Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

E il Darfur?

Amici del Tibet e della causa tibetana, voglio dirvi, ancora una volta, che c’è un altro disastro di cui il potere totalitario cinese è gravemente responsabile: quello del Darfur.

Non che, ben inteso, lo Stato e l’esercito cinese vi siano direttamente implicati.

E non che, come in Tibet, essi siano i soli responsabili di una crisi che non potrebbe protrarsi da così tanto tempo se essa non avesse l’assenso, più o meno silenzioso, dell’insieme delle nazioni (gli Stati Uniti, per esempio, parlano molto ma agiscono poco; la Francia, prima delle elezioni, prometteva ancora di più e ora mantiene ancora di meno; e non è purtroppo colpa dei cinesi se nessuno si decide a consegnare i diciotto elicotteri necessari al dispiegamento della forza d’interposizione, elicotteri reclamati a gran voce dal capo delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, Jean-Marie Guéhenno).

Ma, ciò detto, la Cina rappresenta il principale sostegno diplomatico al regime assassino di Kartum.

É lei che, da cinque anni, ostacola la sua condanna formale da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

É lei che lo mantiene in vita acquistando il suo petrolio e servendosi dei suoi porti come punto di accesso alle materie prime di cui essa ha un bisogno vitale e crescente.

É lei che lo arma.

É lei che fornisce a Omar el-Bechir, il suo presidente, gli aerei, i camion, le armi pesanti e leggere che sostengono o equipaggiano le milizie di Janjawids che seminano terrore nel djebel Marra e in altre regioni.

É su di lei, altrimenti detto, che da cinque anni a questa parte si sarebbe dovuto far pressione- ed è su lei che si dovrebbe, più che mai, agire - per arrestare la più orribile distruzione di popolazioni civili cui ci sia dato assistere dalla fine, tre anni fa, della guerra condotta dallo stesso El-Bechir contro gli animisti e i cristiani nel sud del Sudan.

Perché io voglio dire anche agli amici del Tibet e della causa tibetana che si ha a che fare, nel Darfur, con un tipo di carneficina senza confronto, grazie al cielo, con ciò che conosce il Tibet di oggi.

Si uccide in Tibet, naturalmente.

Ed il blocco dell’informazione lì è tale che nessuno è capace di dire quante decine di bonzi, di studenti, di giovani, siano già caduti sotto i proiettili della soldataglia cinese.

Ma in Darfur, ahimè, non si contano i morti né a decine, né a centinaia, e neppure a migliaia o a decine di migliaia.

Ma in Darfur, ahimè, è in massa che si muore, stavo per dire alla rinfusa, su di una scala paragonabile, se proprio si tiene a simili confronti, solo a ciò che conobbe il Tibet, quasi cinquant’anni fa, all’epoca di quelle famose sommosse del 1959 in cui si contarono, secondo le statistiche ufficiali, fino a 80 000 morti.

Ma in Darfur, dunque, i Cinesi determinano, o ispirano, una situazione che ho avuto occasione di testimoniare un anno fa, con un reportage pubblicato prima da Le Monde e poi dalla stampa anglosassone: zone intere del paese ridotte a terra bruciata; centinaia di chilometri in cui si può vagare senza incontrare anima o corpo vivo; riserve di superstiti trattati come bestiame; stupro delle donne e delle bambine eretto a strategia; e, oggi stesso, mentre scrivo queste righe, attacchi aerei che riprendono nella parte occidentale della provincia, mentre almeno 20 000 nuovi sfollati vengono privati di ogni aiuto umanitario nella sola regione del djebel Moon.

Allora lontano da me, evidentemente, l’idea di opporre questo a quello.

E nulla mi è più odioso, l’ho detto più volte e lo ripeto, di quella mania moderna che sono la concorrenza tra le vittime e la competizione delle agonie.

Ma tentiamo di esercitare, almeno, la solidarietà degli scossi.

Estendiamo alla guerra del Darfur l’onda di compassione e di collera che monta di giorno in giorno.

E facciamo almeno in modo che lo slancio di solidarietà che hanno saputo far nascere, con la forza dell’ostinazione della fede, gli amici del Tibet e della causa tibetana, quel bel furore che ne è derivato e che i burocrati ottusi e senza memoria che regnano sulla Cina avevano sotto-stimato, la presa di coscienza, in una parola, dello scandalo che rappresenterebbe, se nulla dovesse cambiare, il fatto stesso dei Giochi olimpici di Pechino, facciamo almeno in modo, dicevo, che tutto ciò concerni anche i martiri dimenticati del Darfur.

Ci sono due condizioni, due, che un democratico degno di questo nome deve assolutamente porre prima di accettare l’idea che si tengano, come se niente fosse, questi nuovi Giochi della vergogna: l’arresto della repressione a Lhasa e l’arresto del bagno di sangue nella provincia darfuriana del Sudan.

Viva il Tibet libero, va bene; ma, per favore, non dimenticate il Darfur.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 17.04.2008
(traduzione di Daniele Sensi)