Bernard-Henri Lévy

Contributi al dibattito politico e culturale

La triste fine di Jimmy Carter

Il problema non è evidentemente se discutere o meno con i Siriani - tutti, chi più chi meno, lo fanno.

Non è di andare ad incontrare , a Damasco, il capo in esilio di Hamas – tutti, Israeliani compresi, finiranno un giorno o l’altro per decidervisi, in virtù di un vecchio principio secondo il quale é con i propri nemici, e non con gli amici, che occorre, alla fin fine, dialogare, fare la pace e mettersi d’accordo.

No.

Il problema è il modo in cui l’ex-presidente Carter si è mosso.

Il problema è il suo inutile e spettacolare abbraccio, a Ramallah, col dignitario di Hamas Nasser Shaer.

Il problema è quel mazzo di fiori pietosamente deposto sulla tomba di un Yasser Arafat che egli sa, come tutti, essere stato un grosso ostacolo alla pace.

Il problema è come abbia potuto qualificare, al Cairo (secondo quanto riferito da un altro responsabile di Hamas, Mahmoud al-Zahar, che non è stato smentito), quale "movimento di liberazione nazionale" un partito, Hamas appunto, che ha fatto del culto della morte, della mitologia del sangue e della razza, dell’antisemitismo versione "Protocollo dei Savi di Sion", i pilastri della sua ideologia.

Il problema, è, ancora, la formidabile beffa fattagli dal capo in esilio del partito, Khaled Meshaal, che proprio mentre lo riceveva faceva esplodere a Karem Shalom un’autobomba, il suo primo grosso attentato da parecchi mesi a questa parte – e il problema è che l’avvenimento non abbia strappato a Carter, tutto preso com’era dai suoi calcoli da mediatore autoproclamato, non una parola di turbamento né di riprovazione.

L’ex-presidente, si dirà, è alle solite.

E non data a ieri la strana deriva di colui che fu, trent’anni fa, uno degli artefici della pace con l’Egitto e che non ha smesso, poi, di offendere Israele, di paragonare il suo sistema politico a quello dell’Africa del Sud all’epoca dell’apartheid, di ignorarne il desiderio di pace non meno reale dei suoi errori, di arrivarne perfino a negare le sofferenze (tra altri esempi, il suo intervento, lo scorso anno, sulla CBS dove dichiarava che Hamas da anni non commetteva più il minimo attentato che sia costato la vita a civili - dimenticando così l’assassinio di sei persone al terminale di Karni e quello, il 30 aprile 2004, di 16 passeggeri di due autobus, a Beersheba).

Una cosa è, tuttavia, parlare alla CBS; un’altra è dire le stesse cose, senza mandato, ma forti di una indiscutibile autorità morale, fianco a fianco coi belligeranti.

Una cosa è dire, a Dublino, il 19 giugno 2007, che i veri criminali non sono quelli che strombazzano come Meshaal che Israele deve, "prima di morire", essere "umiliato e degradato" bensì coloro che preferirebbero vedere questi simpatici personaggi allontanati presto o tardi (e, se possibile, più presto che tardi) dai circoli del potere – un’altra è di venire sul posto ad appoggiare con tutta la sua autorevolezza gli elementi più radicali, più ostili alla pace, più profondamente nichilisti, del campo palestinese.

La verità è che, se si volesse screditare l’altro campo, se si volesse umiliare fino all’ultimo e ridicolizzare il solo alto dirigente palestinese – Mahmoud Abbas- che continua, mettendo a repentaglio la propria vita , a credere nella soluzione dei due Stati, se si volesse, in una parola, distruggere gli ultimi sogni degli uomini e delle donne di buona volontà che credono ancora nella pace, non ci si potrebbe comportare diversamente.

Allora, cosa è successo al vecchio premio Nobel per la pace?

Si tratta della vanità di chi, non essendo più nulla, ricerca, prima di lasciare la scena, un ultimo quarto d’ora di celebrità?

Si tratta della senilità di un uomo politico che ha perso il contatto con la realtà e, tra l’altro , con il suo stesso partito (Barack Obama, più nettamente ancora della sua rivale, ha ricordato che è possibile "sedersi" con i rappresentanti di Hamas solo se prima essi "rinunciano al terrorismo, riconoscono il diritto di Israele ad esistere, e rispettano gli accordi passati")?

Si tratterà di una variante dell’odio di se’ e, nella fattispecie, dell’odio per il proprio passato di grande costruttore di pace?

Tutte le ipotesi sono ammesse.

Già era chiaro che l’ex-presidente Carter avesse un punto comune con il -presto ex- presidente Bush: sono due "born again", due cristiani "nati una seconda volta", con tutto ciò che questa mistica, frequente nelle Chiese evangeliche di oggi, presuppone di oscurantismo.

Un altro evidente punto in comune (che, ahimé, la fine del mandato di George W.Bush non smentirà) era che entrambi resteranno, secondo un ordine che la Storia saprà determinare, come i due peggiori presidenti che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto.

Ebbene, ecco un’altra attitudine che accomuna Carter a Bush, attitudine legata ai precedenti punti in comune e che –il caso Carter insegna, ahimè- sopravvive a lungo all’esercizio del potere (avviso a quelli che pensano di sbarazzarsi definitivamente, tra sei mesi, del presidente in carica!): un’identica capacità di trasformare i propri errori politici in disastrose colpe morali.

Bernard-Henri Lévy, Le Point, 24.04.2008
(traduzione di Daniele Sensi)