocidi potevano, in teoria, avessero trovato asilo in un Paese vicino, sfuggire agli assassini. Nessuna via d'uscita per gli ebrei. L'Europa intera e presto, in teoria, tutto il mondo, a mo’ d’immensa trappola. Uno sterminio - è questa la sua singolarità - che, poiché non prevedeva "resto", superstiti, non lasciava via di scampo.

La nozione di sterminio senza “resto”, è importante per un'altra ragione, concreta, e questa ragione è Israele. Perché, di nuovo, si sente dire: "sì, d'accordo, un crimine; sì, a rigore, un crimine singolare; ma perché si sono dovuti installare i superstiti della tragedia nell'unica parte del mondo che non partecipò al crimine e che è il mondo arabo?". Di nuovo, la risposta: è il mondo stesso che si fece trappola; non ci fu una sola parte del mondo in cui non soffiò il malvagio vento di quella morte; e il mondo arabo non fu da meno nel progetto di sterminio totale. Noi abbiamo, oggi, tutte le informazioni sulla questione. Abbiamo le Memorie del Gran muftì - hitleriano - di Gerusalemme. Abbiamo i lavori degli storici che raccontano di come la legione SS araba aspettasse, dietro l'esercito di Rommel, il momento di attaccare, sterminare gli ebrei già insediati in Palestina. Sappiamo, in altre parole, che il nazismo fu un'ideologia mondiale che conobbe versioni nazionali e, in particolare, una versione araba – ed anche per ricordare tutto ciò serve commemorare la Shoah.

Scrivo queste righe il 20 aprile 2009. Per fissare questa commemorazione si sarebbe potuto scegliere il giorno dell'apertura dei campi. O quello della Conferenza di Wannsee. O qualsiasi altro giorno che testimoni il martirio degli ebrei. Invece no. È stato scelto il 27 nisan del calendario ebraico -quest'anno, il 20 aprile, e dunque l'anniversario dell'insurrezione nel ghetto di Varsavia. E negli aspri dibattiti che presiedettero a tale scelta, questo dettaglio non sfuggì certo a nessuno. Cosa significava? Che si voleva infrangere il luogo comune di un popolo che va a morire come le bestie al macello. Che si volevano celebrare episodi eroici come le rivolte di Sobibor, di Birkenau, di Treblinka. Che si voleva cioè commemorare un massacro, ma anche una resistenza. Per me, che sono figlio non di un deportato, ma di un resistente, questa volontà è essenziale. Essa invita a ricordare che c'è sempre una possibilità, persino nella notte più nera, di insorgere e di sperare.

Un'ultima parola. Poiché parliamo di calendario, è invece per puro caso che si sia aperta, lo stesso giorno, la conferenza "antirazzista" di Durban II. E di nuovo si sono levate alcune voci per dire: "non temete, tenendo lo sguardo fisso sui vecchi genocidi, di non scorgere quelli che avvengono qui, adesso, sotto i vostri occhi?". Ebbene, nessun timore. Poiché, oltre al fatto che suddetta conferenza si è tramutata (ci tornerò sopra) in una carnevalata, oltre al fatto che essa è servita a quel criminale di Ahmadinejad (tornerò pure su questo) per infangare il bel concetto di antirazzismo, io capovolgo la domanda. Perché le istituzioni votate al ricordo della Shoah si sono mobilitate, tutte, per il Darfur? Perché i primi ad aver capito quel che succedeva in Ruanda furono coloro, ebrei o non ebrei, che avevano a cuore la Shoah? Perché, quando il mondo chiudeva gli occhi sul massacro dei musulmani di Bosnia, a suonare l'allarme furono uomini che un solo pensiero avevano in comune, il "mai più" di Auschwitz? Non erano più informati di altri. Avevano giusto una bussola. Una scala del male e del peggio. Una sorta di radar che segnalava, ogni volta, la prossimità della Bestia e il suo caratteristico profumo. È questo, il ricordo della Shoah. Ed è per questo che bisogna commemorarla.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 23.04.2009
(traduzione di Daniele Sensi)